Linea Biografica
Nato nel 1503 al Mugello, vicino a Firenze, da Pandolfo della Casa e da Lisabetta Tornabuoni, Giovanni (noto soprattutto con l’appellativo “monsignore”, che divenne quasi parte del suo nome) era di famiglia fiorentina nobile e facoltosa. Dopo gli studi seguiti a Firenze, Bologna e Padova, passò a Roma sotto la protezione di Alessandro Farnese, il futuro Papa Paolo III[1], che lo convinse a intraprendere la carriera ecclesiastica. Si fermò però agli ordini minori (solo nel 1551 prenderà gli ordini sacri), il che non gli impedì di percorrere una brillante carriera fino alla nomina nel 1544 ad arcivescovo di Benevento.
In quello stesso anno fu nominato nunzio apostolico a Venezia, incarico particolarmente delicato per i non facili rapporti in materia giurisdizionale fra Curia romana e Venezia, che gli consentì di mettere in luce le sue qualità diplomatiche e la sua assoluta dedizione al Pontefice: istituì il tribunale dell’Inquisizione, istruì i primi processi per eresia e compilò un Indice dei libri proibiti. Nella città lagunare il Della Casa, già conosciuto per la vita mondana, trovò il palco ideale delle sue aspirazioni, con il suo palazzetto sul Canal Grande che divenne il luogo d’incontro della migliore nobiltà veneziana assieme ad artisti, poeti e letterati. Nel 1547, per incarico del Papa, indusse la Repubblica di Venezia ad allearsi con la Francia per combattere contro l’Impero, e per la circostanza compose l’Orazione per la Lega che, insieme all’Orazione a Carlo V per la restituzione di Piacenza, rappresenta un esempio tipico di eloquenza cinquecentesca, di forte vigore e di perfetto adeguamento in lingua italiana ai modi dell’oratoria classica.
Nel maggio del 1548, fatto ritorno a Roma, il Della Casa – con suo grande disappunto – non fu compreso nel numero dei cardinali nominati nel corso dello stesso anno da Paolo III e con la morte del Papa, avvenuta l’anno successivo, cadde in disgrazia. Così, dopo aver venduto il suo Chiericato di Camera per diciannovemila scudi d’oro e aver redatto il proprio testamento, andò via da Roma e si ritirò a vita privata, soggiornando dapprima a Venezia (l551-1553) e quindi in una solitudine non priva del conforto degli studi, nell’Abbazia di Nervesa sul Montello, presso Treviso. Qui compose il Galateo e molte e delle sue rime più belle (1553-1556), notevoli, oltre che per certi esiti tematici connessi al ripensamento della sua biografia, per la peculiarità di una tecnica che rappresentava una svolta, stilistica e di gusto, nella storia del nostro petrarchismo cinquecentesco.
Ma la fama del Casa non diminuì lontano da Roma, anzi si estese ancora di più, tanto che Papa Paolo IV[2] lo volle di nuovo a Roma nell’aprile del 1555 con l’incarico di Segretario di Stato della Santa Sede. Sembra che Della Casa accettasse mal volentieri tale incarico, sia perché le condizioni della corte papale diventavano sempre più burrascose, ma soprattutto perché la sua salute (soffriva di gotta) negli ultimi anni si era andata sempre più aggravando. Comunque, l’incarico era di tale importanza che sembrò finalmente spianargli la strada verso il cardinalato, che era stato da sempre la sua massima aspirazione.
Ma la delusione, già provata nel 1548, si fece ancora più cocente quando il 20 dicembre dello stesso anno seppe che il suo nome non rientrava nel numero dei sette nuovi Cardinali. La mancata nomina aggravò le sue già precarie condizioni di salute: morì poco meno di un anno dopo, nel novembre del 1556.
Il Galateo e le opere minori
Il Galateo ovvero de’ costumi fu pubblicato postumo nel 1558 da Erasmo Gemini de Cesis, segretario dell’autore, il quale spiegò che il titolo del libro deriva dal nome di Galeazzo[3] Florimonte, vescovo di Sessa, il quale, conversando col Della Casa, aveva espresso il desiderio di «vedere intorno a’ modi che la gente nell’usanza comune deve tenere o schifare un trattato nella nostra volgar favella».
Libro di buone maniere, dunque, improntato a una forma di buon senso e di saggezza pratica che mira a una superiore compostezza e armonia nell’illustrare gli obblighi sui quali si fonda la vita associata, a delineare, cioè, più che la figura ideale del gentiluomo di corte del Castiglione, il ritratto di un uomo onesto e gradevole nella società. Non a caso il protagonista del libro fa dipendere la sua saggezza più dalle esperienze trasmesse oralmente che dalle letture dei classici. La finzione del vecchio illetterato che valendosi della sua matura esperienza si fa maestro di un giovanetto e lo stesso stile dimesso adottato dall’autore attraverso l’impiego di forme d’uso familiare, di battute, di una sintassi modellata sulla lingua parlata ribadiscono il tono di affabilità e il carattere di una creazione letteraria che vuol trattare in tono corrispondente soggetti concreti e quotidiani.
La partizione degli argomenti, in ossequio ai canoni della trattatistica morale, della quale peraltro non è osservata la tradizionale forma dialogica, distingue fra cose che recano noia ai sensi, all’appetito, all’immaginazione e all’intelletto, incentrate attorno al tema principale nel rispetto della personalità altrui.
In questo tema si manifesta il diffuso desiderio di civile convivenza fondato sul gusto di una superiore compostezza e armonia e sul culto laico della vita civile, conformemente a quell’interesse maturatosi nell’età umanistica, per l’uomo padrone di sé, che vive e opera nel mondo. Bisogna «temperare e ordinare i […] modi non secondo l’arbìtrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali si usa, e a quello indirizzargli».
Anche la struttura del Galateo è variata dall’inserzione di esempi, novelle, pause narrative, digressioni su vari temi, quali quello della bellezza, definita come «convenevolezza» o armonia delle parti: «Vuole essere la bellezza Uno, quanto si può il più, e la bruttezza per lo contrario è Molti».
Il Galateo di Della Casa, insomma, si inquadra perfettamente nell’epoca rinascimentale, di cui è figlio, ossia in quell’epoca in cui centrale è l’invito tutto moderno a rivolgersi dal cielo alla terra (abbandonando le poco note regioni della metafisica e della religione), un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: alle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il vivere in società quale Della Casa (e con lui molti altri autori di quest’età) lo intende. Le ambiziose pretese onnicomprensive della metafisica e della religione cedono il passo al più modesto tentativo di imparare a comportarsi bene, in modo tale da risultare graditi alla società di cui si fa parte. La ragione, da onnicomprensiva che era nell’età d’oro della metafisica, assume ora, nell’età moderna, nuove colorazioni: essa diventa ragione calcolatrice e dubitante, rinunciataria delle grandi verità e conquistatrice dei quelle piccole, quali appunto possono essere il sapersi comportare in conformità con le buone maniere. Per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la preservazione di se stessi: in Castiglione la preservazione diventa “cortegiania” e in Della Casa trapassa in “galateo”.
Castiglione aveva escogitato lo stratagemma della “sprezzatura”, ossia dell’arte di nascondere l’arte, Della Casa opta per la codificazione di un “galateo”, ossia di un insieme di norme e principi da seguire per risultar graditi alla società; già Cicerone, nel De officis, aveva abbozzato una serie di regole da seguire per possedere il decorum: e l’età rinascimentale eredita quella tradizione ricca di humanitas che trovava nell’Arpinate il proprio vertice indiscusso.
È lo stesso ideale di armonia che ispira la prosa del Della Casa, quella precisa misura di ordine e di intelligenza che non cade mai nel solenne o nello schematico e riflette una serena maturità faticosamente conquistata.
L’ideale di armonia e di discrezione attuato dal Galateo risponde alla concezione pedagogica umanistica, ma mantiene una validità che trascende i limiti del tempo in cui fu scritto e che permise a quegli insegnamenti, insieme a quelli contenuti nel Cortegiano, di concorrere a foggiare il modello di un tipo umano che ha lasciato un’impronta nella storia del costume.
Sempre nel 1558 comparve postuma anche la raccolta Rime, che sono considerate come uno dei più belli e originali canzonieri del 1500. A differenza del Galateo, che si muove stilisticamente su un tono medio, le Rime hanno uno stile sostenuto e solenne che concilia il petrarchismo con le rime petrose di Dante. Il processo evolutivo della lirica di Giovanni Della Casa si sviluppa parallelamente al maturarsi della sua esperienza umana, dalla giovanile, convinta adesione alla lezione del classicismo e del Bembo, attraverso un’educazione letteraria esemplare e una lenta, sapiente e raffinata elaborazione degli strumenti stilistici, alla creazione, negli anni della maturità, di un mondo poetico personale, espresso, con magistero stilistico assoluto, nei toni di un’alta meditazione spirituale e morale.
Le Rime, inoltre, rifiutano le cadenze di una facile e stantia musicalità, insistendo piuttosto sul rapporto tra parola ed immagine, volto ad inseguire quel «parlar magnifico e sublime» (secondo l’elogio del Tasso), che nell’applicazione di nuovi strumenti tecnici e metrici, e soprattutto nell’enjambement[4] (che tanta influenza avrà sui lirici del ’500, sul Tasso e sul Foscolo), trova i mezzi più idonei per una perfetta definizione.
Il rinnovamento degli schemi metrici codificati sperimentato fin dalle prime prove poetiche denuncia, d’altra parte, in Della Casa l’aspirazione a superare i limiti del classicismo e dell’imitazione petrarchistica per attingere una forma di poesia che, all’interno di un’elaborazione stilistica pervenuta ormai a un equilibrio formale perfetto, risolto in una musicalità limpida e conchiusa, si sostanzi di un contenuto meditativo nuovo in armonia con una condizione spirituale più matura e consapevole.
La crisi che investe il poeta deluso e amareggiato per il crollo delle sue aspirazioni e testimone inquieto del mutare dei tempi, si riflette direttamente sulla sua esperienza poetica che egli rivolge negli ultimi anni della sua vita, con nuova consapevolezza, a considerare l’amara e angosciosa vicenda umana personale e a meditarne il significato.
Da ricordare sono anche la sua attività oratoria, della quale abbiamo già detto, la Vita Petri Bembi e i vari volgarizzamenti da autori latini e greci.
*** NOTE ***
[1] Paolo III (Canino, 29 febbraio 1468 – Roma, 10 novembre 1549) era figlio di figlio di Pier Luigi I Farnese, signore di Montalto e Giovannella Caetani, discendente dalla famiglia di Bonifacio VIII. Ricevette la prima formazione umanistica a Roma poi a Firenze, alla corte di Lorenzo il Magnifico. Tornato a Roma, entrò al servizio di papa Innocenzo VIII, che gli assegnò l’ufficio di protonotario apostolico. Successivamente Alessandro VI lo nominò cardinale diacono con il titolo dei Santi Cosma e Damiano. Alla morte di Clemente VII venne eletto papa il 13 ottobre 1534. Nel 1538 scomunicò il re d’Inghilterra Enrico VIII e lo pose sotto interdetto. Successivamento tentò di formare una coalizione di re cattolici contro l’Inghilterra, ma i monarchi dei due principali stati dell’epoca (Francia e Impero), in contrasto tra loro, ne impedirono la realizzazione. Nel 1540 con la bolla Regimini militantis Ecclesiae autorizzò la fondazione della Compagnia di Gesù su proposta di Ignazio di Loyola e il 21 luglio 1542 emanò la costituzione Licet ab initio, con la quale fu istituita l’Inquisizione romana, ossia la Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione del santo Offizio. A causa delle laceranti tensioni religiose tra cattolici e protestanti, al fine di contrastare il diffondersi della Riforma il 22 maggio 1542 Paolo III con la bolla Initio nostri indisse il concilio di Trento, che nel 1547, causa un’epidemia di peste, venne trasferito a Bologna, ove si tennero due sessioni (la prima nel 1547 e la seconda nel 1549). Prodigo di favori verso i familiari investì il figlio primogenito Pier Luigi del ducato di Parma e Piacenza.
[2] Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa (Capriglia, 1476 – Roma, 1559), nacque Giovanni Antonio dei conti Carafa della Stadera, una delle più nobili famiglie del Regno di Napoli, e da Vittoria Camponeschi, figlia di Pietro Lalle, ultimo conte di Montorio. La famiglia affidò la sua educazione allo zio cardinale Oliviero Carafa, raffinato cultore di lettere e mecenate[1], che lo avviò allo studio del greco e dell’ebraico e lo introdusse lo introdusse alla corte del pontefice Alessandro VI. Nel 1505 fu consacrato vescovo di Chieti e successivamente fu impegnato in missioni diplomatiche all’estero. Nel 1524, Clemente VII permise al Carafa di rinunciare ai suoi benefici e di entrare nell’Oratorio del Divino Amore, a Roma: qui conobbe Gaetano Thiene, con cui decise di fondare l’ordine dei Chierici regolari teatini. Nel 1527 scampò al Sacco dei Lanzichenecchi e si rifugiò a Venezia, dove rimase fino al 1534. Richiamato a Roma da Paolo III, fu creato cardinale nel 1536. Venne eletto pontefice nel maggio del 1555 all’età di 79 anni ed uno dei suoi primi provvedimenti fu volto a innalzare l’Inquisizione a organo di governo della Chiesa a tutti gli effetti. uno dei suoi primi provvedimenti fu volto a innalzare l’Inquisizione a organo di governo della Chiesa a tutti gli effetti. Diventarono di competenza del tribunale del Sant’Uffizio anche la repressione degli abusi ecclesiastici (come ad esempio il cumulo di benefici) e la riforma della Curia romana. Il raggio d’azione del tribunale si allargò quindi, dal solo ambito dottrinale fino a quello politico e amministrativo. Il pontefice cercò anche di introdurre l’inquisizione in Francia, scontrandosi però con l’opposizione del Parlamento parigino. Nel 1557 l’Inquisizione istituì l’elenco delle pubblicazioni a stampa di cui la Santa Sede vietava la diffusione, chiamato Index librorum prohibitorum. Paolo IV interruppe anche il tradizionale rapporto di tolleranza tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. Con la bolla Cum nimis absurdum del 14 luglio 1555, il pontefice revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani e ordinò l’istituzione del ghetto, già presente a Venezia e in altre città europee, e che fu il primo dello Stato Pontificio. Paolo IV osteggiò apertamente Carlo V e condannò la pace di Augusta (1555), che sanciva la coesistenza del luteranesimo e del cattolicesimo negli stati tedeschi.
[3] In latino Galatheus.
[4] L’enjambement, che nel Cinquecento era detto “inarcatura”, consiste nella spezzatura sintattica del verso che consente di non far coincidere la fine di un pensiero o di un’immagine con la fine del verso stesso (al Della Casa è stata attribuita la paternità di questo procedimento tecnico per l’applicazione frequentissima che ne opera nella sua lirica).
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»
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