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Marco M. G. Michelini | 2 Febbraio 2020

Linea Biografica

Baldassarre (o anche Baldassar o Baldesar) Castiglione, «uno de los mejores caballeros del mundo», secondo la definizione attribuita all’imperatore Carlo V, nacque a Casatico nel Mantovano il 6 dicembre 1478 da Cristoforo Castiglione (1458-1499), uomo d’armi alle dipendenze del marchese Ludovico Gonzaga, e da Luigia (Aloisia) Gonzaga (1458-1542). Ebbe educazione umanistica a Milano con maestri famosi come Giorgio Merula[1] e Demetrio Calcondila e, sotto la sorveglianza dell’altolocato Giovanni Stefano Castiglioni, giureconsulto e consigliere di Ludovico il Moro, iniziò la sua attività di corte presso lo Sforza. Nel 1499, in seguito alla morte del padre, fece ritorno a Mantova ed entrò al servizio di Francesco II Gonzaga con l’incarico di commissario marchionale. Nel 1504  si trasferì ad Urbino alla corte di Guidubaldo da Montefeltro[2] e, dopo la morte di questi (1508), a quella del suo successore Francesco Maria I Della Rovere. Nel 1513, con l’elezione di papa Leone X, il Castiglione venne inviato a Roma in qualità di agente diplomatico del Della Rovere. Ma nel 1516, con un abile colpo di mano, Leone X, dopo il convegno di Bologna con Francesco I, destituì Francesco Maria I Della Rovere[3] ed insediò nel ducato di Urbino Lorenzo de’ Medici.

Disgustato da tale vicenda, che radicalizzò in lui il sentimento antifrancese, Castiglione fece ritorno a Mantova, ove sposò Ippolita Torelli, nobildonna e poetessa bolognese, che gli dette tre figli: Camillo, Anna e Ippolita. Il matrimonio, intervallato da frequenti assenze, ebbe breve durata: Ippolita morì nel 1520 e l’anno seguente il Castiglione decise di provvedere alla propria carriera accettando lo stato ecclesiastico che gli venne offerto da Leone X. Nel 1524 papa Clemente VII lo inviò come nunzio presso Carlo V a Madrid, compito di estrema importanza data la situazione europea e italiana in particolare, caratterizzata dalle forti tensioni tra Papato e Impero. La vittoria spagnola a Pavia, l’ambiguo trattato di Madrid e il disperato revanchismo di Francesco I, cui Clemente VII finì con l’aderire entrando nella lega di Cognac, fecero precipitare gli eventi: il sacco di Roma nel 1527 e l’imprigionamento del papa decretarono il fallimento dell’opera di mediazione e di pacificazione del Castiglione, che fu accusato, non del tutto immotivatamente, di scarsa preveggenza politica e anche di scarsa fedeltà. Va notato del resto che, per quanto non fosse ovviamente diretto responsabile del disastro, egli di certo non si era rivelato il diplomatico più adatto a giudicare sull’operato dell’imperatore, in quanto affascinato – come di fatto era – dalla personalità di Carlo V, nonché dalle forme di quella corte spagnola che appariva ai suoi occhi come la manifestazione di una superstite affabilità cavalleresca. Da queste accuse il Castiglione si difese con una nobile lettera, nella quale sottolineava la propria assiduità, nonostante le scarse informazioni che gli sarebbero pervenute da Roma nei momenti cruciali dell’attività diplomatica. Per quanto le accuse contro di lui fossero successivamente ritirate, amareggiato e deluso, il Castiglione non volle comunque accettare più nessun incarico e si ritirò a Toledo, dove morì poco dopo, il 7 febbraio 1529.

 

Il Cortegiano e le opere minori

Come scrive giustamente il Maier, parlare del Castiglione significa, soprattutto, parlare del Cortegiano: tanto la personalità dello scrittore mantovano, in ciò che aveva di più alto e nobile, appare compiutamente realizzata in quel libro, in cui non solo aveva espresso nel modo migliore l’aspirazione ideale di un uomo, l’intera ricchezza del suo contenuto spirituale, la sostanza d’un sogno ad un tempo umanistico e moderno, la finezza e la complessità di un’aristocratica e pur lautamente umana concezione di vita, ma aveva anche attuato uno degli ideali più sentiti del nostro Rinascimento: aveva, in altre parole trasposto e risolto in un significativo monumento letterario lo spirito di un’epoca, d’un costume, d’una società.

Nelle prime pagine della dedica a don Michel da Silva, scritta nel 1527, il Castiglione, dopo aver accennato ai «continui travagli» in cui la fortuna l’ha tenuto per molti anni, tanto da impedirgli di rivedere la sua opera, confessa che, nel momento in cui ha deciso di pubblicarla, finalmente corretta e perfezionata, è stato preso da «non mediocre tristezza» considerando quanto le cose sono mutate da quel 1507 in cui si immaginano tenute, presso la corte di Urbino, le conversazioni riferite nell’opera, e soprattutto quanti degli interlocutori sono morti.

È un discorso pieno di alta malinconia e chiarisce il movente che guida il Castiglione a scrivere un «libro come un ritratto di pittura della corte d’Urbino», cioè a fissare il momento di suprema felicità di vita e di ordine morale, sociale, civile, di perfezione e di raffinatezza intellettuale che si ebbe, irripetibile, in quella corte, ultimo argine destinato ad essere travolto dalle guerre, dai capovolgimenti di fortuna e di potere, dai travagli, dalle infinite tragedie di una storia italiana che concentrò in un breve tempo ogni sorta di drammi e di rovine nelle quali lo stesso scrittore, nunzio in Spagna proprio al tempo del sacco di Roma, fu coinvolto fino a patirne le più gravi conseguenze.

Si chiarisce anche il carattere particolare, dell’opera, che, pur ponendosi in un ambito diverso da quello dei teorici del realismo politico e morale, è inseparabile dalle esperienze e dalla cultura contemporanee. La presenza del cortigiano è una realtà delle corti del tempo, così come il mito della perfezione è motivo caro a quella cultura.

Il Castiglione si fa il teorizzatore della figura e dell’azione del cortigiano ideale, come il Machiavelli era stato il codificatore di una spregiudicata prassi politica. Ma nel Cortegiano la realtà appare tutta impregnata di motivi autobiografici, perché filtrata attraverso un’esperienza maturata per vari anni come diplomatico e uomo di corte, amico e consigliere di principi, un’attività consapevolmente scelta e vissuta, che il Castiglione seppe elevare a consapevolezza intellettuale. Da ciò deriva la superiorità del libro rispetto ad altri trattati contemporanei. La consueta forma dialogica della trattatistica rinascimentale, che si collega ad esempi classici, non è adottata solo per una concezione letteraria, ma soddisfa le esigenze artistiche e autobiografiche del Castiglione, permettendogli un’esposizione che rifiuta ogni carattere precettistico e sistematico ed è improntata, invece, ad un tono di elegante conversazione, in cui la delineazione del perfetto cortigiano si traduce nell’espressione di una concezione globale dell’esistenza, si alimenta di ricordi e impressioni, si approfondisce attraverso il contatto col mondo e con gli uomini, si illumina delle suggestioni di una cultura umanistica profondamente assimilata e tradotta in un ideale etico e politico insieme.

La suddivisione delle questioni fondamentali in quattro libri (nel I si illustrano le qualità fisiche e morali del perfetto cortigiano, nel II i modi e le circostanze in cui il cortigiano deve dar prova delle sue doti, nel III si delinea la figura della «donna di palazzo», e infine nel IV Pietro Bembo celebra l’amor platonico) risponde ad un bisogno di chiarezza e di ordine, ma nell’illustrare i dialoghi condotti per quattro sere alla corte di Urbino, sotto la guida della duchessa Elisabetta e della cognata di lei Emilia Pio[4], il Castiglione non intende seguire «un certo ordine o regula di precetti distinti».

L’argomento dell’opera viene fuori quasi per caso, dalla proposta, avanzata durante una conversazione, di scegliere un tema da trattare per il diletto degli illustri personaggi lì riuniti.

Lo sfondo delle riunioni serali e notturne offre lo spunto per ricreare un ambiente nel quale si muovono i personaggi: oltre al Bembo, Francesco Maria della Rovere, il Bibbiena, e altri minori, alcuni finemente caratterizzati con arguzia e ironia. La trattazione non è mai condotta in modo schematico: agli argomenti principali si intrecciano continuamente divagazioni che toccano ogni aspetto della vita e della cultura, dalle considerazioni generali sulla psicologia umana alla questione della lingua, alle considerazioni sulla moda e sulla decadenza dei costumi, all’importanza del «saper lettere», al problema della disarmonia in Italia tra fervore intellettuale e crisi politica, al problema della frattura fra morale e politica, che il Castiglione poteva sentire in tutta la sua drammaticità, alla disputa sulle virtù e i difetti della donna.

Gli aneddoti arguti, la vivacità delle battute polemiche, gli intermezzi narrativi arricchiscono un discorso che non si fa mai aridamente ragionativo, e che lascia ampio spazio all’umorismo e al riso, alle facezie narrate ed esemplificate dal Bibbiena con vena inesauribile.

L’opera del Castiglione si presenta quindi come un codice di perfezione etica e mondana, esemplare espressione dell’ideale di vita e di comportamento pubblico e privato che il Rinascimento italiano attuò nel suo culmine supremo. Ma forse il libro deriva il suo fascino più intenso proprio dalla consapevolezza, che emerge nella dedica, dal fatto che lo scrittore rievoca un’esperienza irripetibile, che in nessun modo potrà essere rinnovata.

Sempre nel periodo urbinate il Castiglione scrisse «anche la favola pastorale Tirsi, in collaborazione con il cugino Cesare Gonzaga, rappresentata in occasione del carnevale del 1506; a lui è stato anche attribuito un prologo per la messa in scena, nel 1513, della Calandria, commedia dell’amico cardinale Bibbiena messa in scena, curata peraltro personalmente dal Castiglione; successivamente compose anche versi in latino e in volgare e un’orazione per la morte di Guidobaldo. Sono tutti testi che testimoniano una vocazione di fondo per la letteratura cortigiana, intesa come celebrazione di un ideale universo di aristocratico culto della bellezza e dell’armonia: se il Tirsi mette in scena un travestimento bucolico di situazioni e personaggi di corte, le poesie disegnano, con gli stilemi dei classici o nella maniera petrarchista, un universo spesso malinconico di affetti e sensibilità non immuni da enfasi celebrativa. Spicca la commossa elegia latina scritta per la morte della moglie Ippolita (Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem), mentre anche il sonetto Superbi colli, e voi sacre ruine, celebrato come esempio di ammirazione umanistica per le rovine, in realtà non va al di là della testimonianza di un’ingegnosa e abile tecnica compositiva»[5].

*** NOTE ***

[1] Giorgio Merula, al secolo Giorgio Merlani di Negro (Alessandria, 1430 – Milano, 1494), nacque da nobile famiglia. Studiò a Milano (1444-1446) sotto la guida di Francesco Filelfo, di cui divenne successivamente avversario fra i più fieri, attaccandolo nella In Filelphum a causa di una critica filologica che il maestro aveva espresso nei confronti dell’allievo. Tra il 1460 e il 1461 cominciò ad insegnare a Mantova e successivamente (1465) a Venezia, dove aprì una scuola privata molto frequentata per poi insegnare anche in quella prestigiosa di San Marco. Su invito di Ludovico il Moro si trasferì a Pavia, dove risiedette dal 1483 al 1485 insegnando nello Studium locale, e quindi a Milano presso l’Accademia, dove rimase fino alla morte. Interesse principale del Merula fu l’edizione ed il commento di classici latini e greci.

[2] Guidubaldo da Montefeltro (Gubbio, 1472 – Fossombrone, 1508), terzo duca di Urbino, era figlio di Federico III da Montefeltro e di Battista Sforza. Alla sola età di 10 anni succedette al padre, sotto la guida dello zio paterno, il conte Ottaviano Ubaldini della Carda, e del fratello Antonio da Montefeltro. nel 1488 sposò la diciassettenne Elisabetta Gonzaga, figlia di Federico I Gonzaga, marchese di Mantova. Durante la discesa in Italia di Carlo VIII fu dapprima al soldo di Papa Alessandro VI e in seguito della Serenissima. Quando il duca Valentino si diede all’occupazione della Romagna, abbandonò in tutta fretta il ducato, rifugiandosi prima a Ravenna e poi a Mantova. Guidubaldo poté tornare ad Urbino soltanto quando salì al soglio di Pietro Giulio II (1503), che lo reintegrò pienamente nei suoi possessi. Morì a causa della podagra, che lo aveva lungamente tormentato, e con lui si estinse la dinastia dei da Montefeltro.

[3] Francesco Maria I Della Rovere (Senigallia, 1490 – Pesaro, 1538), era figlio di Giovanni Della Rovere, signore di Senigallia e capitano generale della Chiesa, e di Giovanna da Montefeltro, figlia di Federico III da Montefeltro. Lo zio materno, Guidobaldo da Montefeltro, privo di una diretta discendenza, nel 1504 lo indicò come suo successore dopo averlo adottato. Nel 1505 sposò Eleonora Gonzaga, figlia di Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova e di Isabella d’Este, e nel 1508, alla morte di Guidubaldo, divenne il quarto duca di Urbino. Nominato da suo zio, Papa Giulio II, capitano generale della Chiesa, si distinse nella lotta contro Ferrara e contro Venezia. Spodestato dei suoi possedimenti da Leone X, poté recuperarli nel 1521 dopo la morte del pontefice.

[4] Emilia Pio era figlia di Marco I Pio, signore di Carpi e Sassuolo, e nota per le nozze con Antonio da Montefeltro, Conte e Signore di Cantiano (figlio del Duca Federico III da Montefeltro e fratello del Duca Guidobaldo).

[5] Giorgio Patrizi, Il cortigiano e il cittadino. La trattatistica rinascimentale del conportamento, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 306.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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