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Marco Michelini | 16 Gennaio 2020

Il panorama letterario cinquecentesco offre l’immagine di una società seriamente impegnata in discussioni, dibattiti, trattazioni teoriche dei più importanti aspetti dell’esistenza umana, una società, cioè, non di puri letterati dediti ad un esercizio avulso dalla realtà, ma di uomini colti e raffinati per i quali anche la disputa sulla lingua o la trattazione del problema d’amore, nonostante il carattere tecnico, letterario o filosofico della discussione, rientrano in tutto un orientamento di gusto, riflettono la ricerca di un ideale codice di vita.

Sottolineando l’importanza della “regola”, il Bembo pone l’accento su un’esigenza che ha vasta e profonda risonanza in tutto il secolo: è l’esigenza di modelli, di esempi precisi, che nasce dalla precarietà e dall’incertezza insite nella realtà storica e induce a dettar norme di grammatica e di stile, a definire i canoni della perfetta bellezza, a codificare le leggi della politica e il comportamento nella vita sociale, esempi di uomini completi, abili nella politica, nelle armi, nella cultura, nella vita sociale.

Questa aspirazione alla perfezione, che si può considerare uno dei caratteri fondamentali del Rinascimento, si manifesta nella creazione di figure esemplari, cui l’uomo deve cercare di avvicinarsi il più possibile: il principe eccellente del Machiavelli, il perfetto artista, «primo orno del mondo», celebrato dal Celimi, il perfetto cavaliere e perfino la perfetta cortigiana, quale si configura nei Ragionamenti dell’Aretino.

All’opera del Bembo, da una parte, e a quella del Machiavelli e del Guicciardini, dall’altra, si affianca un nuovo tipo di trattatistica sul comportamento civile, rispondente alle esigenze di un pubblico sempre più vasto e interessato, e la cui diffusione è favorita dalla definitiva affermazione del volgare e dello straordinario sviluppo dell’attività tipografica. È una trattatistica che, per sua intrinseca natura, mantiene uno stretto collegamento con la realtà contemporanea e segue quindi, nella sua graduale evoluzione e trasformazione, la parabola stessa del Rinascimento, dal primo periodo di ottimistica fiducia nelle capacità soggettive dell’individuo, non ancora smentita dalle vicende storiche, al successivo ripiegamento provocato dalla crisi politico‑religiosa.

E questi due momenti si sintetizzano nella figura e nell’opera di Baldassare Castiglione, personaggio per molti aspetti fra i più rappresentativi del Rinascimento nel periodo di maggior splendore, e malinconico testimone del suo declino, il quale, con il suo Cortegiano, non solo ci trasmette una delle opere più alte e rappresentative del secolo, ma, anche dal punto di vista artistico, uno dei libri più belli «in quanto realizza pur nello stile, quell’idea di compostezza luminosa e pacata, quell’eleganza chiara e senza affettazione, che era la norma fondamentale della cortesia»[1].

Le corti Europee erano in quel periodo più che mai fiorenti ed il libro del Castiglione incontrò larghi consensi ai quali seguirono numerose traduzioni: prima della fine del secolo il Cortegiano, oltre che in latino, venne tradotto in spagnolo da Juan Boscan (1534), in francese da Jacques Colin d’Auxerre (1537) e da Gabriel Chapuis (1580), in inglese (1571) e in tedesco (1593).

In Italia, invece, dove pure il libro ebbe immensa fortuna, all’ideale espresso dal Cortigiano si oppone la realtà di una crisi sempre più grave. L’espandersi dei grandi Stati nazionali cancella il sogno delle corti umanistiche; a poco giova l’esempio dell’uomo eccezionale in una società costretta a dedicarsi alle piccole attività quotidiane, e intenta solo a salvaguardare il «proprio particulare». Anche la frattura fra l’intellettuale e il politico si fa sempre più insanabile: nella mutata situazione storica, il valore individuale non è sufficiente per destreggiarsi nei meandri della politica; l’intellettuale non può più rivendicare il compito di consigliere del principe per ricondurlo a un esercizio razionale del potere.

A mano a mano, alla sicurezza e alla fervida attività dei primi decenni del secolo subentra il disincanto: la considerazione delle difficoltà oggettive induce alla pessimistica cautela del Guicciardini. Anche la trattatistica si adegua al nuovo assetto storico, che non richiede più l’impegno pubblico dell’uomo. L’aristocratica concezione del Cortegiano lascia il posto alla discussione di problemi concreti e quotidiani, collegati alle condizioni di una società media; dall’ideale dei grandi uomini, capaci di imprimere una direzione a tutta la società, si passa ai piccoli esempi di un mondo mediocre e borghese. È l’altra faccia della trattatistica sul comportamento, che ha il suo libro esemplare nel Galateo di Giovanni Della Casa (già autore di un trattato di imitazione ciceroniana il De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, teso alla moralizzazione dei rapporti tra i componenti di una società omogenea ma divisa da nuove gerarchie di censo e di carriera),  che costituisce «un codice democratico di usi di fronte alla raffinatezza aristocratica del Cortegiano»[2], e che ebbe fin da subito grande ed immediata fortuna: quasi quaranta edizioni comparvero prima della fine del secolo e fu tradotto nelle principali lingue europee in un arco di cinquant’anni, divenendo una sorta «di topos proverbiale nella cultura europea moderna, simbolo di cortesia e civiltà e, insieme di censura e formalismo repressivo»[3].

Altra opera fortunatissima in Europa più che in Italia è la Civil Conversazione di Stefano Guazzo[4] (1574), che – oltre alle numerose traduzioni – ebbe una profonda influenza su molti autori di politica e di etica civile in Inghilterra, Francia e Germania. «In questo dialogo l’istanza soggettiva è radicalmente sottomessa alla priorità del sociale: è civile colui che rifugge la malinconica solitudine per aprirsi alla conversazione e conversando entra nella rete dei rapporti sociali organizzati gerarchicamente e rigidamente fissati nelle forme degli officia tra potentiores et tenuiores amicos, come suonava il citato scritto giovanile di Della Casa il cui schema sembra aver ispirato Guazzo. Il proposito della Civil Conversazione è quello di elaborare una generale strategia delle relazioni interpersonali fissata ancora una volta sull’apparenza e sull’esteriorità, difendendo, come si è detto, i rapporti di potere esistenti ma anche affermando l’esigenza di agevolare una circolazione, uno scambio tra le classi. Fondare una socialità insomma sotto il segno di una civiltà fatta di discrezione di ordine, di adeguamento all’opinione dei più. E anche al centro di questo progetto è da individuare un’idea di medietas come misura dell’armonia e dal buon senso: tutti i consigli che il Guazzo da sui rapporti di conversazione appaiono regolati da una etichetta strutturata secondo un valore non lontano dalla “grazia” definita da Castiglione»[5].

Non si esaurisce comunque in queste opere il fitto e multiforme mondo dei trattati sull’educazione e il comportamento, giacché una miriade di opere diverse per temi e per stile danno vita ad un vero e proprio filone letterario significativo e variegato.

 Il Della eccellenza et degnità delle donne (1526), di Galeazzo Flavio Capra[6], propone il tema del rapporto tra l’educazione maschile e quella femminile. Ma l’opera più brillante di questo filone è La Raffaella o Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini, uno dei protagonisti dell’Accademia degli Intronati, ove l’autore si compiace di descrivere la progressiva opera di corruzione di una giovane donna da parte di un’accorta mezzana. «All’elogio di una “certa pazzia” che è caratteristica dei giovani, seguono i consigli di Raffaella sulle tecniche della seduzione che ruotano, ancora una volta, attorno al principio della “sprezzatura” e della dissimulazione delle passioni che possono essere giudicate sconvenienti. Ora dell’immagine femminile è esibito, con allegra disinvoltura, tutto l’artificio, la retorica che presiede alla costruzione di essa; dal comportamento amoroso a quello in casa, dalla cura del corpo alla sapiente teatralizzazione della propria figura (Raffaella dà consigli di seduzione come di cosmesi, di organizzazione della vita familiare affinché sia funzionale a preservare margini di libertà alla donna) agli accorgimenti per mostrare le parti più seducenti del proprio corpo. Funzionale ai valori e alle istituzioni sociali (famiglia, matrimonio, onestà), l’immagine della donna in realtà difende un’interiorità inaccessibile, dove è difesa la libertà dei sentimenti individuali e delle scelte che ne derivano. La dissimulazione è ora accettata quasi gioiosamente, ludicamente, come possibilità per vivere quella libertà che le convenzioni sociali negano»[7]. Ma il Piccolomini scrisse anche la Instituzione morale, un trattato sull’educazione della donna secondo un ideale di cattolicesimo che già appartiene alla controriforma.

La discussione delle preoccupazioni reali e quotidiane, a cui s’è già accennato, e il conseguente rifiuto del cortigiano quale modello etico e civile, favorisce lo spostarsi dell’attenzione letteraria verso una codificazione delle singole professioni o mestieri. Ciò è verificabile attraverso numerose opere, quali il trattato Del Secretario (1564) di Francesco Sansovino[8], il Secretario (1580) di Giulio Cesare Capaccio[9], che attribuisce al funzionario non più un ruolo depoliticizzato, ma di responsabile e di collaboratore alla politica della corte, e infine Il segretario (1594) di Giovan Battista Guarini, nelle cui pagine la figura tipica delle corti e della vita politica cinquecentesca viene riconfermata nella sua qualità di letterato, al quale possono anche sfuggire finalità e modi del suo signore, ma che deve essere sempre pronto ad offrirgli gli strumenti tipici della sua arte, affinché egli possa perseguire i propri progetti, condurre a compimento le proprie iniziative e assicurarsene insieme giustificazione e fama.

«Accanto a questi testi non si può non ricordare come esistessero minute trattazioni di altre pratiche quotidiane: uno degli esempi più interessanti per la contaminazione tra pratica quotidiana e modello normativo «alto» è quello dei manuali dedicati al “trinciante”. Di esso già scriveva, nel Refugio del povero gentilhuomo edito nel 1520 a Ferrara, Giovan Francesco Colle (addetto al taglio delle carni presso la tavola degli Estensi), attento a una ripartizione “armonica” e teatrale delle porzioni secondo il rango dei commensali.

A una prospettiva analoga a quella dei trattati sul comportamento va ricondotta l’ampia produzione dedicata ai temi sull’amore e sulla bellezza, incrocio volgarizzante di due tradizioni letterariamente autorevoli, il filone delle opere sul comportamento, di cui si è detto, e la tradizione del petrarchismo che, in poesia, costituiva il modello egemonico. Se la base fìlosofìca di questo genere di trattatistica era offerta dal neoplatonismo, soprattutto nella letteratura derivata dalla Accademia fiorentina e da Marsilio Ficino, sul piano letterario esso trovava alcuni esempi prestigiosi intesi alla formulazione, in questa dimensione, di un nuovo classicismo etico ed estetico. Gli Asolani di Pietro Bembo, dai primissimi anni del secolo […], diffondono un modello destinato a venir ripetuto stancamente con le più diverse e varie articolazioni: l’idea neoplatonica della bellezza come specchio dell’armonia universale e dell’amore come contemplazione della bellezza superiore, e quindi mezzo di elevazione verso il mondo divino, verrà, da questo momento, riproposta con una molteplicità di varianti»[10].

*** NOTE ***

[1] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 115.

[2] Carlo Cordiè (a cura di), Introduzione, in Opere di Baldassare Castiglione, Giovanni Della Casa, Benvenuto Cellini, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pagina vii.

[3] Giorgio Patrizi, Il cortigiano e il cittadino. La trattatistica rinascimentale del conportamento, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 313.

[4] Stefano Guazzo nacque a Casale Monferrato (o nella vicina Trino) nel 1530, ultimo dei quattro figli di Giovanni, fedele funzionario dei Paleologhi prima e poi dei Gonzaga. Stefano studiò a Pavia, dove frequentò i corsi di Andrea Alciati e divenne dottore in giurisprudenza: alla morte del maestro gli dedicò versi di compianto in latino (Carmina). Quando nel 1554 il fratello di Guglielmo Gonzaga, Ludovico, andò in Francia a prendere possesso dei feudi lasciatigli dalla nonna materna Anna d’Alençon, il Guazzo lo accompagnò con l’ufficio di segretario. Nel 1561 il Guazzo era a Mantova per le nozze del duca Guglielmo con Eleonora d’Asburgo: il ritorno in Italia coincise con l’inizio della reggenza della Paleologa nel Monferrato, che per il Guazzo e per Casale significò, nei sei anni della sua durata, un periodo di provvidenziale equilibrio tra una discreta autonomia politica e culturale e il prestigio di una dinastia ricca di tradizioni e in espansione come i Gonzaga. Nei primi anni Settanta il Guazzo si trasferì a Olivola, una villa di campagna presso Ozano, vicino a Casale, dove trascorse la maggior parte del tempo fino alla morte. Alla fine del 1589 si trasferì a Pavia per accompagnare il figlio Giovanni Antonio, studente di diritto presso quell’Università. Ricevuto con grandi onori fu insignito della cittadinanza onoraria e accolto nella locale Accademia degli Affidati, che gli permise di entrare in stretti rapporti con una delle maggiori famiglie della città, i Beccaria. Morì a Pavia nel 1593 e fu sepolto nella chiesa di S. Tommaso de’ Predicatori. Oltre alla Civil Conversazione, scrisse altre opere, tutte di grande successo: i Dialoghi piaceuoli, La ghirlanda della contessa Angela Maria Beccaria, le Lettere e la Scelta di rime.

[5] Ibidem, pag. 316.

[6] Galeazzo Flavio Capra, noto anche (alla latina) come Galeazzo Flavio Capella (Milano, 1487 – Milano, 1537), nominato in un primo tempo segretario del cancelliere e legato ducale Girolamo Morone (dopo il 1522), in seguito si acquistò a tal punto la fiducia del duca Francesco II da esserne inviato come ambasciatore presso la Repubblica di Venezia (con ogni probabilità dopo il 1530). Oltre al Della eccellenza et degnità delle donne scrisse anche la Anthropologia (1533) e i Commentarii Galeacii Capellae de rebus gestis pro restitutione Francisci Sfortiae II, ab ipsomet authore postremo recogniti (1535).

[7] Ibidem, pag. 321‑322.

[8] Francesco Sansovino (Roma, 1521 – Venezia, 1586) era Figlio naturale del grande architetto Jacopo Sansovino. Ancora bambino seguì il padre, che da Roma si era recato a Venezia, dove si rifugiarono in seguito al sacco di Roma (1527). Studiò legge a Bologna e a Padova, spostandosi più volte. Fece parte, per un breve periodo, della corte di Giulio III, prima di ammogliarsi e stabilirsi definitivamente a Venezia, dove condusse una vita ritirata e tranquilla da autore poligrafo, prestando la sua opera alle famose tipografie veneziane, per le quali fece traduzioni, compilò raccolte e annotò alcuni testi classici. In un trentennio il Sansovino scrisse ben 97 opere, fra edite e inedite, che trattavano gli argomenti più disparati: dalla storia alla medicina, dalle tecniche amorose all’agricoltura, dalla grammatica alla politica al diritto. La sua opera più famosa è Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XIIII libri, chiamata brevemente Venetia descritta, una specie di enciclopedia sulla città veneta nella quale descriveva chiese, palazzi, opere d’arte, nonché usi, personaggi e avvenimenti fino al 1581, anno della stampa. Grande fortuna ebbe anche l’opera Origini e fatti delle famiglie illustri d’Italia, più volte ristampata, ma sospettata di plagio da un’opera analoga di Giuseppe Betussi.

[9] Giulio Cesare Capaccio (Campagna, 1550 – Napoli, 1634), figlio di Paolo Antonio e Francesca De Manna, era di famiglia benestante. I suoi primi studi furono di filosofia, presso il convento domenicano di San Bartolomeo di Campagna. Uno dei suoi precettori fu Marco Fileta Filiuli, fondatore della locale Accademia dei Taciturni. Trasferitosi successivamente a Napoli, vi continuò gli studi che poi perfezionò a Bologna e Isernia. Nel 1575 ritorna a Napoli dove si sposa e incomincia a pubblicare i suoi primi testi di teologia. Tra il 1586 e il 1592 tornò a vivere a Campagna, ove produsse buona parte delle sue opere letterarie. Successivamente, per motivi economici, si spostò a Napoli e Venezia. Nel 1607 venne nominato da don Juan Alonso Pimentel de Herrera, viceré del regno di Napoli e Segretario della città partenopea, con il compito, tra le varie mansioni, di distribuire olio e grano alla popolazione. Durante il suo incarico pubblicò numerose opere di storia e geografia, fra cui la Neapolitana Historia, che è da considerarsi la sua opera principale. Accusato di concussione e appropriazione di denaro pubblico, nel 1613 si dimise dal suo incarico e visse in esilio a Urbino e Roma. Tornato a Napoli nel 1626, vi rimase fino alla morte.

[10] Ibidem, pag. 319‑320.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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