Linea Biografica
Pietro nacque a Venezia nel 1470 da Bernardo, senatore della Serenissima, appartenente all’antica e patrizia famiglia dei Bembo, e da Elena Marcello. Nell’ambiente familiare, specie nella preziosa biblioteca paterna, egli trova fin da giovanissimo la condizione favorevole per dedicarsi agli studi cui si sentiva naturalmente inclinato. Dal luglio del 1478 al maggio del 1480 Bernardo fu ambasciatore a Firenze e Pietro lo seguì in quella città, dove non solo imparò ad apprezzare il toscano, che avrebbe preferito alla lingua della sua città natale per tutta la vita, ma prese anche contatto con la cultura umanistica e gli uomini di lettere della cerchia di Lorenzo il Magnifico, con il quale il padre ebbe una stretta e durevole trama di rapporti personali.
Ma è in una postilla scritta dal Poliziano intorno al 1491[1] che il nome di Pietro Bembo appare per la prima volta nella storia dell’umanesimo e della letteratura italiana. Non si potrebbe immaginare iniziazione più degna per il letterato veneziano, cui sarebbe toccato raccogliere l’eredità di un umanesimo nuovo, inaugurato dall’autore delle Stanze e dell’Orfeo, per giungere all’affermazione di una tradizione letteraria affidata alla lingua toscana, che faceva seguito, senza disparità, a quella greca e latina. L’incontro con il Poliziano, comunque, sembra segnare una svolta nella vita di Pietro, ch’era già stato avviato dal padre alla carriera politica, tanto che, pochi mesi dopo, egli poté recarsi con un amico a Messina, per studiare il greco sotto la guida del grande Costantino Lascaris[2].
Il Bembo si trattene a Messina per due anni e ritornò a Venezia nel 1494 quando ormai sull’Italia incombeva l’invasione francese. La Repubblica veneziana, però, si manteneva neutrale e ciò gli permise di entrare in contatto con l’ambiente letterario veneziano e padovano, iniziando una proficua collaborazione col grande tipografo Aldo Manuzio. Dopo la morte del Poliziano, il Manuzio era forse il più grande umanista italiano, ma incapace, da solo, di valorizzare il significato storico della lingua e della letteratura moderna e di costituire i fondamenti di un classicismo volgare: il legame col Bembo accelerò quindi questo processo. Nel 1501, infatti, Manuzio pubblicò un’edizione delle Rime del Petrarca, cui fece seguire, l’anno successivo, quella della Commedia (anzi delle Terze Rime) di Dante, entrambe curate dal Bembo; introdusse cioè nella stessa biblioteca di testi classici, dopo Virgilio e Orazio, i due più importanti poeti moderni: un’operazione di decisiva importanza culturale, proprio perché operata da un dotto grecista e latinista che con la sua autorità dava valore e definitiva garanzia di “classicità” alla tradizione letteraria volgare. Del resto, il non felice cambiamento di titolo all’opera dantesca (da Commedia a Terze Rime) è prova indubitabile che «le due edizioni curate dal Bembo volevano essere nuove. Nuovo era il fatto che il Petrarca e Dante apparissero in una stessa serie coi classici latini e greci, e che testi volgari venissero curati con quello stesso scrupolo editoriale che si usava per i classici. Nuovi in realtà risultarono i testi, e benché subito e poi a lungo suscitassero proteste e correzioni, resta il fatto che per più di due secoli così Dante come il Petrarca furono ristampati e letti nei testi restituiti dal Bembo, non più in quelli delle stampe quattrocentesche. Nasceva così una filologia volgare, fondata su una considerazione critica nuova della lingua. Le novità testuali introdotte dal Bembo nella Commedia e nelle Rime sparse erano infatti giustificate, al di sotto del vanto editoriale solo in parte vero di un ricorso agli autografi, dal riconoscimento che la lingua toscana del Trecento era stata altra e più nobile e pura che non quella invalsa, per influsso umanistico e compromesso cortigiano e mescolanza dialettale, durante il Quattrocento. Onde il restauro, che il Bembo operò, sistematicamente eliminando dai testi suoi del Petrarca e di Dante la vernice e i ritocchi quattrocenteschi»[3].
Frattanto, nel 1495, Manuzio aveva pubblicato la grammatica greca del Lascaris, con 150 aggiunte e correzioni, e nel 1496 la prima opera del Bembo, il De Aetna ad Angelum Gabrielem liber, un dialogo latino che racconta di un’ascensione sull’Etna fatta con il padre durante il soggiorno messinese. Nel 1497, quando il padre si recò a Ferrara in qualità di rappresentante della Serenissima, ancora una volta Pietro lo seguì e riprese nella città estense quegli studi di filosofia iniziati a Padova alcuni anni prima. L’esperienza ferrarese fu decisiva per la sua formazione e per l’orientamento successivo delle sue scelte e a quel periodo, o immediatamente prima, appartiene il concepimento e l’inizio della stesura degli Asolani, opera ispirata da un amore infelice, del quale non sappiamo nulla. Nel 1499, quando il padre fu richiamato a Venezia, egli ottenne di rimanere ancora per qualche tempo a Ferrara; ma questo proposito di prolungare il proprio soggiorno non teneva conto della situazione politica, che per il precipitare degli eventi lo costrinse al rientro in patria. In questi anni (1499-1501), oltre agli sfortunati tentativi di accedere ad una qualche attività politica, si innamorò di Maria Savorgnan, una nobildonna d’origine friulana, con la quale tenne un carteggio in cui è contenuta in nuce l’idea delle Prose della volgar lingua.
Tornò a Ferrara nel 1502, dove conobbe Lucrezia Borgia[4], all’epoca moglie di Alfonso d’Este, con la quale ebbe una relazione. Ma nel dicembre del 1503, a seguito della morte del fratello minore, Carlo, fu costretto ad accorrere a Venezia, lasciando definitivamente Ferrara. Nel 1505 vennero pubblicati gli Asolani, e in seguito alle polemiche suscitate dalla loro apparizione, che si affiancavano ai nuovi e ripetuti insuccessi nei tentativi di ottenere un incarico politico, indussero il Bembo a maturare l’anno seguente la decisione di abbandonare Venezia, rinunciando per sempre alla carriera pubblica e agli onori cui per nascita era destinato. Il fascino della vita di corte, sperimentata a Ferrara, lo indusse a stabilirsi ad Urbino, ospite dei Montefeltro, dove rimase fino al 1511. Qui entrò a far parte di quell’eletta schiera di gentiluomini, che il Castiglione rappresenterà magistralmente nel Cortegiano, ed iniziò a scrivere una delle sue opere maggiori, le Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua.
Nel 1513, il nuovo papa Leone X lo volle come segretario ai brevi e gli concesse alcuni benefici ecclesiastici[5] che garantirono la sicurezza necessaria alla sua vocazione letteraria e gli permisero di soddisfare finalmente l’aspirazione all’indipendenza dalla servitù della vita civile. A Roma, dove si era trasferito già nel 1512, il Bembo stabilì stretti rapporti con i letterati locali: Baldassarre Castiglione, Erasmo da Rotterdam, Angelo Colocci e continuò a dedicarsi, pur con qualche rallentamento, ai suoi amati studi di letteratura volgare. Conobbe anche una donna assai più giovane di lui, Ambrogina Faustina della Torre, detta la Morosina, alla quale rimase legato fino alla scomparsa di lei, avvenuta nel 1535, e dalla quale ebbe tre figli.
Nel 1518 una grave malattia lo rese inabile al suo ufficio di segretario, per cui il Bembo, l’anno seguente, chiese di poter tornare a Venezia per motivi di salute e familiari. Partì da Roma in maggio con l’incarico di una missione a Mantova, ma giunto a Bologna seppe che il padre era morente: Pietro giunse a Venezia troppo tardi, a funerali avvenuti e a raccogliere un’eredità dissestata. Per via della malferma salute e del suo ruolo di capo famiglia, si trattenne tra Venezia e Padova fino al 1520, anno in cui fece ritorno a Roma.
Nel 1521 lasciò nuovamente Roma e si trasferì nella sua villa di Padova. Le sue condizioni di salute si erano notevolmente aggravate al punto che, quando nell’inverno giunse notizia della morte di Leone X, un suo amico non osava chiedergli, per lettera, consiglio sul da farsi. Nel 1522 si avviò finalmente a guarigione il 6 dicembre, per poter conservare i suoi benefici ecclesiastici, fece la sua professione e vestì l’abito dell’Ordine gerosolimitano. Trascorse gli anni seguenti tra Padova e Venezia, dedicandosi allo studio e al lavoro. Riuscì così a portare a termine le Prose della volgar lingua, a riordinare le Rime e vari scritti latini.
Nel 1524 poteva offrire a Clemente VII il manoscritto compiuto delle I, che apparvero a stampa l’anno successivo a Venezia. Il successo dell’opera fu immediato e consolidò definitivamente la fama del suo autore, tanto che a Bologna, dove si era recato nel dicembre del 1529 per l’incoronazione di Carlo V, appariva al Tolomei, in mezzo ai letterati e agli autorevoli personaggi ivi convenuti, quale «guida e maestro». Così finì per diventare vero e proprio punto di riferimento e di confronto letterario, operatore culturale di primaria importanza per gran parte del secolo XVI.
Nel 1530 la Repubblica veneta gli affidò l’incarico di proseguire la storia di Venezia iniziata dal Sabellico[6] e giunta all’anno 1487. Si assunse volonterosamente il grave incarico, e con i Rerum Venetarum historiae libri XII, che egli stesso in seguito volgarizzò, descrisse le vicende della Repubblica fino al 1513, seguendo il criterio umanistico della storia quale opus oratorium maxime. Nel 1539 papa Paolo III lo creò cardinale diacono, con titolo di San Ciriaco in thermis e fece quindi ritorno a Roma, dove, sempre lo stesso anno, fu ordinato sacerdote; successivamente venne nominato amministratore apostolico di Gubbio e in seguito di Bergamo. Si spense a Roma, carico di fama e di onori, e venne sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva.
Gli «Asolani»
Gli Asolani, composti tra il 1497 e il 1502, per quanto non abbiano una grande importanza dal punto di vista letterario, sono un’opera fondamentale nella storia della lingua italiana. Scritti in tre libri, in forma di dialogo in rosa, narrano le fittizie le conversazioni sull’amore tenute ad Asolo, alla corte della regina di Cipro Caterina Cornaro[7], in occasione delle nozze di una sua damigella. Protagonisti del dialogo sono tre giovani gentiluomini veneziani, Perottino, Gismondo e Lavinello che, alla presenza di tre donne, si riuniscono per tre giorni a ragionare d’amore.
Il titolo,che chiaramente e volutamente richiama le Tusculanae di Cicerone, anticipa l’intenzione di trasporre in volgare il dialogo ciceroniano, di tentare cioè di raggiungere, in una lingua diversa dal latino, la medesima perfetta adeguazione della parola al pensiero. Nell’epistola De imitatione, indicando una norma valida per ogni lingua e ogni scrittore, il Bembo auspicava, per chi scrivesse in volgare, una regola altrettanto certa di quella che, chi componeva in latino, poteva trovare nell’imitazione di Cicerone e Virgilio. Una tale norma non esisteva ancora per il volgare, ma il Bembo, negli Asolani, riesce a crearsene una, eleggendo a modelli Petrarca e Boccaccio.
Il modello linguistico prescelto è il Boccaccio, non tanto quello del Decameron, ma di opere quali il Filocolo, l’Ameto, la Fiammetta. Dal Boccaccio apprende anzitutto una lezione di grammatica, alla quale si conforma totalmente correggendo con scrupolo tutte le forme discordanti; e in secondo luogo di lessico, assimilandolo al punto che è difficile trovare negli Asolani vocaboli che non siano stati usati dal Boccaccio. Solo una scelta linguistica così rigorosa poteva giustificare, di fronte agli irriducibili sostenitori del latino, la proposta del volgare come lingua ricca, preziosa, regolata, non meno difficile del latino umanistico e ugualmente capace di aderire a qualsiasi contenuto.
Anche il tema dell’amore quale argomento del dialogo impegnava il Bembo in una scelta ben precisa. Alle spalle aveva la tradizione amorosa e lirica volgare, in cui il Petrarca aveva raggiunto un’altezza insuperabile; ma l’educazione umanistica gli insegnava a diffidare dell’amore come di una malattia di giovinezza che le lettere dovevano alleviare e guarire. E la morale cristiana si trovava alleata a quella pagana in questa polemica contro l’amore, tipica della tradizione umanistica latina. D’altra parte a Firenze il neoplatonismo del Ficino aveva restituito importanza e serietà al dibattito sull’amore collegando la dottrina di Platone con la concezione di Dante e dello stilnovo, e riconoscendo all’amore una funzione fondamentale nella vita spirituale dell’uomo.
L’ascesa graduale dalla concezione dell’amore deluso e tormentoso a quello disteso e sensualmente appagato, a quello, infine, contemplativo e intellettuale per la donna, che diviene tramite al perfetto amore di Dio, rappresenta la compresenza di tre tipologie dell’amore, di tre sfumature dell’animo cui l’uomo non potrà mai sottrarsi. L’impalcatura neoplatonica fornisce quindi solo la giustificazione teorica del petrarchismo, e questo era il fine cui l’autore tendeva, anche mediante la mescolanza di prosa e di versi.
Le «Prose della volgar lingua»
La composizione delle Prose della volgar lingua impegnò il Bembo per un lunghissimo periodo. Fra il 1508 e il 1512 era giunto a una stesura pressoché definitiva dei primi due libri; il terzo richiese, invece, un’elaborazione molto più lunga e un’ampia raccolta di materiali, mentre la pubblicazione, nel 1516 ad Ancona, delle Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio (Pordenone, 1470 ca – Fano, 1517), che trattavano in due libri della morfologia e dell’ortografia del volgare, non solo tolse al Bembo il vantaggio della priorità, ma gli impose una revisione critica del lavoro già compiuto, inducendolo a posporre la conclusione dell’opera.
Le Prose si presentano sotto forma di dialogo, che si immagina avvenuto a Venezia in casa di Carlo Bembo, fratello e portavoce dell’autore, nell’inverno del 1502. La data, non certo casuale, rivela l’intenzione di rivendicare un primato rispetto al libro del Fortunio. Ispirandosi al metodo dei grammatici latini, quest’ultimo mirava a identificare la buona norma con l’uso del fiorentino trecentesco, senza peraltro imporsi criteri rigorosamente scientifici, e senza andare al di là di una semplice esposizione di regole grammaticali. Con rigore e impegno assai diversi, il disegno del Bembo abbraccia un campo ben più vasto, presentandosi come una grande opera sulla retorica volgare condotta con straordinaria coerenza logica e serietà di metodo.
Il primo libro, impostato su una linea filologica e storica, è dedicato alla trattazione dei rapporti fra latino e volgare, fra il toscano e le altre parlate italiane, alla discussione sulla cosiddetta lingua «cortigiana», incentrandosi soprattutto sull’individuazione di un periodo aureo del volgare, il Trecento, e di modelli da proporre all’imitazione: Petrarca e Boccaccio. È una definizione assai restrittiva, che sottintende un declino della parabola e un abbassamento di tono, cosicché si finisce implicitamente col dedurre che l’estensione del momento aureo sia sempre molto limitata.
Nel secondo libro, il discorso si fa prevalentemente stilistico‑retorico, soffermandosi diffusamente su questioni di tecnica e di metrica, di ritmo, di scelta e disposizione delle parole, suffragato continuamente da esempi tratti per la maggior parte da Petrarca e Boccaccio. La retorica antica è assunta come norma per la lingua letteraria volgare, mantenendo la distinzione fra materia e forma, e, nella forma, la differenza dei diversi stili. Donde la sottile analisi condotta sullo stile petrarchesco, esemplare per gravità e piacevolezza, per il suono, il numero, la variazione, e le osservazioni sulla prosa boccacciana.
Il terzo libro costituisce invece nelle intenzioni del Bembo una sorta di grammatica della lingua volgare, della quale vengono fissate norme precise, rilevate le eccezioni e le peculiarità, sulla base di una fitta serie di esempi, anch’essi tratti dal Canzoniere e dal Decameron. Con le Prose il Bembo andava ben al di là di quanto il Fortunio aveva fatto e di quanto altri avrebbero tentato per molti decenni ancora e adempiva il compito di storico e teorico del volgare e, insieme, si faceva maestro della nuova letteratura e fondatore del nostro classicismo.
Le Rime
La nascita del petrarchismo lirico, che permea di sé tanta parte della letteratura cinquecentesca, è segnata ufficialmente dalla pubblicazione, nel 1530, delle Rime del Bembo. Nello stesso anno l’edizione del canzoniere del Sannazaro, giunto per vie diverse a conclusioni analoghe, incrementa maggiormente l’indirizzo petrarchista, e prendono a moltiplicarsi le raccolte di rime di numerosi autori.
Poco tempo prima di morire il Bembo aveva scritto al Fracastoro[8]: «piacemi che non abbiate dimenticato la poesia perché siete invecchiato assai, siccome l’ho dimenticata io, che non ricordo più d’aver mai fatto verso alcuno»; ma qualche mese dopo dedicava ancora un sonetto a Giovanni Della Casa, segno che non era del tutto spenta quella delicata vena poetica che l’aveva accompagnato in tutta la carriera di scrittore. La composizione delle Rime occupa infatti quasi tutto l’arco dell’esistenza del letterato veneziano, dal giovanile tirocinio letterario a questo estremo congedo dalle lettere e dalla vita.
Il petrarchismo del Bembo si pone al di fuori della tradizione lirica quattrocentesca e in decisa opposizione ad essa; non si riallaccia cioè ad essa per portarla ad una risoluzione, ma dà inizio a una tendenza del tutto diversa. La «riforma» bembiana va considerata in stretta connessione con la «questione della lingua» affrontata negli Asolani e nelle Prose in quanto il petrarchismo rappresenta al tempo stesso la risoluzione di un problema di lingua e di poesia, una presa di posizione critica in difesa della poesia volgare nei confronti di quella umanistica e, quindi, in definitiva, un’affermazione del volgare nei confronti del latino.
A suscitare l’interesse del Bembo per il Petrarca lirico era stato, negli anni giovanili, l’amico e maestro Giovanni Aurelio Augurello[9], il poeta riminese che per primo aveva offerto l’esempio di una poesia interamente modellata sul Canzoniere. Ma, a differenza del maestro, l’imitazione del Petrarca non si esaurisce per il Bembo in un mero esercizio stilistico, né, tanto meno, nell’obbedienza a una moda, come avverrà per molti poeti posteriori. Ad essa lo spinge invece l’ammirazione sincera e profonda per un modello di stile ritenuto perfetto e insuperabile, e soprattutto quell’impulso sentimentale per cui nei temi e nelle forme petrarchesche tanta parte della sua sensibilità poteva riconoscersi.
Comunione di sentimenti e di forme, quindi, che per quanto escluda forse un apporto vivo e personale, mantiene un’importanza non piccola nel campo dell’educazione del gusto e un rilevante valore storico come indice di una tendenza intellettuale che trascende la lirica strettamente intesa e coinvolge tutta la mentalità e la letteratura del secolo.
***NOTE***
[1] Il Poliziano era stato ospite a Venezia della famiglia Bembo, «per collazionare ivi un antichissimo codice di Terenzio, “quem mihi utendum commodavit – annotò il Poliziano sul suo esemplare – Petrus Bembus venetus patricius, Bernardi iurisconsulti et equitis filius, studiosus litterarum adulescens. Ipse etiam Petrus operam mihi suam in conferendo commodavit”». [Carlo Dionisotti, BEMBO, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 8, 1966 – http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-bembo_(Dizionario-Biografico)/]
[2] Costantino Lascaris (Costantinopoli, 1434 – Messina, 1501), discendente di una famiglia nobile della Bitinia – i Lascaris, che aveva dato i natali a quattro imperatori il XIII secolo – e allievo di Giovanni Argiropulo, dopo la caduta di Costantinopoli ed un periodo di prigionia, decise di recarsi a Milano. Intorno al 1460 iniziò ad insegnare lingua greca presso la corte di Francesco Sforza, che lo assunse quale precettore di sua figlia Ippolita. Nel 1465, in seguito al matrimonio tra Ippolita Sforza e Alfonso II d’Aragona, accettò l’invito ad insegnare lingua greca a Napoli. Dopo pochi mesi, però, decise di abbandonare definitivamente l’Italia per tornare in Grecia. Giunto per mare a Messina nella seconda metà del 1466, ebbe qui modo di conoscere il senatore messinese Luigi Saccano, che lo convinse a desistere dal suo intento e ad accettare un incarico di insegnante di lingua greca presso il monastero basiliano del S.S. Salvatore. Nella città siciliana il Lascaris, non senza difficoltà, poté così fondare una piccola ma apprezzata scuola, che ebbe come studenti l’umanista veneziano Pietro Bembo, il letterato Cola Bruno, Antonio Maurolico (padre del famoso matematico Francesco), il pittore Girolamo Alibrandi nonché il filologo piacentino Giorgio Valla, che intrattenne col maestro un lungo rapporto epistolare. Il nome del Lascaris è soprattutto legato alla grammatica greca da lui scritta, intitolata Erotémata, stampata nel 1476 a Milano e che fu in seguito ristampata da Aldo Manuzio nel 1495, con 150 aggiunte e correzioni che il Lascaris aveva affidato a Pietro Bembo.
[3] Carlo Dionisotti, BEMBO, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 8, 1966 – http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-bembo_(Dizionario-Biografico)/
[4] Lucrezia Borgia (Subiaco, 1480 – Ferrara, 1519), era figlia terzogenita illegittima di Papa Alessandro VI e di e di Vannozza Cattanei. Fin dagli undici anni fu soggetta alla politica matrimoniale collegata alle ambizioni politiche prima del padre e poi del fratello Cesare Borgia. Quando il padre ascese al soglio pontificio la dette inizialmente in sposa a Giovanni Sforza conte di Pesaro, ma pochi anni dopo, in seguito all’annullamento del matrimonio (lo Sforza firmò davanti a testimoni una confessione di impotenza), Lucrezia sposò Alfonso d’Aragona duca di Bisceglie, figlio illegittimo di Alfonso II di Napoli, dal quale ebbe un figlio: Rodrigo d’Aragona (1499-1512). Tuttavia, un ulteriore cambiamento delle alleanze, che avvicinò i Borgia al partito filofrancese, portò all’assassinio di Alfonso, su ordine di Cesare Borgia. Dopo un breve periodo di lutto, Lucrezia sposò Alfonso d’Este, primogenito del duca Ercole I, e alla corte estense fece dimenticare la sua origine di figlia illegittima del Papa, i suoi due matrimoni e tutto il suo passato burrascoso; infatti, grazie alla sua bellezza e alla sua intelligenza, si fece ben volere sia dalla nuova famiglia sia dalla popolazione ferrarese. Conquistò anche, con la sua abilità politica e la sua diplomazia, la piena fiducia di Alfonso che, quando doveva assentarsi da Ferrara, le affidava la conduzione politica e amministrativa del ducato. Fu anche un’attiva mecenate, accogliendo a corte poeti e umanisti.
[5] Già da Giulio II nel 1508 aveva ottenuto la pingue commenda di S. Giovanni dell’Ordine gerosolimitano a Bologna e da Leone X, nel 1517, l’abbazia benedettina di S. Pietro di Villanova in quel di Vicenza, e importanti benefici dell’Ordine gerosolimitano in Ungheria, onde poté d’allora in poi fregiarsi del titolo di priore d’Ungheria.
[6] Marcantonio Coccio o Cocci, detto Sabellico (Vicovaro, 1436 ca. – Venezia, 1506) fu membro dell’Accademia romana di Pomponio Leto. Dopo aver insegnato retorica in varie città iniziò poi a scrivere. Nelle sue innumerevoli opere ci sono orazioni, scritti sulla topografia e sulle magistrature veneziane. Fu anche amministratore della imponente collezione di manoscritti greci conservati nel Palazzo Ducale di Venezia.
[7] Caterina Cornaro (o Caterina Corner, Venezia, 25 novembre 1454 – Venezia, 10 luglio 1510) è stata regina consorte di Cipro per il matrimonio con il re Giacomo II di Lusignano, detto il Bastardo (Cipro, 1440 ca. – Cipro, 1473). Alla morte del marito divenne reggente del Regno di Cipro durante la breve vita del figlio neonato Giacomo III, e – dopo la prematura scomparsa di questi – salì al trono di Cipro. Il suo regno durò dal 26 agosto 1474 al 26 febbraio 1489, e fu l’ultima sovrana dell’isola. Nel 1489, infatti, fu costretta ad abdicare e a cedere il Regno alla Repubblica di Venezia. Una volta abbandonata il Cipro, fece ritorno in patria e in cambio della rinuncia ottenne in dono dalla Serenissima la terra e il castello di Asolo, conservando però anche il titolo di regina e l’annuale rendita di 8.000 ducati.
[8] Girolamo Fracastoro (Verona, 1477 ca. – Affi, 1553), per quanto considerato uno dei più grandi medici di tutti i tempi, si occupò anche di astronomia, filosofia e letteratura.
[9] Giovanni Aurelio Augurello, o Augurelli (Rimini, 1456 – Treviso, 1524), lasciò presumibilmente ancor giovane la città romagnola, vivendo tra Treviso e Venezia. Verso il 1473 fu a Roma, poi a Firenze, dove strinse amicizia con Marsilio Ficino e conobbe il Poliziano. Desideroso di assicurarsi il patrocinio dei Medici, prese a comporre elegie latine su Giuliano de’ Medici, modellate sulle Eroidi ovidiane. Compose anche rime d’amore in volgare di gusto petrarchesco e si occupò di questioni linguistiche. Nel 1476 Lasciò Firenze al seguito di Bernardo Bembo e si recò a Padova per studiare diritto, ma si dedicò con particolare impegno agli studi classici ed alla poesia nonché all’insegnamento privato. Continuò a coltivare la lirica petrarchesca e analizzò con cura la lingua poetica del Petrarca. Per Pietro Bembo corresse le Prose della volgar lingua.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»
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