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Marco Michelini | 12 Novembre 2019

Francesco Guicciardini, nacque a Firenze nel 1483 da Piero e da Simona Gianfigliazzi. Discepolo e amico di Marsilio Ficino, ricevette un’educazione vasta ed accurata (lettere, latine e greche, matematica, logica), che si compì con gli studi di legge, iniziati a Firenze nel 1499, perfezionati a Ferrara e a Padova, e coronati con la laurea in diritto civile, conseguita a Pisa nel 1505. Nel 1508 il giovane avvocato, che aveva da poco intrapreso, ma con un certo successo, l’esercizio della professione, sposò Maria Salviati, figlia di Alamanno[1], il quale lo introdusse nell’ambiente dell’opposizione antisoderiniana. La prima partecipazione diretta alla vita politica della città coincise per il Guicciardini con il sorgere dell’esigenza della riflessione storico‑politica, destinata poi a concretarsi in quelle che – secoli più tardi – sarebbero state edite con il titolo di Storie fiorentine. La restaurazione medicea del 1512, che tanto danno portò al Machiavelli,  si compì mentre Guicciardini era ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico[2], e al suo ritorno in patria i Medici gli riservano cariche in magistrature (quali gli Otto di Balia e la Signoria) che sotto il nuovo regime avevano perduto ogni peso politico effettivo.

Nel 1516 Guicciardini venne nominato da Leone X ministro pontificio, ed iniziò così il periodo più intenso della sua attività politica e diplomatica, che lo portò a ricoprire cariche importanti: oltre a divenire ascoltato consigliere del pontefice, fu anche governatore di Modena (1516), di Reggio Emilia  e di Parma (1517),  nonché luogotenente generale dell’esercito e dello Stato Pontificio (1521). E proprio in questa veste, fu uno dei principali ispiratori della politica antimperiale del successore di Leone X, Clemente VII, nel tentativo di arginare lo strapotere di Carlo V in Italia. Tuttavia, dopo il rovescio subito dagli aderenti alla lega di Cognac e il sacco di Roma, i Medici (come s’è già avuto modo di dire) furono nuovamente cacciati da Firenze e venne instaurata per la terza volta la repubblica. Travolto da queste vicissitudini e malvisto dai repubblicani per i suoi trascorsi medicei, Guicciardini decise di ritirarsi a vita privata, dapprima a Finocchieto, e, in seguito, a Santa Maria a Montici.

Accusato di appropriazione indebita (che sarebbe stata da lui compiuta nel corso della guerra) e condannato in contumacia (1529), Guicciardini tornò a Roma, rimettendosi al servizio di Clemente VII, che gli offrì un incarico diplomatico a Bologna, legandosi definitivamente alla parte papale. Così, quando Firenze capitolò, nell’agosto 1530, venne mandato a riformare la città (a compiere, cioè, un’opera di epurazione politica nei confronti dei personaggi più compromessi con l’ultima esperienza repubblicana) ed eseguì l’incarico con estrema durezza. Dopo un breve periodo trascorso come governatore di Bologna, tornò nella città natale, quale consigliere del duca Alessandro[3]; ma dopo l’assassinio di questi, e in seguito all’avvento al potere di Cosimo[4], si ritirò definitivamente a vita privata nella sua villa di Santa Margherita in Montici ad Arcetri, attendendo alla composizione della Storia d’Italia. Un attacco apoplettico lo colse nel luglio 1539 e morì ad Arcetri – poco meno di un anno dopo – nel maggio del 1540.

 

Il pensiero di Machiavelli e Guicciardini

Confrontare Machiavelli e Guicciardini è divenuto ormai un classico, non del tutto privo di interesse e comunque sempre istruttivo. Scriveva Francesco De Sanctis: «Francesco Guicciardini, ancorché di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne’ suoi Ricordi.

Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l’Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a’ presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desiderii, e non metterebbe un dito a realizzarli»[5]. Egli, insomma, credeva di leggere nel breve divario d’anni tra i due scrittori tutto il senso della decadenza italiana, poiché al virtuoso principe dell’utopia del Machiavelli si sostituiva l’uomo cinico e disincantato del Guicciardini, che non voleva cambiare la storia opponendosi con la propria “virtù”alla “fortuna”, ma che – preoccupandosi solo del suo “particulare” – si proponeva di galleggiare nella bufera degli accadimenti con la sola qualità della “discrezione”. Per gli uomini del Medioevo la storia era mossa da Dio; per il Machiavelli la storia, come s’è detto, è mossa dall’alterno contrasto tra “virtù” e “fortuna”; per Guicciardini invece la storia è mossa dal caso, inteso come la molteplice e tumultuosa somma di mille interessi particolari e di infiniti e sfuggenti egoismi.

Scrive ancora il De Sanctis: «Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non ci è più il cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili, ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo “particolare”, come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne’ più prepondera l’interesse proprio, e mette sé francamente tra questi più, che sono i savii: gli altri li chiama “pazzi”, come furono i fiorentini, che “vollero contro ogni ragione opporsi”, quando “i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta”, e intende dell’assedio di Firenze, illustrato dall’eroica resistenza di quei pazzi, tra’quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l’Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolgeegli pure, e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.

Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo Stato  del  Machiavelli.  Tutti  gl’ideali  scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l’individuo. Ciascuno per sé, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l’arte della vita»[6].

Va detto, comunque, che le forze che Guicciardini vede operare nella storia, cioè “particolare” e “discrezione”, sono anche le qualità del suo metodo investigativo, nonché i segni distintivi della sua visione del mondo, che dal saldo porto della machiavelliana “verità effettuale” muove per giungere ad un approdo del tutto diverso. La sua capacità di analisi, “particolare” e “discreta”, sempre agganciata al dato positivo e ai documenti, si mostra insofferente verso uno schema massificante, verso utopici ed astratti modelli politici, ed è in tal senso che va letta la sua ostilità (criticata dal De Sanctis) verso la mitica perfezione della Roma repubblicana. In Guicciardini, insomma, lo storico ed il politico sviluppano l’astuzia di adattarsi alla storia senza utopia e senza miti e, soprattutto, senza la volontà di cambiarla. Il suo ideale di uomo “savio” è colui che guarda al proprio interesse e che, adattandosi alle circostanze, sa interpretare con prudenza il caso particolare, il contingente che la realtà gli presenta con una variabilità di dati che non si possono iscrivere in leggi generali.

Cinico e rassegnato, Guicciardini contempla inerte la bufera che minaccia la libertà italiana; condanna i vizi dei religiosi ma, per il suo “particulare”, si trova a desiderare la grandezza dei pontefici che serve; detesta gli stranieri ma invece di indirizzare il Papa verso una crociata contro i turchi, che avevano conquistata l’intera Ungheria, lo scatena contro un sovrano cristiano, Carlo V, mettendo in pericolo non solo i territori sottoposti allo Stato Pontificio, ma persino i guadagni e le sorti dei mercanti fiorentini. Per tutte queste contraddizioni e compromessi morali appare chiaro che in tempi posteriori, e particolarmente agli uomini del nostro risorgimento, le teorie del Guicciardini abbiano suscitato parecchie antipatie e ciò spiega anche la ragione del severo giudizio formulato dal De Sanctis. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che vi è «qualcosa di grande in questa affermazione assoluta e consequenziaria, negli scritti e nella vita, dell’utile individuale, perseguito con mente lucida e con volontà tenace, non per desiderio di guadagno e ambizione d’onori, ma per una sorta di seria e fermissima convinzione e col tormento di chi talvolta amerebbe illudersi e accogliere nell’animo una fede e lasciarsi illuminare dal raggio di una speranza, e non può, perché la fredda considerazione della realtà gli addita la vanità di tutte le speranze e l’inutilità di tutte le fedi»[7]. E di tutto ciò Guicciardini si libera raccogliendo dalla lezione umanistica un’istanza di estremo rigore filologico e portandolo al suo culmine estremo, ma al tempo stesso conservando il gusto per una storiografia intesa come opera schiettamente retorica.

Lo stile del Guicciardini racchiude, nelle ampie volute di un periodo al tempo stesso chiaro e complesso, il dettato d’una intelligenza analitica lucida e razionale, dove il rigore rasenta i limiti di una tersa freddezza: con la fermezza del suo stile, la sua fortissima facoltà di osservazione psicologica, la sua potenza narrativa impassibile e cristallina, egli si pone ad essere considerato il rappresentante più consapevole della sua epoca splendida e rovinosa.

 

Le opere

A differenza di quanto accadde per le opere di Machiavelli che videro la loro diffusione, in modo sia pur parziale, quando l’autore era ancora in vita, gli scritti del Guicciardini conobbero una divulgazione soltanto postuma.

Tra 1508 e 1509, quando l’autore aveva ventisei anni, si colloca la composizione della prima delle due grandi opere storiche guicciardiniane, le Storie fiorentine, primo esempio di storiografia che potremmo ormai definire avviata su posizioni moderne. La narrazione abbraccia il periodo che va dal 1378 (tumulto dei Ciompi) al 1509, e fa riferimento alle fonti d’obbligo, quali le opere di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini; ma di questi, e degli altri esempi di storiografia umanistica, conserva, ben individuabile, un solo tratto: il vario addensarsi e distendersi della narrazione a seconda della maggiore o minore lontananza degli eventi dal tempo del narratore. Così, estremamente concisa è la parte dedicata al periodo che giunge fino alla pace di Lodi (1454); più distesa quella che abbraccia il cosiddetto periodo della politica italiana degli equilibri (1454-94); attenta e minuziosa, infine, quella che riguarda i fatti contemporanei.

Interessante nelle Storie fiorentine è il ritratto di Lorenzo il Magnifico (capitolo IX), che non è più la tradizionale laus dell’uomo illustre, di prammatica nella storiografia classica e umanistica: Guicciardini parla diffusamente del Magnifico perché la sua esistenza coincide con un ben determinato periodo della storia fiorentina, perché eventi pubblici e tratti di un carattere si legano strettamente e si influenzano e si determinano a vicenda, perché nulla, infine, può illuminare sulla Firenze della seconda metà del secolo XV quanto l’illustrazione della personalità politica e della figura morale e intellettuale dell’uomo che la dominò incontrastato, la morte del quale lasciò Firenze e l’Italia nello sbigottimento e nell’incertezza.

Altrettanto interessante il Dialogo del Reggimento di Firenze, composto nel 1521‑25 e articolato in due libri: si finge che esso sia avvenuto nel 1494, all’indomani della cacciata di Piero de’ Medici, quando ancora Firenze era in preda a grande tensione e confusione e si andavano animatamente dibattendo le forme e i modi secondo i quali il potere sarebbe stato esercitato. L’opera si svolge appunto in forma di dialogo, in base al modello di trattato rinascimentale diffuso nel Cinquecento, e gli interlocutori sono Piero Guicciardini, padre di Francesco, Piero Capponi[8], Paolantonio Soderini[9], e, infine, Bernardo del Nero[10].

Il  Dialogo contiene un’analisi politica delle diverse forme di governo esistenti (monarchia, oligarchia, regime popolare), per concludere che quella migliore è la “mista” che le contempera tutte e tre e che secondo Guicciardini coincide con il principato oligarchico costituito dai Medici a Firenze (in modo simile a quando detto da Machiavelli nei Discorsi, salvo che l’ex-segretario accordava la sua preferenza al regime repubblicano). Singolare è la posizione espressa da Bernardo del Nero che non è indiscriminatamente filomedicea, e, anzi, riconosce errori e colpe accumulati dai Medici nella gestione del potere; ma non ritiene che il governo a base popolare allargata, quale andava instaurandosi in Firenze – e la tendenza in questo senso troverà concretizzazione nell’istituzione del cosiddetto Consiglio Maggiore, nel dicembre 1494 – sia un bene per la città. La bontà dei governi va misurata dagli effetti che producono sulla cosa governata; e, in particolare, gli effetti di un governo che si va formando devono essere dedotti da quelli prodotti da altri governi, fondati sulle stesse basi. Poiché, una volta identificati i potenziali difetti del governo popolare, li si vedranno equivalere a quelli determinatisi nel governo mediceo, occorrerà esaminare e proporre un terzo tipo di governo, che andrà configurandosi come simile a quello misto, così lungamente e felicemente sperimentato dai Veneziani.

Erano queste, come si può facilmente comprendere, idee vivamente dibattute a Firenze, e già da lungo tempo rispetto al periodo nel quale scrive Guicciardini, e che, anzi, avevano conosciuto momenti di auge ancora maggiore. Propria del Guicciardini è, però, la consapevolezza dell’estrema, delicata complessità dei meccanismi della vita politica, che non può sottostare a semplificazioni né prestarsi a idealizzazioni. In questo spirito è riesaminato uno dei miti più fascinosi, ma più ambigui e ingannevoli del dibattito politico di tutti i tempi: il concetto di libertà come molla e fine dell’azione politica, al quale è sostituito l’altro, ben più realistico e appropriato, del potere.

Nel 1527, in seguito ai tragici avvenimenti e ai rivolgimenti costituzionali dovuti al Sacco di Roma, emarginato dalla vita politica e accusato di imprevidenza, per aver consigliato a Clemente VII l’adesione alla lega antispagnola di Cognac, e di malversazione e appropriazione indebita (avrebbe permesso il saccheggio del contado di Firenze per impossessarsi delle paghe destinate ai soldati), Guicciardini scrisse tre orazioni: Accusatoria, Difensoria, Consolatoria. Nell’Accusatoria, che ha uno stile declamatorio e populista, si immagina condotto dinanzi al magistrato della Quarantia criminale, dove un accusatore gli formula con violenza addebiti non documentati che gli possono essere attribuiti; mentre nella Difensoria (rimasta incompiuta), che ha stile più pacato e razionale, è contenuta la sua serena difesa, fondata su prove inoppugnabili.

Ben altra importanza e valore letterario ha la Consolatoria, che si muove su un dottissimo piano di eredità classica, sia per il genere nel cui ambito si colloca (le consolationes classiche, soprattutto negli esempi canonici dovuti a Seneca e a Boezio), sia per il modo in cui è condotta e gli argomenti dai quali è costituita. Un immaginario amico consolatore gli si rivolge, respingendo gli astratti argomenti della religione e della filosofia, «cose verissime, e che se noi avessimo purgato gli animi… medicherebbono tutte le nostre infermità», ma inadatte a lenire le angosce di «chi dalla fragilità umana è impedito a levarsi tanto alto, e chi in ogni avversità che gli sopravenga si ricorda e senta di essere uomo». E, appunto, sulla dignità propria di ogni uomo in quanto tale la consolazione si fonda, facendo appello alla consapevolezza della soggezione umana agli «accidenti», inevitabile per quanto dolorosa, da un lato; e, dall’altro, al conforto di una pura coscienza, unico bene veramente inalienabile della condizione mortale. Il grande tema classico dell’otium cum dignitate è riletto qui nella chiave della possibilità di conseguire una dignitas anche nell’otium, e, in genere, in qualunque condizione l’uomo sia collocato. Nella commedia della vita non si può rifiutare la parte che ci è assegnata; occorre, ogni volta, saper fornire l’interpretazione più dignitosa.

Nel 1530, fuggiasco a Roma in seguito alla condanna in contumacia inflittagli dal governo fiorentino per le accuse di cui s’è detto, Guicciardini lesse i Discorsi di Machiavelli, e scrisse le riflessioni che gli ispirava la lettura di alcuni dei brani più significativi: le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli. Oltre alla dissacrazione e allo smantellamento sistematico del mito di Roma in particolare e dell’antichità classica in generale quali modelli assoluti di prassi politica, si teorizza e si sancisce nelle pagine guicciardiniane il particolarismo come struttura fondamentale e archetipica della realtà politica italiana. Si nega infatti all’unica entità politica di portata mondiale fisicamente stabilita nella penisola la sua funzione di catalizzatore di forze. Nel testo machiavelliano la Chiesa è, sì, paradossalmente e mostruosamente, la distruttrice, ai fini dell’autoconservazione e dell’accrescimento, dei propri fondamenti stessi (il primo bersaglio della sua azione maligna è infatti proprio la religione), ma rimane pur sempre il termine di paragone – o, se si vuole, il segno di contraddizione – di tutta la cristianità. In Guicciardini, invece, Chiesa e corte romana coincidono perfettamente, e divengono «uno esemplo di tutti e’ vituperi ed obbrobri del mondo»; e con ragione, secondo la mutazione dei tempi. Non c’è più la Chiesa, ma una chiesa: in una cristianità spezzata, nella quale ogni parte del corpo originario si rinchiude in se stessa sempre più esclusivamente, è giusto che si riaffermi il «fato d’Italia» nella vocazione ribadita alla frammentazione – e, d’ora in poi, nella progressiva emarginazione e provincializzazione culturale e politica.

I Ricordi politici e civili possono essere considerati l’opera principale di Guicciardini e una delle più originali del Cinquecento, se non altro per la distanza dai modelli rinascimentali di trattato che in quel periodo erano stati fissati. Composti in cinque redazioni succedutesi a distanza di anni, e differenti per tono, interessi, fine, impostazione, i Ricordi andarono arricchendosi numericamente, così che dai tredici pensieri della redazione 1512 si passa ai duecentoventuno della redazione 1530. Abbandonato l’ambito ristretto dell’esperienza politica contingente e cittadina, ed emancipandosi via via dalla preminenza accordata all’esempio sull’enunciazione generale, raggiungono nella terza redazione (1525) – l’esistenza della quale è certa, nonostante non se ne sia conservato l’autografo – un primo approccio a quelli che saranno i caratteri definitivi dell’opera, e costituiranno la ragione della sua universale validità: la speculazione, svincolata dal contingente, sui temi universali della fortuna e del caso, della natura umana e del suo molteplice manifestarsi, condotta con un metodo sicuramente identificato e posseduto, e basato sull’esperienza diretta del presente e la conoscenza approfondita del passato. La redazione definitiva, poi, ulteriormente arricchita e formalmente migliorata, sa serrare con saldezza l’esempio particolare nell’enunciato generale, che, come ben si addice a chi ha deciso ormai di osservare la realtà con atteggiamento distaccato, esclude sia il ricorso al trono precettistico e ammonitorio che il diretto riferimento politico.

Il genere degli aforismi, delle brevi massime di tono moraleggiante, di commento ad episodi di vicende storiche o di vita vissuta, aveva conosciuto altri esempi nella letteratura italiana, tuttavia Guicciardini è il primo a cimentarsi in un’opera interamente formata da massime sentenziose. I pensieri, che si succedono senza un ordine prestabilito e privi di qualsiasi divisione interna, per cui l’opera ha carattere frammentario, sono quasi tutti abbastanza brevi e trattano tematiche diverse, tra cui le principali riguardano il potere e la tirannide, il ruolo del consigliere del principe, l’importanza della “discrezione” e il potere della fortuna, la critica alla corruzione della Chiesa, l’arte della simulazione e dissimulazione, gli eserciti, nonché varie considerazioni morali e sulla natura degli uomini. Nei Ricordi emerge più chiaramente la visione del mondo che caratterizza l’autore e in molti aforismi si vede la sua sottile polemica contro le idee di Machiavelli, senza peraltro che il suo amico e contemporaneo venga mai esplicitamente nominato. L’idea di fondo, piuttosto pessimistica, è che difficilmente gli uomini possano opporsi al destino e al potere della fortuna, per cui è illusorio proporre modelli o massime di validità generale, ed è preferibile affidarsi alla “discrezione”, sempre intesa come la capacità di adattarsi alle diverse circostanze, con sagacia ed esperienza del mondo.

L’unica tra le opere guicciardiniane che comparve nella sua completezza nel corso del secolo XVI fu la Storia d’Italia, pubblicata (anch’essa postuma) parte a Firenze e parte a Venezia tra il 1561 e il 1564. Scritta tra il 1537 e il 1540, fu anche l’ultima opera composta dal Guicciardini, e l’unica concepita espressamente per la pubblicazione, perché doveva testimoniare e concludere l’evoluzione del proprio pensiero, offrendolo al pubblico nella sua forma più matura e definitiva. Se anche il proposito di scrivere sul proprio operato commentari ispirati a quelli cesariani non è che frutto di fantasia aneddotica, certo è, tuttavia (perché documentato dalle tre orazioni), che in quel torno di tempo Guicciardini si pose a rimeditare seriamente la propria azione politica e i principi e le direttive ai quali si era ispirata, azioni e principi destinati a subire ripetuti scacchi negli anni seguenti. Infatti, mentre nel ristretto ambito fiorentino si dimostra impossibile il tentativo di governo moderato del Capponi, la situazione politica europea si evolve in senso opposto ai disegni antimperiali che Guicciardini aveva fatti propri, e ai quali aveva ispirato la politica di Clemente VII. Alla morte di questi, nel 1534, e ancor più nel 1536, quando a Napoli deve accettare le decisioni di Carlo V circa Firenze, si fa perfettamente chiaro nella sua mente il tragico quadro della finis Italiae che da mezzo secolo si andava inesorabilmente componendo. Ed ecco compiuta anche l’evoluzione del suo disegno storiografico, che dalla profonda consapevolezza della portata della crisi presente trae motivo di distacco dal particolarismo autobiografico, ed è condotto alla considerazione di un ambito ben più vasto, in cui il fallimento politico individuale si manifesta come particolare coerente ma secondario.

La Storia d’Italia ricostruisce le vicende della nostra penisola dal 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico, al 1534, anno della morte di papa Clemente VII, ed è un’opera che presenta delle interessanti novità rispetto alla tradizione storiografica dell’Umanesimo, soprattutto perché il libro è privo di qualunque intento encomiastico e l’autore si sforza dunque di essere il più oggettivo possibile. La scelta di concentrare la narrazione su un periodo relativamente breve, per il quale è possibile reperire fonti di prima mano e pezzi d’archivio (oltre alla narrazione di fatti di cui l’autore stesso è stato testimone), è dunque dettata dalla volontà di rendere la ricostruzione degli avvenimenti assai precisa. L’elemento più interessante dell’opera, in ogni caso, è la coscienza che dopo il 1492 si è aperto un periodo di crisi politica e militare per l’Italia, le cui cause vengono ricondotte al quadro più ampio delle vicende storiche dell’Europa di cui l’autore ha maggiore consapevolezza, giungendo a conclusioni talvolta assai più penetranti del suo amico e concittadino Machiavelli. Tutto ciò fa sì che Guicciardini sia il primo vero storico moderno d’Italia, anche se rimane debitore del modello storiografico classico in cui era frequente il ricorso alla tecnica del ritratto dei personaggi e del discorso, soprattutto di quello di Sallustio o di Tacito.

I venti libri della Storia d’Italia, con la loro vasta e grandiosa rappresentazione di uomini e di avvenimenti, sono tutto un susseguirsi di manifestazioni della non rispondenza delle cose alla razionalità umana e della «mala misura» del consiglio, non soltanto occasionale e da parte dei potenti, ma costante, e da parte di tutti gli uomini, rispetto al proporsi delle cose; e l’insegnamento e la visione morale che da tutto ciò scaturisce è «la generale malvagità e pochezza degli uomini, l’accanimento con cui essi perseguono (o s’illudono di perseguire) il loro particolare interesse, l’errore quasi sempre indotto nelle loro deliberazioni dalla passione e dalla ristrettezza mentale, e infine l’instabilità e la malignità della fortuna. Ma ciò che importa non è tanto questa moralità in sé, così scarna e generica infine, sì piuttosto l’accortezza, la duttilità, le infinite risorse con cui quelle poche idee si applicano via via all’interpretazione dei fatti e riescono a illuminarli e renderli evidenti»[11].

***NOTE***

[1] Alamanno Salviati nacque nel 1459 da una delle più illustri famiglie fiorentine. Nel 1482 sposò Lucrezia Capponi, dalla quale ebbe dodici figli. Nel 1499 divenne ambasciatore presso Luigi XII di Francia. Figura politica di primo piano, durante la Repubblica fu lui a proporre la creazione di un gonfaloniere a vita, sostenendo la candidatura di Pier Soderini. Successivamente, però, deluso dalla politica filopopolare del Soderini, divenne un suo duro oppositore. Morì nel 1510 dopo lunga malattia.

[2] Ferdinando II di Trastàmara, detto Ferdinando il Cattolico, (Sos, 10 marzo 1452 – Madrigalejo, 23 gennaio 1516) era figlio di Giovanni II e della sua seconda moglie, Giovanna Enríquez. Nel 1468, Ferdinando venne nominato dal padre re di Sicilia e nel 1469 sposò l’infanta di Castiglia, Isabella. Nel 1474, alla morte del fratellastro Enrico IV, Isabella fu proclamata regina di Castiglia e Ferdinando divenne re consorte. Ciò scatenò la guerra di successione con Alfonso V del Portogallo, che difendeva i diritti della moglie sulla corona di Castiglia. Lo scontro decisivo avvenne nel 1476, nella battaglia di Toro: Ferdinando, comandante dell’esercito castigliano, mise in fuga Alfonso che si ritirò in Portogallo, e la pace fu siglata ad Alcáçovas, il 4 settembre del 1479. Frattanto, alla morte del padre nel gennaio 1479, Ferdinando oltre che re di Sicilia, era divenuto anche re di Aragona e, nello stesso anno, fu decretata l’unione de facto della Corona di Castiglia con quella d’Aragona. Nel 1481 Ferdinando iniziò la guerra contro il regno dei Nasridi del Sultanato di Granada: grazie alla sua diplomazia e alle sue attitudini militari, la guerra ebbe successo e terminò nel 1492, con la capitolazione dell’ultimo caposaldo musulmano nella penisola iberica, la città di Granada. Sullo slancio della vittoria, Ferdinando conquistò in seguito anche Melilla e le Canarie. Dopo la caduta di Granada, papa Innocenzo VIII (1484-1492) conferì a Isabella ed al marito Ferdinando il titolo di “Maestà cattolica”. In cambio, Isabella fece omaggio al successore d’Innocenzo, lo spagnolo Alessandro VI, del primo oro arrivato dalle Americhe, del quale fu rivestito il soffitto della Basilica di Santa Maria Maggiore. Ferdinando fu il primo ad introdurre l’Inquisizione in Castiglia (1480) e in Aragona(1484). Inoltre introdusse il principio della conformità religiosa, per cui con il decreto di Granada (1492) venne sancita l’espulsione di tutti gli ebrei che non accettavano di convertirsi al cristianesimo e la conversione forzosa degli abitanti del regno di Granada (1503), ai quali però la regina Isabella, al momento della capitolazione del regno di Granada, aveva garantito il diritto alla libertà religiosa. Successivamente Ferdinando, per opporsi al tentativo francese di annessione del Regno di Napoli, inizio una campagna in Italia, ma fu sconfitto a Seminara (1495) e costretto a rifugiarsi a Palmi. Nel 1496, però, sconfisse i Francesi costringendoli a ritirarsi i Clabria; ma dopo le vittoriose battaglie a Cerignola e sul Garigliano, riuscì a completare (1503) la conquista dell’intero Regno di Napoli.

[3] Alessandro de’ Medici, detto il Moro (Firenze, 22 luglio 1510 – Firenze, 6 gennaio 1537), era probabilmente figlio illegittimo di Lorenzo II de’ Medici, o forse figlio naturale del cardinale Giulio de’ Medici (divenuto poi Clemente VII). Dopo la caduta della repubblica, grazie all’accordo tra Carlo V e Clemente VII, appoggiato dalle armi spagnole divenne il nuovo signore di Firenze. Una volta assunto il potere cominciò a imprimere un tipico carattere sempre più “principesco” al proprio governo e a eliminare i simboli, cari ai fiorentini, delle istituzioni repubblicane e comunali. Durante il suo governo le istituzioni fiorentine conservavano una parvenza di democrazia solo attraverso un simbolico Consiglio dei Duecento e un simbolico Senato, composto dal 1532 di quarantotto membri nominati a vita con un blando potere decisionale, più che altro consultivo. E la carica di senatore rimase un’alta onorificenza anche per tutto il successivo periodo del Granducato di Toscana. Nel 1536 sposò Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V, ma il matrimonio non fu felice a causa del carattere e della sregolatezza del duca. Alessandro, comunque, poco più di sei mesi dopo, venne assassinato – con l’aiuto di un sicario – in una congiura ordita da suo cugino, Lorenzino de’ Medici, con il quale aveva un rapporto poco chiaro, che alcuni accenni (celebre la descrizione di Cellini) vorrebbero addirittura omoerotico.

[4] Cosimo I de’ Medici (Firenze, 1519 – Firenze, 1574) era figlio del condottiero Giovanni de’ Medici, detto delle Bande Nere, e di Maria Salviati, figlia di Jacopo e di Lucrezia de’ Medici. Dopo l’assassinio del duca Alessandro, a soli diciassette anni salì al trono ducale, con la clausola che il potere sarebbe stato esercitato dal consiglio dei Quarantotto. Ma Cosimo, grazie al consenso di Carlo V, dopo aver ottenuto un decreto che escludeva il ramo di Lorenzino da qualsiasi diritto di successione, esautorò i consiglieri ed assunse l’assoluta autorità, restaurando il potere dei Medici in modo così saldo che da quel momento governarono Firenze e gran parte della Toscana attuale fino alla fine della dinastia (1737). Nel 1539 sposò Eleonora di Toledo, dalla quale ebbe undici figli. A partire dal 1543, dopo avere riscattato le ultime fortezze in mano all’Imperatore, Cosimo I cominciò ad estendere i suoi domini e nel 1555 occupò Siena, creando un forte stato regionale. Nel 1569, dopo aver stipulato un accordo col Papa secondo il quale avrebbe messo la sua flotta a servizio della Lega Santa che si stava venendo a formare per contrastare l’avanzata ottomana, Pio V emanò una bolla che lo creava granduca di Toscana. Nel gennaio dell’anno successivo fu incoronato dal papa stesso a Roma. Cosimo I promosse anche lo sviluppo del porto di Livorno, fece opere di canalizzazione e di bonifica, introdusse e finanziò la fabbricazione di arazzi, costruì strade, porti, dotò molte città toscane di fortilizi e rafforzò l’esercito.

[5] Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, introduzione di Luigi Russo, a cura di Maria Teresa Lanza, Feltrinelli, Milano, 1970, pag. 541-542.

[6] Ibidem, pag. 543-544.

[7] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Volume II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 84-85.

[8] Piero Capponi (Firenze, 1446 – Soiana, 1496) era inizialmente destinato ad una carriera d’affari, ma Lorenzo de’ Medici, che apprezzava le sue abilità, lo inviò come ambasciatore presso varie corti, compito che assolse egregiamente. Alla morte di Lorenzo (1492), cui successe il meno capace figlio Piero, Capponi divenne uno dei capi della fronda contraria ai Medici che due anni dopo riuscì a cacciare Piero il Fatuo da Firenze. Capponi fu nominato capo della repubblica, e si dimostrò un accorto statista, in particolare nelle negoziazioni con Carlo VIII di Francia, che aveva invaso l’Italia nel 1494. Quando le truppe francesi lasciarono la Toscana, Capponi guidò l’esercito di Firenze a domare i focolai di rivolta alimentati dai pisani e fu ucciso durante l’assedio al castello di Soiana.

[9] Paolantonio Soderini (Firenze, 1449 – 1499) nacque da Tommaso (esponente di primo piano del regime mediceo) e da Dianora di Francesco Tornabuoni, cognata di Piero il Gottoso. Personaggio influente, Soderini fu per un quindicennio tra i principali sostenitori del governo di Lorenzo de’ Medici, al cui interno ricoprì ruoli importanti di carattere diplomatico. Dopo la cacciata dei Medici, Soderini partecipò attivamente alla definizione del nuovo assetto istituzionale di Firenze deciso dal Parlamento il 2 dicembre 1494. Fece parte dei Dieci di libertà e pace (dal 3 dicembre 1494), che presentarono il progetto di riforma poi approvato il 23 dicembre dai consigli competenti. Soderini individuava la massima espressione della libertà nella forma repubblicana condivisa da un “largo” numero di cittadini, in base all’esempio del governo veneziano ben equilibrato nella partecipazione di numerosi membri di diversa qualità e condizione.

[10] Bernardo Del Nero (Firenze, 1422 – 1497), sostenitore di Lorenzo il Magnifico, ricoprì numerose cariche politiche. La sua influenza aumentò ancora nel breve periodo della signoria di Piero de’ Medici, durante il quale fece parte per due volte degli Otto di pratica, divenuti gli arbitri della politica fiorentina. Con l’avvento della Repubblica il Del Nero non fu messo da parte, tanto è vero che il 1º marzo 1497 fu chiamato per la terza volta a ricoprire la carica di gonfaloniere di Giustizia. Accusato di essere al corrente di una congiura filomedicea e di non averla denunciata (e ciò mentre, come gonfaloniere di Giustizia, aveva in mano le sorti della Repubblica), il Del Nero finì sotto processo e fu condannato a morte.

[11] Ibidem, pag. 95-96.


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