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Marco Michelini | 21 Ottobre 2019

Quando Carlo VIII discese dalla Francia in Italia, Niccolò Machiavelli era ormai un uomo fatto, ma di lui e della sua vita, delle sue idee e reazioni in quel cruciale evento del 1494, che segnò in maniera indelebile la vita politica d’Europa, dando altresì inizio alla decadenza dell’Italia e – in particolare – ad un travagliatissimo periodo per la città di Firenze, che fu «la la sede più importante del moderno spirito italiano» (Burckhardt), non abbiamo notizie certe.

Era nato nel 1469 da Bernardo Machiavelli, di professione notaio, e Bartolomea Nelli. La famiglia paterna, appartenente all’antica piccola nobiltà fiorentina, che aveva dominato in Val di Pesa e in Val di Greve e per qualche tempo su Montespertoli prima di cadere sotto l’egemonia del comune di Firenze, nel quale si allearono con la parte Guelfa del Sesto d’Oltrarno, aveva dato alla repubblica gonfalonieri e priori, ma era all’epoca parecchio decaduta; e anche la madre apparteneva a una famiglia abbastanza distinta, proveniente dagli antichi conti di Borgonuovo di Fucecchio, noti fin dal decimo secolo.

Nonostante la sua non florida posizione economica, che peserà non poco sulla vita di Niccolò quando entrerà nella politica, Bernardo volle che il figlio avesse un’ampia e approfondita formazione culturale di stampo umanistico. Tuttavia, della sua giovinezza si sa poco o nulla, come poco si sa dei suoi maestri o dei suoi studi; qualche notizia ce l’offre Bernardo stesso nel suo Libro di ricordi: nel 1476 Niccolò comincia a studiare aritmetica e latino, l’anno seguente viene affidato alla scuola di Battista da Poppi nella chiesa di San Benedetto, dal novembre 1481 passa alla scuola del latinista Paolo da Ronciglione, col quale approfondisce la lettura degli autori latini.

Possiamo immaginare che studiò approfonditamente la storia romana e quella greca e i grandi scrittori classici e fiorentini. Nel 1496 gli morì la madre e quattro anni dopo, il 10 maggio 1500, il padre; nel 1497 patrocinò a nome di “tutta la famiglia de’ Machiavegli, cives fiorentini” una causa relativa alla rivendicazione di certi prelievi fiscali e al godimento di vari diritti che da qualche tempo erano nelle mani di una potente famiglia fiorentina. Nell’autunno 1501 sposò Marietta Corsini, dalla quale ebbe cinque figli e alla quale non sarà molto fedele: nelle sue lettere parla spesso di amori fugaci o anche tenaci, come quello per la Riccia o per la cantante Barbara Salutati, relazione – quest’ultima – che durerà in pratica fino alla sua morte.

Dopo la cacciata dei Medici da Firenze (grazie anche a Carlo VIII) e la restaurazione della Repubblica, nel giugno del 1498 Niccolò Machiavelli venne eletto Segretario della Seconda Cancelleria, che s’occupava soprattutto della corrispondenza relativa all’amministrazione dello Stato; e un mese dopo a quella carica si aggiunse anche quella di Segretario dei Dieci di Libertà e di Balia, cioè la magistratura cui spettava di sovrintendere alle relazioni estere e diplomatiche della Repubblica: per l’ulteriore responsabilità ed i compiti di cui il Machiavelli si trovò gravato fecero sì ch’egli venisse storicamente considerato il “Segretario fiorentino” per antonomasia. Questi uffici, comunque, non solo gli daranno modo di radunare un vastissimo materiale storico e politico che costituirà l’ossatura di tutte le sue opere, ma anche la possibilità di iniziare un’intensa frequentazione diretta con gli esponenti della politica italiana ed europea.

La guerra che Firenze dovette condurre per riconquistare la ribelle Pisa, che rappresentava un vitale sbocco al mare; la crescente potenza di Cesare Borgia, che andava creando un nuovo stato nell’Italia centrale, ancora incerto nei confini, ma foriero di ulteriori disordini e inquietudini per l’assetto della penisola; la necessità di riesaminare, alla luce della nuova situazione, le tradizionali alleanze di Firenze, e di allacciarne altre, trascurate all’epoca dei Medici; tutto questo portò Machiavelli a compiere per conto delle Repubblica e del suo Gonfaloniere, Pier Soderini, numerose missioni diplomatiche (ben 23 tra il 1498 e il 1512).

Nel marzo 1499 compì la sua prima missione presso Jacopo d’Appiano, signore di Piombino per sorvegliare l’arruolamento delle truppe mercenarie e nel mese di luglio venne inviato presso Caterina Riario Sforza, contessa di Forlì, per indurla a partecipare alla guerra contro Pisa. Nel 1500, dopo la diserzione dei mercenari guasconi che al soldo di Firenze assediavano Pisa, si recò, insieme a Francesco della Casa, da Luigi XII per esprimere il risentimento della Repubblica fiorentina. Pur fallendo nello scopo principale della missione (cioè ottenere validi aiuti contro Pisa), riuscì ad intessere un’abile trama diplomatica col fine di ridare una certa importanza alla Repubblica attraverso un’azione volta a «diminuire e’ potenti, vezegiare li sudditi, mantenere li amici e guardarsi da’ compagni, cioè da coloro che vogliono avere equale autorità», come scrisse in una relazione mandata a Firenze, anticipando concetti che verranno poi espressi nel III capitolo del Principe.

Nel febbraio 1502 venne inviato a Pistoia, lacerata da lotte intestine, e nell’ottobre dello stesso anno si recò ad Urbino, a seguito del vescovo Soderini, fratello di Pier Soderini, per incontrare Cesare Borgia. Durante questo primo incontro col duca Valentino, Machiavelli ebbe quelle impressioni che caratterizzeranno il protagonista del Principe, che appare un audace e spietato statista, dotato di eccezionali capacità politiche prima ancora che militari, freddamente determinato a crearsi uno stato e genialmente incamminato sulla strada della creazione di una milizia personale e cittadina, scartando le milizie ausiliarie e mercenarie, infide e spesso traditrici, comunque più legate al soldo che a rischiare la vita per chi le ha ingaggiate.

La disastrosa prova di sé che le truppe mercenarie avevano offerto nella guerra contro Pisa, spinsero Machiavelli a fare alla Repubblica una proposta rivoluzionaria: costituire una milizia popolare. Il Consiglio Maggiore lo autorizzò alla fine del 1505 a cominciare il reclutamento nel vicariato del Mugello e nel Casentino; e nel dicembre dello stesso anno fu istituita la magistratura dei Nove Ufficiali dell’ordinanza e della milizia fiorentina, della quale Machiavelli venne nominato Segretario. Durante il carnevale del 1506 avvenne la prima sfilata delle nuove truppe che nel 1509 bene si comportarono durante l’assedio di Pisa. Il 10 marzo 1509 Machiavelli incontrò i Pisani a Piombino per trattare una onorevole resa e poté in seguito entrare alla testa dei suoi battaglioni in Pisa dopo una guerra durata 15 anni.

Negli anni successivi compirà altre ambascerie presso l’Imperatore Massimiliano[1] e Luigi XII di Francia. Gli eventi tuttavia precipitarono l’11 aprile 1512 quando, in una grandissima battaglia a Ravenna, i Francesi sconfissero le truppe della Lega Santa voluta dal Papa. Nella battaglia, però, vi trovò la morte il comandante delle truppe francesi, Gastone di Fois; ciò – unitamente alle gravi perdite subite e al timore di un intervento dell’Imperatore al fianco del Papa – neutralizzò gli effetti della vittoria. Successivamente sia la tregua con l’Imperatore che la paura di un intervento sul territorio francese degli inglesi che con le navi cominciavano a infestare le coste della Normandia e della Bretagna, spinge Luigi XII a richiamare in Francia un forte contingente di truppe, lasciando sguarnito l’esercito di stanza in Italia. Firenze restò così in balia del papa e il 29 agosto le milizie comunali raccolte dal Machiavelli vennero sconfitte dalle truppe spagnole e pontificie che conquistarono e saccheggiarono Prato due giorni dopo, mentre Machiavelli cercava di svolgere un’opera di pacificazione cittadina inviando un appello al partito dei Medici, ma senza risultato.

Rovesciato il governo repubblicano, i Medici, cacciati nel 1494, dopo 18 anni, il 16 settembre rientrarono in città. L’8 novembre la signoria medicea sollevò Machiavelli dall’incarico, privandolo di ogni beneficio. Il 10 venne condannato a un anno di confino all’interno del dominio e territorio fiorentino con l’obbligo di non oltrepassarne il confine (che trascorrerà presso San Casciano) e al pagamento di una cauzione ingentissima: mille fiorini d’oro, che gli furono forniti da tre amici rimasti sconosciuti.

Nel febbraio 1513 venne scoperta una congiura contro il nuovo governo mediceo e Machiavelli, sospettato di avervi preso parte, fu arrestato e torturato. Liberato 22 giorni dopo in occasione dell’amnistia per l’elezione del cardinale Giovanni de’ Medici, divenuto papa col nome di Leone X[2], si ritirò allora nella Potesteria di San Casciano nel quartiere detto di Sant’Andrea in Percussina, località La Strada, nella villa de L’Albergaccio. Alla fine del 1513, in pochi mesi, scrisse il Principe e lo dedicò a Lorenzo II de’ Medici[3] (detto Lorenzino), che lo accolse con una certa freddezza e distacco.

Nel 1516 i giardini di Palazzo Rucellai si aprivano ad accogliere, attorno a Cosimo Rucellai[4], dotti e letterati quali Luigi Alamanni[5], Zanobi Buondelmonti[6], Gian Giorgio Trissino e altri. Anche il Machiavelli prese parte a tali riunioni, allorché diminuita la rigidità del confino, egli poté cominciare a rimettere piede in Firenze. Negli Orti Oricellari – questo era il nome dato a tali riunioni – riviveva l’interesse curioso ed erudito per il passato classico, e la profonda dottrina filologica si rivolgeva all’attualissimo problema dei rapporti tra il latino e quel volgare fiorentino che dai dibattiti del secolo XVI sarebbe uscito compiutamente teorizzato come lingua letteraria, e canonicamente sancito dagli esordi della plurisecolare impresa della codificazione cruscante. Si rinnovava anche l’interesse politico, e individuava con sempre maggiore chiarezza i modelli costituzionali remoti e contemporanei (Roma, Venezia) che dovevano fornire forme, chiarezza e certezze giuridiche alle proposte e sperimentazioni politiche presenti e future.

Nei mesi di gennaio-febbraio del 1518 Machiavelli compose la Commedia di Callimaco e Lucrezia, cioè La Mandragola, che venne data alle scene per la prima volta durante le rappresentazioni teatrali organizzate per le nozze di Lorenzo II de’ Medici con Margherita de La Tour d’Auvergne nel settembre dello stesso anno. Sempre del 1518 è probabilmente (ma la datazione è molto controversa) anche la novella Il demonio che prese moglie, una favola meglio conosciuta col titolo di Belfagor Arcidiavolo.

Frattanto i Medici cominciarono ad utilizzare nuovamente il Machiavelli in incarichi semiufficiali per conto di banchieri e mercanti fiorentini, legati alle fortune medicee: venne inviato a Lucca per tutelare gli interessi di alcuni mercanti fiorentini coinvolti in un grave fallimento, e poi a Carpi, presso i frati minori, tra i quali dovrà scegliere un predicatore per Firenze. Nel 1520, per interessamento del cardinale Giulio de’ Medici (il futuro Papa Clemente VII), succeduto a Lorenzino nella guida della vita politica di Firenze, ottenne l’incarico di redigere Annalia et cronacas florentinas, con uno stipendio di 57 fiorini l’anno, che in seguito subirà un aumento fino a 100 fiorini l’anno. Anche se lo stipendio era scarso, l’incarico era comunque prestigioso, perché riceveva l’onore di essere lo storico ufficiale della città, incarico che prima di lui avevano ricoperto altri primi cancellieri, come Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.

Contemporaneamente gli eventi politici in Italia andavano precipitando: Francesco I sconfitto dalle truppe imperiali a Pavia, fatto prigioniero, portato in Spagna e liberato nel gennaio 1526, dopo aver accettato le dure condizioni della pace di Madrid, aveva ripreso le ostilità organizzando nel mese di maggio la Lega di Cognac insieme a Firenze, Milano, Venezia e al papa Clemente VII, che invano Carlo V[7] aveva cercato di attirare nella sua orbita. Nel giugno di quell’anno a Firenze venne istituita una nuova magistratura, quella dei Cinque Procuratori delle mura e Machiavelli fu nominato segretario con l’incarico di sovrintendere alle fortificazioni della città, cosa che fece con la solita passione e con l’abilità delle sue conoscenze, anche se più teoriche che pratiche.

All’inizio del 1527 il duca di Ferrara si schierò con Carlo V e i Lanzichenecchi marciarono su Roma, saccheggiandola. Clemente VII, tenuto prigioniero in Casel Sant’Angelo da una guarnigione imperiale per sette mesi, riuscì a fuggire, con la compiacenza di alcuni ufficiali, rifugiandosi prima a Orvieto e poi a Viterbo, da cui fece ritorno a Roma solo nell’ottobre dell’anno dopo.

La caduta di Clemente VII provocò la caduta dei Medici a Firenze: il 18 maggio una sollevazione popolare rovesciò il governo mediceo e ristabilì la costituzione repubblicana. Machiavelli, che si era recato a Civitavecchia per ispezionare la flotta di Andrea Doria, tornò precipitosamente a Firenze, ma si trovò di fronte a una generale ostilità, determinata dalla sua collaborazione coi Medici. Escluso da tutte le cariche della nuova repubblica, a causa di un medicamento semplicissimo di cui soleva far uso per i suoi frequenti mali allo stomaco, morì cristianamente tra feroci dolori il 22 giugno 1527.

 

Il pensiero che nasce dall’esperienza

La strutturazione del pensiero del Machiavelli come chiaramente traspare nel Principe, o – come egli ama dire – nell’opuscolo De Principatibus, è intimamente collegata alla sua esperienza di diplomatico della Repubblica fiorentina. Egli «non fu mai un teorico astratto, capace di dare alle sue idee quello svolgimento sistematico e quella chiarezza  e precisione espositiva che sembrano i caratteri distintivi delle opere di scienza pura»[8]. E alla luce di ciò si comprende quindi il senso delle parole che il Machiavelli scrive all’amico Francesco Vettori dal suo confino all’Albergaccio: «Pure si io vi potessi parlare, non potre’ fare che io non vi empiessi il capo di castellucci, perché la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta, né dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, et mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo».

Tale confessione va messa accanto all’altra, molto famosa e indirizzata sempre al Vettori, nella quale il Machiavelli scrive: «Venuta la sera, mi ritorno in casa et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali e curiali; et rivestito con decentemente, entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non tempo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza lo ritenere lo avere inteso io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De Principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono»[9]. Nel dicembre del 1513 il Principe è dunque già terminato – anche se non in via definitiva – e per comporlo Machiavelli aveva interrotto fin dal luglio dello stesso anno i suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, probabilmente tra il XVII e il XVIII capitolo del libro primo.

Il Principe consta di ventisei capitoli. I primi undici considerano i vari tipi di principato; quelli dal XII al XIV trattano delle milizie (uno dei problemi centrali nella speculazione del Machiavelli); quelli dal XV al XXIII analizzano il carattere del principe, il suo modo di comportarsi e di agire; quelli dal XXIV al XXV riprendono il tema fondamentale del rapporto tra fortuna e libero arbitrio, tra occasione e virtù, introducendo il capitolo finale che contiene l’esortazione «acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore» ed anche l’auspicio – manifestato mediante i versi della canzone All’Italia del Petrarca – che la patria venga liberata dallo straniero.

La novità del Principe, rispetto agli altri trattati coevi ove «si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero», consiste nella descrizione senza infingimenti dell’arte del governo, attenendosi – come Machiavelli stesso dice – al modo «come si vive» di fatto nel mondo, piuttosto che al modo in cui «si dovrebbe vivere» in un mondo governato dalla perfezione delle nome etiche e religiose. Di qui nasce la soppressione di ogni abbellimento fine a se stesso, in favore della «realtà effettuale della cosa» che sola conta. Tutto ciò «si ricollega alla generale intuizione filosofica del Rinascimento, che, respingendo e anzi ignorando ogni idealità trascendente, appunta tutto il suo interesse sull’uomo, il quale ha in se stesso la ragione del suo destino e lo realizza operando con il suo ingegno e la sua virtù e lottando coraggiosamente contro la cieca vicenda della fortuna. Senonché anche l’uomo è a sua volta concepito naturalisticamente come qualcosa di definito e di immutabile, obbediente a certe norme e a certi istinti radicati e insopprimibili, incapace di evoluzione e di miglioramento. Su questo concetto naturalistico dell’uomo si fonda la possibilità stessa di una scienza precettistica politica, la quale non potrebbe aver luogo se non sul presupposto che gli uomini sono sempre i medesimi, che è dato pertanto stabilire le leggi naturali del loro comportarsi nelle singole contingenze, e quindi additare a chi governa le vie cui deve attenersi per la fondazione, il mantenimento e il progresso dello stato. Nel Machiavelli questo concetto naturalistico dell’uomo si riveste di colori schiettamente pessimistici e si traduce in un giudizio amaro e sprezzante nei riguardi dell’intera umanità»[10]. Questo pessimismo, però, non spinge l’uomo all’inerzia, bensì si traduce in un fiero e virile incitamento all’azione.

La figura del principe che Machiavelli disegna emerge eroicamente contro ogni convenzione moralistica, ogni ipocrita ottimismo, ogni vile corruttela; egli è l’uomo sicuro di sé, tenace e coraggioso, capace di valutare rapidamente i pro e i contro di una determinata situazione e di operare in essa con avveduta risolutezza per trarne profitto per se stesso o per lo stato. Certo va notato che contro le doti del principe sembrano erigersi le forze della Fortuna, cieca e brutale; ma va notato anche che essa «dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla». La Fortuna, dunque, va combattuta mediante la virtù, cercando di prevenire a tempo ogni sua mossa e affrontandola a viso aperto, senza concessioni al fatalismo, poiché conviene «essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Ma la virtù di cui parla Machiavelli non è certo una delle virtù teologali o cardinali, che formavano il corredo del buon cristiano, e neppure la virtus dei latini, per quanto il Nostro propenda più per la seconda: la virtù machiavelliana consiste nell’attiva capacità di dominare con tempismo le occasioni.

«Dal concetto di virtù, quale esso è adoperato dal Segretario fiorentino, esula ogni contenuto morale e dogmatico: esso si riduce all’esaltazione di una forza tutta terrena, poggiata sugli istinti e sulle qualità dell’uomo, rivolta a un fine di esclusiva utilità. Si tratta per il Machiavelli di scoprire e porre in risalto la virtù del politico, la quale può benissimo non coincidere con quella dell’uomo buono, e del santo, e anzi contrapporsi ad essa»[11]. Il principe accorto dovrà saper essere più temuto che amato, poiché gli uomini sono «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», pronti ad offrirti tutto nella buona sorte e a ribellarsi nella disgrazia; dovrà saper piuttosto parere che essere «perché el vulgo ne va sempre preso con quello che pare»; dovrà saper essere, in senso positivo, sia uomo che bestia e usare l’astuzia della volpe «per conoscere e’ lacci», e la forza del leone per «sbigottire e’ lupi». La politica, in tal modo, una volta svelata la natura ferina del potere, viene per la prima volta sganciata dalla morale (sia antica che cristiana), rompendo il secolare equilibrio creatosi nelle coscienze tra l’uomo e Dio. Viene meno anche – e ciò è implicito nella concezione stessa della Fortuna, di cui s’è già detto – il senso di razionalità e di giustizia che sovrintende agli avvenimenti terreni, quindi di una provvidenza illuminata, amorevole, affidabile. E la stessa religione, se non viene esclusivamente concepita come instrumentum regni, è comunque sentita come l’espressione di rapporti etico‑sociali dove non trova spazio la teologia. Di più: il cristianesimo ha la colpa di avere ridotto «il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini, per andare in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle».

Per quanto la religione venga abbassata a strumento di dominio, per quanto la moralità, intesa come criterio di giudizio in un mondo perfetto, venga messa da parte, poiché del tutto inutile nel mondo dove concretamente agiscono gli uomini, e l’utilità si configuri come il fine principale di ogni azione, va comunque notato che, nel pensiero del Machiavelli, la lotta ferina degli uomini contro la natura, volta a conseguire il proprio fine e il proprio vantaggio, non è mai egoistica, giacché si monda e si nobilita nel raggiungimento della convivenza sociale, nell’interesse dello stato, che solo – con le sue leggi – può opporsi alla brutale furia della Fortuna e garantire il benessere comune.

Naturalmente il Principe non va inteso come un freddo breviario per principi e tiranni; esso è piuttosto una risposta urgente alla debolezza della politica italiana, lacerata fra Stati regionali minacciati dalle potenze straniere già strutturate a misura di moderna nazione; è una coraggiosa cognizione di una crisi profonda nella quale è in gioco l’esistenza stessa dello Stato e nella quale ogni commozione deve cedere alla massima lucidità. In questo senso va intesa anche l’esortazione finale a liberare l’Italia dagli stranieri, che viene interpretata a volte come una chiusa retorica illogica, ma che rappresenta invece la serrata conseguenza di una passione politica, che prende le forme di un’analisi fredda solo in apparenza.

 

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, contengono una serie di considerazioni, non sistematiche, fatte in margine ai primi dieci libri (cioè «la prima deca») dell’Ab urbe condita di Tito Livio[12], il più importante storico dell’antica Roma, che aveva narrato annalisticamente la storia dell’Urbe dalla fondazione all’inizio dell’Impero. L’opera consta di tre libri: il primo tratta dell’origine e della costituzione interna delle repubbliche, il secondo di problemi militari, il terzo della stabilità delle repubbliche, del loro progresso e della loro decadenza. Certo non mancano nei Discorsi osservazioni, che sembrano uscire dalle pagine del Principe; sarebbe tuttavia errato istituire dirette dipendenze fra Principe e Discorsi. Si tratta piuttosto di idee che appartengono alla visione del mondo del Machiavelli e si ritrovano in anni e in contesti distanti.

Il Principe e i Discorsi nascono dunque su un comune patrimonio di idee, ma riescono al fine opere diverse, soprattutto nel tono. Tanto è rapida la concezione del Principe, che nasce da una spinta impellente e concentrata, quanto invece è espansa e perfino sparsa (specialmente nel terzo libro che è il più slegato) quella dei Discorsi; tanto è stilisticamente svelto e sintetico il tessuto del Principe quanto ragionante e pacatamente scientifico il tono dei Discorsi. Nei Discorsi prevale una nozione educativa e teorica della politica, nel Principe s’impone l’urgenza pratica ed economica della realtà. Lo stesso pessimismo attivo, che è espresso nel Principe, si colloca nei Discorsi in un contesto di risonanze più ampie e distese, e suona meno drammatico. I Discorsi, insomma, vogliono capire le leggi della storia sui tempi lunghi: il Principe intende offrire uno strumento d’azione.

La concezione ideale di repubblica che il Machiavelli esprime nei Discorsi: è quella che si regge su un governo misto in un gioco di temperati contrappesi. I tre Stati base (monarchico, aristocratico e popolare) non toccheranno l’eccesso, che volgerebbe il principato in tirannia, il governo degli ottimati nello «stato di pochi» e il regime popolare in «licenzioso». Un siffatto modello si riverbera sulla concezione stessa del governo fiorentino, a cui il Machiavelli fa riferimento nei Discorsi; un sistema misto di ottimati e di popolo, guidato da un gonfaloniere a vita, cioè misto anche di principato e che abbia i propri fondamenti non sulla fragile virtù individuale ma nella concordia e nel consenso di un popolo tutto. «Né siffatta concordia esclude la lotta perenne degli interessi sociali e delle diverse tendenze, ché anzi la presuppone, e risulta tanto più utile e feconda di buone leggi quanto meglio rispecchi e armonizza in sé questo contrasto di libere opinioni. Può sembrare che l’atteggiamento del Machiavelli, tutto rivolto a vagheggiare l’ideale di uno stato libero, si allontani fortemente dallo spirito che anima il Principe, dove lo sguardo si appunta alla virtù dominatrice dell’individuo e sembra trascurare gli interessi e le aspirazioni del popolo: ed è vero infatti che nei Discorsi è più vivo il senso della continuità e dell’intima e non violenta concordia del regime; e viva anche la nostalgia, che era pure fortissima nel Machiavelli, verso un’ideale società di uomini liberi e buoni, e che egli idoleggiava nel mito delle antiche repubbliche e gli pareva di vedere realizzata ai suoi tempi nei piccoli stati elvetici immuni dalla corruttela dilagante in Italia, in Francia e in Ispagna. Ma è certo anche che l’atteggiamento di considerazione realistica e spregiudicata dei fatti politici rimane identico nel Principe e nei Discorsi; né diverso è in fondo il pessimismo e il disprezzo con cui lo scrittore guarda al volgo, che anche qui resta oggetto e non soggetto dell’attività di governo, e non crea, bensì accetta dall’alto, gli ordini e le leggi; e neppure muta in sostanza, sebbene qui appaia meno raccolta ed organica, la materia delle considerazioni particolari: il bene dello stato messo al di sopra di tutto; la virtù politica nettamente distinta e contrapposta a quella della morale, e la “fraude” accettata come strumento necessario nelle relazioni con gli altri stati e nelle guerre; la religione avvilita a espediente di governo; la milizia cittadina esaltata contro l’uso delle truppe mercenarie ed ausiliarie; L’unità e la forza dell’Italia, contro la minaccia straniera, impedita dall’ignavia dei principi e ostacolata dalla chiesa, la quale, mentre non è così potente da raccoglierla tutta nelle sue mani, lo è quanto basta per impedire ad ogni altro di realizzarla a danno del suo potere temporale»[13].

 

L’Arte della guerra e le opere storiche

L’interesse per le «istorie» espresso nei Discorsi e l’attenzione problematica alle istituzioni antiche e moderne sono legati all’ambiente fiorentino dei giardini del palazzo Rucellai, gli Orti Oricellari di cui s’ già detto, in cui, per iniziativa di Bernardo Rucellai e di suo nipote Cosimino poi, artisti umanisti politici convenivano a discutere di letteratura e a cercare di chiarirsi il loro ideale di Stato. Il periodo di maggior fioritura degli Orti va dal 1513 al 1522 e coincide con il periodo dell’allontanamento del Machiavelli dalla vita politica attiva. Tutta l’intellighenzia delle più insigni famiglie, specie della giovane generazione, vi alimentava un vivace dibattito letterario e politico, criticando il governo, confrontando i modelli antichi con la realtà attuale, discorrendo di problemi militari. Ed è in questo clima nascono i sette libri dell’Arte della guerra, composti fra il 1519 e il 1520 e organizzati in forma di dialogo: il primo libro svolge il tema del reclutamento delle milizie; il secondo tratti il rapporto fanteria‑cavalleria e l’addestramento dei soldati; nel terzo e nel quarto si discute l’ordinamento delle truppe in battaglia e il modo di accenderle al combattimento; i tre ultimi vertono, nell’ordine, sulle ricognizioni in campo nemico, sugli alloggiamenti, sulle fortificazioni.

Il Machiavelli auspicava l’uso di milizie proprie e riteneva esiziali le milizie mercenarie. Ed è proprio questo il motivo conduttore di un pensiero che nell’Arte della guerra tocca il suo vertice, anche se l’autore non solo non s’avvede che il mercenarismo – che era allora proprio di tutti gli stati europei – era stato una precisa necessità per i monarchi che stavano creando gli Stati nazionali, ma confonde anche le milizie mercenarie con le milizie di ventura, che erano al contrario una pericolosa caratteristica dell’Italia rinascimentale, finendo per addebitare alla sola causa militare una crisi dovuta a ragioni ben più profonde e complesse. Ma al di là dei dettagli tecnici in cui si impigliano i suoi ragionamenti, va notato che Machiavelli comprende sì il primato della fanteria e il tramonto della cavalleria, ma sottovaluta l’importanza delle armi da fuoco (alle quali non attribuisce quasi nessun valore); a ciò va aggiunto anche l’atteggiamento contraddittorio che egli mostra verso il popolo: dopo averlo dimenticato «e consideratolo quasi materia inerte nella costruzione del suo stato ideale, lo richiama in scena e poi s’affida alla sua forza morale per fondare su di essa la virtù delle armi cittadine»[14].

Le opere storiche debbo essere considerate quasi come attuazione ed esempio dei pensieri e delle teorie che Machiavelli aveva esposto nei trattati ed è questo il motivo per cui esse appaiono (come del resto sono in realtà) alquanto approssimative; non sempre, infatti, le notizie fornite vengono accertate, le fonti sono raramente controllate, la precisione dei particolari viene spesso trascurata se non addirittura alterata, in luogo di ciò che Machiavelli considera lo scopo primo: far aderire la speculazione politica e polemica alla eloquente lezione dei fatti. Questo è quanto accade nella Vita di Castruccio Castracani, signore di Lucca (1281‑1328), dapprima esiliato e poi ritornato nella città natale al seguito dell’imperatore Arrigo VII, nel quale Machiavelli un modello di eroe del Trecento tutt’ora valido per il principe del Cinquecento. Ed egli è talmente preso dalla sua immaginazione fantastica di un principe valoroso ed accorto, immaginazione che gli sta più a cuore della realtà oggettiva, tanto da trasferire al Castracani fatti e detti riportati da altri storici in riferimento ad antichi personaggi.

Anche le Istorie fiorentine, opera in otto libri composta tra il 1520 e il 1525, che gli venne commissionata dal cardinale Giulio de’ Medici, hanno lo stesso spirito animatore di cui s’è detto a proposito della Vita di Castruccio. Esse iniziano con la narrazione di un sommario della storia generale d’Italia e delle vicende fiorentine fino al 1434[15], che si estende per i primi quattro libri, mentre i restanti quattro trattano la restante storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo de’ Medici.

Netto è il distacco fra Machiavelli e i due grandi storici ch’egli cita nel Proemio, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, troppo timidi – a suo giudizio – nel parlare «delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie», troppo reticenti ed elusivi; mentre la cosa che più «diletta e insegna» è «quella che particularmente si descrive», e suprema lezione ai «cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra la cagione degli odi e delle divisioni della città».

Certo al Machiavelli non si può chiedere (e abbiamo già avuto modo di puntualizzarlo) un contributo storiografico modernamente inteso come precisione di dati, come rispetto dei documenti, come confronto e discussione delle fonti. Ma le Istorie sono un evento notevole per due ragioni: la prima è che sono scritte in volgare, in un’epoca in cui la letteratura umanistica latina non era né morta né morente; la seconda è che non mancano né di anticonformismo né di coraggio civile: il quadro di tutta la storia fiorentina che Machiavelli disegna, è caratterizzato – come giustamente scrive il Dionisotti –esternamente dallo scarto polemico di ogni altro modello italiano, in special modo Roma e Venezia, e internamente da un’eccezionale spregiudicatezza, che sconfina a tratti in una vera e propria aggressività critica, nei confronti della tradizione medicea. Non dunque una storia sine ira ac studio, e nemmeno una complicità con gli interessi del committente.

«Il proposito narrativo s’arricchisce e si complica di un fine pedagogico: dalla contemplazione del passato, deriva per l’azione prossima, il fondamento di un’esperienza più matura e ricca. E di continuo, nella scelta dei fatti e nel modo di raccontarli e di valutarli, traspare l’animo appassionato del Machiavelli con le sue opinioni, i suoi sogni, le sue speranze. Nasce così un nuovo tipo di storia, non puramente cronologica e frammentaria come le cronache medievali, non eloquente e letteraria ovvero erudita e archeologica come presso gli umanisti, sì tutta pervasa di un profondo interesse politico e sorretta da una volontà di critica e d’azione: una storia tutta soggettiva e nutrita di sottintesi polemici, fondata su alcuni principi teorici essenziali e rivolta ad un fine di esortazione pratica. […]

Questo ripercuotersi da uno scritto all’altro di talune idee essenziali e radicate mostra la profonda unità e la coerenza del pensiero machiavellico, in apparenza così poco sistematico. Ma il tono muta dalle prime alle ultime opere: appassionato e pieno di nobile speranza nel Principe, nobile e solenne ma non così vibrante ed ansioso nei Discorsi, amaro e alquanto sfiduciato nelle opere storiche, composte quando il sogno di una prossima redenzione d’Italia era ormai caduto, travolto dall’incalzare degli avvenimenti»[16].

 

Il teatro

Oltre ad essere un grande trattatista e politico Machiavelli fu anche un vivace autore di teatro del suo tempo. Ciò non può essere considerato un caso visto che occorre, per l’uno e per l’altro genere, una conoscenza dell’umanità più varia, una sensibilità agli impulsi profondi ed insieme elementari che muovono le azioni della gente.

La mandragola, opera in cinque atti, che fu scritta probabilmente nel 1518 e rappresentata a Firenze e a Roma nel 1520, è sicuramente una delle più alte espressioni del genio di Machiavelli ed anche una delle più passionali. Essa prende il titolo dal nome di una pianta, la mandragola, alla cui radice vengono attribuite caratteristiche afrodisiache e fecondative. Apparentemente l’argomento può rassomigliare ad altri usati ampiamente nel teatro dell’epoca, giacché vi si può riscontrare la complessità dell’intreccio ed anche l’intrigo del tutto inverosimile (come già accadeva nei mai dimenticati esempi latini) e il motivo boccaccesco della beffa, che divenne quasi un topos nella novellistica e nei comici del XVI secolo.

Il giovane Callimaco ha udito magnificare a Parigi, dove abita dall’età di dieci anni, la bellezza di una donna fiorentina, madonna Lucrezia, di onestà irreprensibile e moglie di messer Nicia Calfucci. Innamoratosi per fama, torna a Firenze per vederla, trovando che la donna è ancor più bella di quanto non abbia saputo immaginare. Profondamente machiavelliano è il suo proposito di averla:

È non è mai alcuna cosa sì desperata, che non vi sia qualche via da poterne sperare, e benché la fussi debole e vana, e la voglia e il desiderio che l’uomo ha di condurre la cosa non la fa parere così

La speranza si fonda su due dati effettuali: sulla ingenuità di messer Nicia (che incarna l’eterno tipo comico dello stolto borioso), dottore in legge ma assai sciocco nella vita pratica; e sul desiderio sinora vano dei due coniugi d’aver figli. Ma a ordire la trappola interviene Ligurio, un personaggio centrale, che muove con abile regia i fili dell’intrigo. Ligurio parla a Nicia di un medico parigino (è Callimaco stesso a vestirne i mentiti panni) e di una pozione miracolosa, ottenuta dalla mandragola. Lo convince che la pozione è in grado di vincere la sterilità, ma con un grave inconveniente: chi per primo abbia contatti carnali con la donna che l’ha bevuta, è destinato a morirne in breve. Il rimedio, sempre grazie a Ligurio, è trovato: verrà catturato il primo «garzonaccio» di strada, imbavagliato e portato nel letto di madonna Lucrezia, che dopo la notte d’amore messer Nicia potrà riavere senza rischio della vita. Nicia è presto persuaso, ma non Lucrezia. Per indurla ad assecondare il disegno intervengono la madre Sostrata, e l’untuoso confessore, fra Timoteo, che per avidità si mostra disposto a tutto. Piegata anche se non proprio vinta la resistenza di Lucrezia, Callimaco veste i panni dello scioperato da catturare ed è preso e portato nella camera da letto dell’amata. Qui egli confessa la verità alla donna: le sue profferte d’amore, la sua grazia, l’apprezzamento per l’ingegnoso raggiro e per la successiva schiettezza, insieme al disprezzo per la stupidità e l’ipocrisia del marito ottengono finalmente il trionfo; Lucrezia alla fine cede a Callimaco, con un risentimento che apre la strada ad una amara spregiudicatezza:

Poi che l’astuzie tue, — dice Lucrezia a Callimaco — la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessore mi hanno condotta a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che ’l Cielo vuole che io accetti. Però, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre. Fara’ti adunque suo compare, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l’andare e lo stare starà a te, e potreno ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme.

«La tristizia si rivela nell’incapacità degli uomini di essere grandi nel bene e nel male. Essi sono mediocri, strumenti che Ligurio adopera sfruttando le loro debolezze per il suo gioco che non ha nulla di onorevole.

Il pessimismo del Principe a proposito della natura umana si riverbera anche qui con lucidità amara: le cose vanno secondo il piano inclinato della mediocrità, Machiavelli è impassibile di fronte allo svilupparsi serrato dell’epilogo, il “vulgo” che è nella natura umana si dispiega nelle sue variazioni senza che alcuno cerchi di innalzarlo e di mutarlo. Nella sfera politica il principe deve “vezzeggiare e spegnere”, in quella privata la natura si compie secernendo gli acri umori che l’uomo ha dentro di sé»[17].

C’è, insomma, nella Mandragola una grande forza di denuncia. È una denuncia che corrisponde a un programma preciso, dove la commedia vuol essere «uno specchio d’una vita privata», che col riso e col diletto faccia gustare «l’esempio utile che vi è sotto». Sotto il riso, si muove un che di serio, fin dal Prologo, dove il poeta si scusa d’aver trattato una materia che può parere indegna «d’un uom, che vuol parer saggio e grave» col fatto che gli è impedito dal «tristo» tempo di esercitare il suo ingegno e la sua virtù: e la scusa diviene una denuncia della propria emarginazione politica. A questo scoramento è strettamente vincolata la visione tutta negativa e irresistibile della corruzione civile dei tempi.

La mandragola, al di là dell’attenzione assidua al teatro classico, mostra la vera vocazione drammaturgica del Segretario fiorentino, che è spesso presente nella sua opera e trova – specialmente nelle Lettere – alcuni probanti riscontri tematici. V’è poi la capacità di tracciare e di caratterizzare psicologie che escono dai limiti imposti dall’imitazione del genere, di cui pure mutua figure e situazioni (il gioco degli equivoci, il tipo tradizionale dello sciocco presuntuoso cornuto e beffato, il personaggio del ruffiano ecc.). Rispetto alla commedia coeva dell’Ariosto, ad esempio, che non esce da una medietà di tono e di situazioni ancora legatissime ai modelli latini, il Machiavelli rielabora fuori dalla convenzione spunti realistici (tratti soprattutto dalla novellistica del Boccaccio) cui conferisce il proprio inconfondibile segno.

La satira che aveva graffiato nell’intiera Mandragola, accanendosi soprattutto su messer Nicia e su fra Timoteo, si attenua fortemente nella Clizia (rappresentata per la prima volta a Firenze nel 1525 e pubblicata nel 1537), e quasi si converte in rassegnazione e rinuncia. la commedia racconta l’amore senile di Nicomaco per Clizia, la ragazza che gli è stata affidata da un Beltramo di Guascogna, gentiluomo al seguito di Carlo VIII nel suo passaggio in Italia. Beltramo l’aveva avuta come preda a Napoli, ma poi se n’era dovuto liberare in vista della battaglia di Fornovo. Non essendo più tornato, Clizia è stata allevata da Nicomaco e da sua moglie Sofronia. Le trame di Nicomaco per avere Clizia sono avversate da Sofronia e seguite con apprensione dal figlio Cleandro che è innamorato della ragazza ed aspira ad averla in moglie. Tutti gli sforzi di Nicomaco finiscono in una terribile beffa perché nel letto predisposto per godere di Clizia trova invece il suo servo, Siro che ne ha vestito i panni e che dà a Nicomaco il fatto suo. L’ordine è ristabilito col ravvedimento di Nicomaco, la provvidenziale scoperta degli alti natali di Clizia[18] e con le nozze fra Clizia e Cleandro.

La lezione di Clizia è profondamente diversa da quella della Mandragola. All’ordine nuovo instaurato da Lucrezia e Callimaco fa riscontro, qui, il ritorno all’ordine di Nicomaco, al quale Sofronia fa esplicito richiamo:

Io confesso avere condotti tutti quelli inganni, che ti sono stati fatti, perché, a volerti fare ravvedere, non ci era altro modo, se non giugnerti in sul furto, con tanti testimonii, che tu te ne vergognassi, e dipoi la vergogna ti facessi fare quello, che non ti arebbe potuto fare fare niuna altra cosa. Ora, la cosa è qui: se tu vorrai ritornare al segno, ed essere quel Nicomaco che tu eri da uno anno indrieto, tutti noi vi tornereno, e la cosa non si risaprà; e, quando la si risapessi, egli è usanza errare ed emendarsi.

A sua volta il lamento di Cleandro contro la fortuna «amica de’ vecchi» non trova conferma nello svolgimento dei fatti. La lotta avviene infatti tra due vecchi, tra Nicomaco e Sofronia, e i giovani godono dei benefici senza quasi muoversi per ottenerli. Machiavelli sembra avvolgere il senso di Clizia nella pur giocosa malinconia di un tempo che non è più dato di vivere. E allora quest’opera minore può caricarsi di una risonanza più vasta, e divenire il segno di resa dell’autore che aveva invocato un principe che costruisse uno Stato forte e scacciasse gli stranieri, e si vedeva licenziato dai suoi Principi, in un’Italia in cui ormai gli stranieri dominavano incontrastati.

 

Lo stile di Machiavelli e le opere minori

Scriveva il De Sanctis: «Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne’ lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa, come forma, e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perché ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com’è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il “Nosce te ipsum”, la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d’intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all’immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento, astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: “nil admirari”. Non si maraviglia e non si appassiona, perché comprende, come non dimostra e non descrive, perché vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la dritta; non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti, e tutti gli episodii. Ha l’aria del Pretore, che “non curat de minimis”, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo, né voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempire gli spazii vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a’ cervelli oziosi. La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell’uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze»[19].

Tante sono le obiezioni che si potrebbero fare a questo giudizio, ma vero è che il Machiavelli prosatore apre le porte ad un procedimento dialettico del tutto nuovo che si pone alla base della prosa moderna, o – per meglio dire – della prosa dell’uomo moderno. La rovina della forma scolastica, sillogistica e dimostrativa, come dice giustamente il De Sanctis, viene decretata da Machiavelli con una forma nuova che si basa sullo stretto rapporto che vi è tra il fatto ed il pensato, che vive della tensione tra i due momenti; non sovrappone, insomma, la propria immaginazione alla verità del fatto e lo stile aderisce immediatamente al ritmo del ragionamento. Come dice egli stesso, avendo piena coscienza della novità del suo atteggiamento, egli fa volentieri a meno delle «clausole ampie», delle «parole ampullose e magnifiche» o di ogni «lenocinio e ornamento estrinseco», affinché la sua prosa possa attingere senza deviazioni vigore e calore dalla «gravità della materia» e dalla «gravità del subietto». Da tutto ciò deriva lo stile drammatico e dilemmatico del Machiavelli; la scrittura a tratti sussultoria; il linguaggio energico e colorito in cui si mescolano latinismi, espressioni curiali e plebee, vocaboli dialettali; la nuova struttura del periodo rapida e concisa, ricca di anacoluti e di spezzature, che sa comunque distendersi in esemplificazioni affabulatorie.

«È evidente che in questo senso il riconoscimento spetti esclusivamente alla produzione del prosatore, non certo del rimatore, soprattutto all’autore del Principe e dei Discorsi, meno a quello delle Istorie, dell’Arte della guerra e della Vita di Castruccio, ma pienamente, seppure per diversi umori, al commediografo e all’epistolografo. In poesia Machiavelli si sforza di ottenere dalla parola una resa visiva, e per questo indulge, fino a provocare effetti di sazietà, al gusto della mascherata allegorica di personaggi, eventi politici e situazioni esistenziali e morali. Il cronista degli “alti accidenti e fatti furiosi” d’Italia cantati nei Decennali in terza rima (il suo metro più frequente) rivela intenti ambiziosi: invoca dalla Musa la grazia di un accordo tra la materia e il verso, in definitiva di una solennità epica che dia risalto drammatico alla storia in atto di cui è egli stesso testimone e in parte attore. Ma gli manca un eroe o un’azione su cui far convergere una finalità eroica, un’idealità superiore agli accadimenti. Abbondano invece i fatti che l’autore accumula come un canterino che però non si contenta di intonarli come eventi di cronaca. In tanta “mutazion di regni, imperi e Stati” anche la poesia sembra sopraffatta. Resta una volontà di rappresentazione, vivace per scorci, e un succedersi di figurazioni grottesche dove il travestimento in foggia animalesca delle persone e delle azioni ha la meglio ed è sfruttato con insistenza, così come sono insistenti le risonanze dantesche, e piuttosto stridule, della narrazione»[20].

I Canti carnascialeschi, ricchi di doppi sensi, i sonetti e le rime varie, attestano meramente la partecipazione del Machiavelli alla vita gaia e alla cronaca pettegola della sua città: lo scrittore più vicino al Segretario è qui il Pulci per i suoi accenti popolareschi. Allegorico ed autobiografico, L’asino d’oro, poemetto rimasto incompiuto, è espressione del suo convinto pessimismo, ma è troppo farcito di temi filosofici, parodistici e satirici che non riescono a fondersi all’interno di una narrazione magica, della quale non vengono chiariti gli esiti morali.

Nell’ambito della fantasia più libera e spigliata, ma che rivela anche la vocazione novellistica di Machiavelli, è la Favola del diavolo che prese moglie, meglio nota con il nome di Belfagor arcidiavolo, probabilmente scritta tra il 1519 e il 1520. La novella è una sorta di affabulazione contro il matrimonio, e questo vecchio motivo misogino viene comunque trattato con sguardo gaio, festoso e senza picchi polemici.

***NOTE***

[1] Massimiliano I d’Asburgo (Wiener Neustadt 1459 – Wels 1519) nacque dall’Imperatore Federico III e di sua moglie Eleonora d’Aviz (figlia di re Edoardo I di Portogallo e di Eleonora d’Aragona). Nel 1477 sposò la duchessa Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario (1433-1477), e combatté aspramente per conservare la sovranità dei teritori ereditati dalla moglie. Nel 1482 Maria morì a seguito di una caduta da cavallo e ciò portò ad una ribellione nei Paesi Bassi. La guerra si protrasse per anni e si concluse con il trattato di Senlis del 23 maggio 1493, che assicurava a Massimiliano il controllo dell’Artois e della Franca Contea. Divenuto Imperatore nel 1493, alla morte del padre, nel 1495 e nel 1498 discese in Italia tentando di rafforzarvi l’autorità imperiale, senza tuttavia ottenere l’effetto sperato. Anche nelle battaglie contro la Confederazione delle città svizzere, che formalmente faceva parte dell’Impero, Massimiliano subì numerose sconfitte tanto che nel 1499 fu costretto a stipulare con gli svizzeri la pace di Basilea, in seguito alla quale la Svizzera divenne de facto indipendente. Sfortunato sul piano bellico, Massimiliano seppe fare la fortuna della sua Casa tramite una brillante politica matrimoniale, che ebbe come risultato l’ingrandire enormemente i territori controllati dall’Impero, assicurando agli Asburgo la Spagna, la Boemia e l’Ungheria con accordi matrimoniali e dinastici.

[2] Leone X (Firenze 1475 – Roma 1521) secondogenito di Lorenzo il Magnifico a 13 anni fu creato cardinale da Innocenzo VIII. Cacciati i Medici da Firenze viaggiò a lungo per l’Europa, rientrando a Roma solo nel 1500, da dove si adoperò per restaurare il potere della famiglia nella sua città. Eletto Papa nel 1513 si adoperò per rafforzare la presenza del papato nelle province, conducendo una costosa lotta contro il Ducato di Urbino (1516‑1517), che affidò poi al nipote Lorenzo. Inizialmente incerto nel conflitto tra Francia e Spagna, dopo la vittoria francese di Marignano stinse accordi con Francesco I e avviò trattative per un concordato religioso concluso nel 1516; presto inclinò, però, a favore di Carlo V, appoggiandolo nel corso delle guerre d’Italia. Poco sensibile ai problemi religiosi, non avvertì la gravità della protesta di Lutero, mentre fu l’emblema del fasto rinascimentale del papato attraverso il mecenatismo e la protezione accordata a letterati ed artisti.

[3] Lorenzo II de’ Medici (Firenze 1492 – Firenze 1519), unico figlio maschio di Piero “il Fatuo” (figlio di Lorenzo il Magnifico) e di Alfonsina Orsini, fu signore di Firenze e primo ed unico duca di Urbino della dinastia Medici. Visse la sua giovinezza a Roma, dove la famiglia de’ Medici era riparata dopo la cacciata da Firenze nel 1494, quando suo padre aveva aperto le porte della Toscana al re di Francia Carlo VIII e i fiorentini si erano ribellati al potere della dinastia, dando vita ad una nuova repubblica. Poté rientrare a Firenze poté rientrare a Firenze nel 1512 grazie all’appoggio di papa Giulio II e della Lega Santa. Ottenuto il Ducato di Urbino dal Papa Leone X, quando gli spodestati Della Rovere (1518) assalirono il ducato con le loro truppe, Lorenzo affidò il comando delle operazioni di guerra al cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, che fu però costretto alla ritirata.

[4] Cosimo Rucellai (detto Cosimino, Firenze 1495 – Firenze 1519) nacque da Cosimo di Bernardo, morto circa un anno dopo la sua nascita. Ebbe certamente  – sia per l’ambiente raffinato e colto in cui visse, sia in considerazione della fama di letterato che più tardi si conquistò – un’educazione di alto livello e fu discepolo di Francesco Cattani da Diacceto. Nel 1512 prese parte all’azione di forza che riportò i Medici al potere e nell’ottobre del 1515 seguì Gian Giorgio Trissino in Germania, dove questi si recava in qualità di nunzio di papa Leone X. Fu probabilmente durante quel viaggio che Rucellai contrasse la malattia che, nel volgere di pochi anni, lo condusse prima all’immobilità e poi alla morte. A partire dalla primavera del 1516 fu l’animatore delle riunioni negli Orti Oricellari, sostituendo in questo ruolo il nonno Bernardo, morto due anni prima. Al medesimo periodo è ascrivibile l’inizio della sua amicizia con Machiavelli, da cui, per ammissione dello stesso ex segretario, scaturì la composizione dei Discorsi, dedicati a Zanobi Buondelmonti e al Rucellai.

[5] Luigi Alamanni (Firenze 1495 – Amboise 1556) nacque da Piero, mercante di lana, politico e ambasciatore filomediceo, e da Ginevra Paganelli, e studiò filosofia a Firenze sotto la guida di Francesco Cattani da Diacceto, allievo di Marsilio Ficino, assieme a Giovanni di Bernardo Rucellai. Proprio nel circolo culturale che si riuniva in casa del Rucellai, i famosi Orti Oricellari, dove aveva sede l’Accademia platonica, Alamanni, che in quel tempo praticava ancora l’arte della lana ma studiava anche greco e latino, leggeva i primi componimenti e copiava antiche chiose in margine a una delle stampe fiorentine del 1488 di Omero. Nemico giurato del cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII), che all’epoca era governatore di Firenze, nel 1522 Alamanni prese parte a una congiura per ucciderlo; scoperta la congiura, fuggì a Venezia e poi in Francia dove entrò nelle grazie del re Francesco I. Tornò a Firenze dopo cinque anni, con la nuova cacciata dei Medici nel 1527, e prese parte al governo cittadino, con incarichi diplomatici svolti a Genova e in Francia. Al ritorno dei Medici nel 1530, tuttavia, migrò una volta per tutte in Francia, dove compose la maggior parte delle sue opere – comprese le famose Opere toscane (1532) – e dove visse fino alla morte.

[6] Zanobi Buondelmonti (Firtenze 1491 – Firenze 1527) era figlio di Bartolomeo e di Alessandra di Guglielmo de’ Pazzi. Alcuni sostengono che sia stato discepolo di Francesco Cattani da Diacceto, ma non è possibile stabilire se egli ne avesse frequentato i corsi nello Studio fiorentino, o solo ne avesse ascoltato gli insegnamenti nelle adunanze degli Orti Oricellari, delle quali l’uno e l’altro furono tra i protagonisti più assidui. Nel 1522 il Buondelmonti animatore della congiura per assassinare il giorno di Corpus Domini il cardinale Giulio de’ Medici. L’idea della congiura nacque in modo autonomo nel Buondelmonti e nei suoi amici, per poi innestarsi nella più vasta iniziativa antimedicea alimentata dal cardinale Soderini e dalla corte di Francia. Tuttavia la cattura di un corriere rivelò al governo mediceo l’intero complotto, ma il Buondelmonti riuscì a fuggire, insieme con Luigi Alamanni e a riparare in Francia. Nel 1526 Buondelmonti si trasferì a Siena divenendo l’anima dei rinnovati tentativi degli esuli contro il governo fiorentino. Nel 1527 – dieci giorni dopo il sacco di Roma, che segnò anche in Firenze il crollo del partito mediceo – il Buondelmonti poté rientrare in patria, dove subito prese nel governo della città quella posizione che gli competeva, sostenendo appassionatamente la necessità di ottenere l’appoggio di Carlo V. Quando due inviati imperiali che si recavano a prendere possesso di Parma e Piacenza in nome di Carlo V furono assaliti e depredati a Barga, benché provvisti di un salvacondotto della Repubblica, il Buondelmonti fu inviato nella Garfagnana fiorentina come commissario per restituire la libertà ai due messi imperiali e punire i colpevoli dell’incidente. Mentre attendeva a tale ufficio fu colpito dalla peste, che imperversava in tutto il territorio fiorentino, e morì.

[7] Carlo V d’Asburgo (Gand 1500 – Yuste 1558), figlio di Filippo d’Asburgo e di Giovanna di Castiglia, crebbe nei Paesi Bassi e fu educato da Adriano di Utrecht, futuro Papa Adriano VI. Nel 1506, alla morte del padre, ereditò i Paesi Bassi e nel 1516 alla morte del nonno materno, Ferdinando II d’Aragona, le corone di Spagna e i possedimenti castigliani in America e in Asia. Nel 1519 la morte del nonno paterno Massimiliano I d’Asburgo, lo lasciò erede dei possedimenti asburgici e pretendente alla corona imperiale. L’elezione imperiale contro il rivale Francesco I di Francia fu ottenuta grazie all’appoggio dei banchieri Fugger, che gli fecero prestiti con i quali riuscì ad ottenere il favore dei principali elettori. Alla partenza di Carlo per la Germania seguì in Castiglia e Aragona la rivolta dei comuneros (1520‑1522), mentre nel 1521 si apriva la guerra franco‑asburgica, che sarebbe durata fino al 1559, e nello stesso anno l’Imperatore si misurava con la Riforma protestante. Alla dieta di Worms (1521) si schierò contro Lutero, ma negli anni successivi organizzò molti colloqui fra cattolici e protestanti, con lo scopo di evitare che i conflitti religiosi ostacolassero i suoi progetti di restaurazione imperiale; allo stesso scopo esercitò pressioni sui papi Clemente VII (che lo incoronò imperatore a Bologna dopo il Sacco di Roma del 1527) e Paolo III affinché convocassero un concilio generale. Ma quando fu chiaro che i protestanti non avrebbero partecipato al concilio di Trento, Carlo V scese in guerra con la Lega di Smacalda, sconfiggendola a Mühlberg. Difronte all’alleanza che si venne a costituire tra il re di Francia e i protestanti, Carlo V decise nel 1555‑1556 di abdicare e ritirarsi in un convento in Estremadura, lasciando al fratello Ferdinando la corona tedesca e il compito di firmare la pacificazione di Augusta, e al figlio Filippo la Spagna, i Paesi Bassi e i possedimenti coloniali e italiani.

[8] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Volume II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 60.

[9] Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, Firenze, 10 dicembre 1513.

[10] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Volume II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag.  60-61.

[11] Ibidem, pag. 62.

[12] Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) nacque a Padova, dove (secondo S. Gerolamo) morì. fu educato nella città natale, istruito prima da un grammatico, con cui apprese a scrivere in un buon latino e imparò altresì il greco, e poi da un retore. Successivamente si trasferì a Roma per completare gli studi; fu qui che entrò in stretti rapporti con Augusto, il quale, secondo Tacito, lo chiamava “pompeiano” ossia filo-repubblicano; questo fatto non compromise la loro amicizia, tanto che godette sempre della stima e dell’ospitalità dell’Imperatore, anche se non ricoprì mai incarichi pubblici. L’Ab urbe condita è la sua opera più importante: iniziata nel 27 a.C., si componeva di 142 libri, dei quali ce ne rimangono trentacinque, mentre gli altri ci sono noti attraverso sommari e compendi. La narrazione è influenzata dalle teorie isocratee della storia e della storiografia ellenistica, mentre la lingua e lo stile sono ricchi e poetici. Tito Livio fu anche autore di scritti di carattere filosofico e retorico andati perduti.

[13] Ibidem, pag. 70‑71.

[14] Ibidem, pag. 72.

[15] Anno in cui si instaura il potere mediceo.

[16] Ibidem, pag. 72‑73.

[17] Antonio Piromalli, http://www.storiadellaletteratu-ra.it/main.php?cap=8&par=4#it

[18] È l’espediente tradizionale dell’agnizione, un topos delle opere narrative o teatrali, che consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, determinando una svolta decisiva nella vicenda.

[19] Franceso De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Maria Teresa Lanza, introduzione di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano, 1970, pag. 513‑514.

[20] Nino Borsellino, Machiavelli scrittore: la materia e la forma, in Storia generale della letteratura Italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 135.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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