Se la coscienza del distacco fra Medio Evo e Umanesimo era vivissima negli esponenti della nuova cultura del XV secolo, ed è sostanzialmente accettata anche dalla critica odierna, è meno facile separare con un termine fisso la civiltà dell’Umanesimo da quella del Rinascimento, proprio perché i due movimenti spirituali che li caratterizzano appaiono strettamente intrecciati, al punto che alcuni critici usano i termini di Umanesimo e Rinascimento quasi come sinonimi. Una data simbolica che segni la fine dell’Umanesimo e l’inizio del Rinascimento potrebbe essere il 1501, l’anno in cui il grande editore veneziano Aldo Manuzio pubblica il Petrarca volgare per le cure di Pietro Bembo, il quale nel 1525 fornirà con le Prose della volgar lingua il trattato che segna la vittoria di un toscano modellato sui grandi autori trecenteschi e regolato con la medesima dignità del latino. Si aggiunge anche che il termine di Rinascimento, usato già nell’Ottocento, divenne prevalente grazie all’opera dello storico e critico d’arte Jacob Burckhardt[1] e che rimpiazzò l’espressione Risorgimento[2] con cui i critici italiani, da Bettinelli a De Sanctis, designavano la generale ripresa della vita sociale e culturale verifìcatasi a partire dall’anno Mille; Rinascimento sostituì anche il termine di Rinascenza, coniato dagli intellettuali del XV e XVI secolo in stretta connessione con Umanesimo ed ancor oggi usato da francesi e inglesi.
Oggi c’è una certa oscillazione nell’uso: alcuni, come s’è detto, impiegano i termini come puri sinonimi; altri conferiscono all’Umanesimo un significato prevalentemente filosofico, considerandolo una linea di pensiero tuttora viva, mentre intendono Rinascimento in senso epocale, come periodo di civiltà storicamente definito e conchiuso con la Controriforma e la guerra dei Trent’anni; altri ancora usano Umanesimo per indicare gli studi filologici, Rinascimento per alludere alla splendida stagione dell’arte e del costume e alla letteratura creativa; i più intendono i due movimenti come fasi di una medesima linea evolutiva, che pone con l’Umanesimo quattrocentesco, prevalentemente latino, filologico e filosofico, le premesse per la fioritura artistica che coglie col Rinascimento del primo Cinquecento i suoi frutti più maturi, ormai soprattutto volgari. Resta comunque il fatto che il Rinascimento rappresenta rispetto all’Umanesimo una continuità e insieme uno sviluppo.
Ma se ciò può essere vero in campo artistico e culturale, è vero altresì che il termine Rinascimento non può essere esteso uniformemente a tutto un secolo travagliato da grandiosi rivolgimenti politici, militari, economici, religiosi e culturali. Si può insomma affermare che il Cinquecento rappresenta la stagione della massima fioritura culturale, artistica e letteraria dei valori che l’Umanesimo era andato da tempo elaborando, ma che questa fioritura avviene proprio quando si incrinano o vengono travolte le basi di quei valori, e i centri che li avevano alimentati. Nella prima metà del ‘500, infatti, l’Italia è ormai definitivamente avviata verso la perdita della libertà politica; gli Stati nazionali d’Europa cercano il loro consolidamento attraverso guerre crudeli che squassano l’assetto della Penisola; la scoperta dell’America comporta un rivolgimento dannoso per la nostra penisola, spostando nell’Atlantico l’asse dei commerci, potenziando gli Stati coloniali e riversando in Europa una massa di merci e d’oro che sconvolge l’economia minando il primato mercantile delle Repubbliche Marinare; le Signorie italiane lottano disperatamente per la sopravvivenza; e tuttavia questa grave situazione di crisi non impedisce il fiorire di una stagione artistica e culturale che sta per imporsi come guida e modello all’Europa intera e che offre nei capolavori di Leonardo, Raffaello[3], Michelangelo un’immagine, unica e irripetibile, dello splendore a cui è giunta in Italia la civiltà del Rinascimento.
Tramonta, a causa di queste drammatiche circostanze politiche, la grande illusione umanistica di una lingua latina universalmente valida per una sorta di ideale «repubblica delle lettere». Di fronte al crollo dei valori politici e all’impotenza degli uomini d’azione sopravvive e si afferma quella nuova lingua volgare che, codificata ufficialmente dal Bembo, simboleggia la raggiunta unità nazionale della cultura italiana e si avvia a diventare insperato strumento di espansione intellettuale nella civiltà europea del ‘500. Queste conquiste, nella letteratura come nelle arti figurative, sono il frutto di un lungo e glorioso passato. Il Rinascimento rappresenta infatti l’avvenuto processo di assimilazione della civiltà classica e il supremo momento di emulazione dei grandi modelli artistici e culturali degli antichi; costituisce, cioè, il punto conclusivo del rinnovamento che nel secolo precedente era stato possibile grazie all’elaborazione stilistica e concettuale degli umanisti. Agli inizi del ‘500 pervengono infatti a maturazione (senza soluzione di continuità) quegli atteggiamenti spirituali che l’Umanesimo aveva assunto come segno della propria superiorità rispetto alla cosiddetta Media aetas: lo sforzo costante per un miglioramento linguistico (prima nel latino, poi nel volgare); il culto della parola eletta come espressione di chiarezza interiore e strumento di comunicazione interumana; la ricerca nella classicità di modelli ideali, capaci di ispirare l’azione del presente; lo spirito critico rivolto ai fenomeni della natura e ai fatti della Storia; una certa sospensione di giudizio nei confronti della religione; il desiderio di armonia e razionalità così nei comportamenti della vita come nelle costruzioni dell’arte; la centralità dell’uomo nell’universo; la fiducia nella sua capacità di dominare gli eventi mediante la «virtù» individuale.
La civiltà del Rinascimento, fiorita nello splendore delle corti mecenatesche, fra le suggestioni del petrarchismo e del platonismo di fine ‘400, si presenta con caratteri eminentemente aristocratici; mira a elaborare, nella vita e nella cultura, un’alta idealità di nobilitazione e decoro, di eleganza e raffinatezza; celebra, in prima istanza, le forme dell’arte, perché è nell’arte che riesce ad attuare, meglio che altrove, quel sogno di bellezza e di perfezione, quell’armonia delle facoltà spirituali, quella efficace sintesi di componenti ideali e realistiche, a cui ardentemente aspira. La presenza degli elementi idealizzanti non attenua infatti l’interesse verso la realtà concreta; ma ciò che soprattutto caratterizza l’uomo del Rinascimento è la caparbia volontà di mantenere i propri istinti entro gli argini di una razionalità funzionale allo scopo degli istinti stessi; è, cioè, la salda fede che egli dimostra nelle forze dell’intelletto come unica via per imporre alla realtà il sigillo della propria individualità appassionata ed energica. La vera conquista consiste appunto, in ultima analisi, in questa matura capacità di autocontrollo (è l’ironia dell’Ariosto, la virtù del Machiavelli, la discrezione del Guicciardini, la sprezzatura del Castiglione) per assumere di fronte agli eventi un atteggiamento di lucido distacco e di supremo dominio che consenta di analizzare con chiarezza oggettiva la realtà (o quella porzione di realtà che l’individuo ha deciso di affrontare e di vivere sino in fondo): scomponendola nella miriade dei suoi particolari, ma osservandola alla luce di uno sguardo unitario e globale, ricomponendola, anzi, in una sintesi olimpica e vigorosa. Questa realtà può essere, per quanto riguarda la nostra letteratura, il gioco delle fantastiche immaginazioni dell’animo umano (Ariosto), o la spietata dinamica dell’agire politico (Machiavelli); può essere la coreografia raffinata e solenne dell’uomo di corte (Castiglione) o il più quotidiano ambito delle «belle maniere» (Della Casa); può essere l’orgogliosa esperienza di una vita d’artista scapigliata e violenta (Cellini) o la descrizione oscena di un mondo moralmente abbietto e plebeo (Aretino) o, ancora, la storia, tra dolente e comica, degli umili contadini, vista al filtro di una geniale sperimentazione di linguaggio (nel dialetto del padovano Beolco o nel latino maccheronico del Folengo). Il celebre «pessimismo» del Guicciardini è la lucidità intellettuale di chi osserva implacabile l’esasperata frantumazione dell’agire dell’uomo, magari illudendosi, per una suprema volontà di distacco e di dominio razionale, di essere pervenuto a un totale possesso di quella realtà medesima. Ma proprio il Guicciardini già accenna a un venir meno di quello spirito vitale, di quella serena armonia interiore, di quella fiducia nella «virtù» e nella «libertà» dell’uomo che anima gli aspetti migliori del Rinascimento. È questa la crisi che si farà sempre più grave a partire dalla metà del secolo, quando la stagnazione economica italiana (conseguente alle scoperte transoceaniche); la decadenza delle corti asservite all’imperante dominazione spagnola; la tempesta spirituale e politica che con Lutero[4] ha squassato l’Europa; il revanscismo cupo della Controriforma; la sconfitta della «ragione» e della «tolleranza» nelle guerre di religione (cioè, quegli ideali umanistici per cui tanto aveva lottato il più grande interprete del Rinascimento in campo europeo, Erasmo da Rotterdam[5]), diverranno l’espressione di una realtà lacerata, comportando un senso quasi di smarrimento negli intellettuali, un travaglio oscuro, un indebolirsi degli istinti vitali. Ci avviamo così, dopo il Concilio tridentino (1545-63), verso quello che è stato definito il Manierismo o l’Autunno del Rinascimento.
Il termine Manierismo fu originariamente coniato per le arti figurative ed indicava l’imitazione della “maniera” di Michelangelo e di Raffaello. Svuotato tuttavia il termine delle sfumature dispregiative con cui lo si usa ancora talvolta, il Manierismo indica quel momento del Rinascimento che prepara il terreno a quel globale cambiamento di gusto, profondamente anticlassico, che impronterà nel Seicento la grande stagione barocca. Il rifiuto dei canoni imitativi; la visione drammatica della vita, sospesa tra slanci metafìsici e crudo realismo, fra lugubri presagi di morte e smodata sensualità; la concezione sperimentale dell’arte, aperta agli ardimenti dell’invenzione sfrenata, alla novità tecnica, alle suggestioni della nuova rivoluzione scientifica che scopre l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: ecco dei tratti tipici dell’età barocca che si sviluppano gradualmente nell’esperienza manieristica. Si accentuano la ricerca esteriore del fasto, il gusto spagnolesco e controriformistico del gesto aulico, cerimonioso, solenne, lo spirito di servilismo e l’adulazione verso i potenti. Gravano come una cappa di piombo l’autoritarismo, la censura e il moralismo della Controriforma; predomina, nella cultura e nella morale, un conformismo bigotto. Non è più lecita quella spregiudicata libertà artistica e intellettuale che aveva serenamente accettato tanti «irregolari» del Rinascimento (Aretino, Folengo, Beolco, Cellini). Anziché nella ricerca di contenuti vitali, l’ansia di novità degli artisti si esprime (e si rifugia) in particolari formali o in elementi non essenziali, spesso contraddittori, ambigui, frammentari ed incerti. Si accentua il gusto per le metafore, per i preziosismi, per le cadenze musicali insinuanti; la spontaneità degli istinti si spegne; l’arte diventa artificio e ricercatezza.
Il Classicismo ha esaurito la sua forza propulsiva e si irrigidisce in forme sclerotizzate; il criterio dell’imitazione, del modello, della codificazione precisa, che nel primo Rinascimento si era svolto in un’atmosfera di sostanziale libertà creativa, tende ora a diventare pedanteria, minuziosa distinzione, casistica. L’aristotelismo riprende vigore, dopo le libere idealizzazioni platoniche dell’età precedente; il clima delle Accademie si fa più austero e pedante. Si avverte tuttavia una sensibilità inquieta e una volontà di sperimentazione che talora prelude al bizzarro, all’esotico, al lacrimoso, al macabro, alle contaminazioni morbose di amore e morte, a quei toni, insomma, che diverranno preminenti nel gusto della civiltà barocca.
La sensualità perde quel carattere di gioiosa espansione dei sensi che aveva contraddistinto un Ariosto (o la spregiudicatezza beffarda di un Aretino); nel Tasso l’amore comporta qualcosa di proibito e di tragico; si rifugia nei vagheggiamenti un po’ morbosi del sogno e dell’immaginazione; la sensualità non coincide più, in pacificata sintesi, col sentimento; la vita appare illusione frustrante, destino di impotenza e sconfitta. Nei nuovi generi letterari del dramma pastorale o del melodramma prevalgono le morbide sfumature musicali e sensuali, i toni obliosi; proprio mentre, per altro verso, l’arte pretende spesso assumere una funzione didattica e moraleggiante. Vi è talora un’ansia insoddisfatta di purificazione, una volontà inquieta di perfezionamento interiore; si cercano velleitarie e incoerenti compensazioni nel trascendente. Ma non si tratta solo di ipocrisia e di moralismo bigotto, di menzogna e finzione; vi è una crisi autentica degli spiriti. Ritornano infatti quelle tensioni moralistiche che non avevano più turbato gli uomini del Rinascimento italiano, serenamente concentrati nella riscoperta della religio hominis. In realtà, se il pensiero rinascimentale, rifacendosi agli antichi, aveva elaborato una salda e chiara concezione dell’arte (come espressione armoniosa di forme umane e terrene), aveva invece sostanzialmente ignorato il problema della morale. L’uomo del Rinascimento, pur continuando a credere nel tradizionale Dio cristiano, non si preoccupò mai di costruire un sistema concettuale che accordasse veramente i principi religiosi con la rinnovata visione del mondo (la «docta pietas» di Marsilio Ficino, con il suo carattere idealistico, platonizzante ed estetizzante, era ovviamente inadeguata a reggere l’urto con una realtà così violenta e drammatica come quella del ‘500). Lo stesso Machiavelli nella sua concezione dello Stato, che aboliva i canoni interpretativi della religione e sostituiva una sorta di morale laica, non aveva mai dato una vera giustificazione teorica di questa nuova morale (gli scrittori politici di fine ‘500 e di primo ‘600 la chiameranno «Ragione di Stato»), presupponendola come un implicito e indiscutibile dato di fatto. L’ambiguità che era insita, sin dalle origini, nel binomio Umanesimo‑Religione non poteva perciò non esplodere in tutta la sua violenza. L’anima più sensibile, sul piano artistico e umano, che si trovò al centro di questo turbamento dei valori e delle coscienze, fu il Tasso. La vittima più celebre, nel processo della Storia, è Giordano Bruno, che suggella sul rogo la fine di un’epoca (quella umanistico‑rinascimentale) pur sviluppatasi con spirito tanto sereno, fra tante speranze e utopie di concordia, di pace, di armonia; quando la «cultura» si era illusa, come spesso accade, di modificare veramente l’assetto del mondo, e di mediare, con la sola forza della parola e del dialogo, i contrasti e le contraddizioni degli spiriti. La crisi oscura che travaglia il letterato italiano di fine ‘500 finisce perciò coll’acquistare un alto significato morale: è una lezione di umanità; ma di un’umanità non più generica e astratta, intrisa di retorica e di letteratura, bensì tutta calata nella crudele esperienza del vivere quotidiano. L’intellettuale di questo Rinascimento che muore paga la sua vicenda di artista, autentico e grande, con il dramma lacerante di un’esistenza nevrotica (come il Tasso), o impara, con tenacia eroica, che la libertà di pensiero non coincide sempre con là libertà della vita, ma bisogna talora conquistarla scegliendo coraggiosamente la morte.
***NOTE AL TESTO***
[1] Jacob Burckhardt – nato a Basilea, in Svizzera, il 25 maggio 1818 – è stato uno dei più importanti storici europei del XIX secolo. La sua opera più importante è La civiltà del Rinascimento in Italia (1860). Morì a Basilea, l’8 agosto 1897.
[2] Tale termine verrà poi a caratterizzare, invece, la faticosa marcia dell’Italia verso l’indipendenza e l’unità nazionale.
[3] Raffaello Sanzio (Urbino 1483 – Roma 1520) allievo di Giovanni Santi, collaborò poi con il Pinturicchio e col Perugino, divenendo ben presto uno dei maggiori pittori del rinascimento. Le sue prime opere (crocifissione Gavari e Sposalizio della Vergine) tradiscono l’influsso del Perugino, ma importante fu anche il contatto con l’opera di Leonardo. Nel 1508 si trasferì a Roma, divenendo uno degli artisti prediletti da Papa Giulio II, ove sviluppò le sue doti di ritrattista inventando il taglio della figura a tre quarti. Sotto Leone X, si dedicò soprattutto all’architettura. Alla Trasfigurazione, la sua ultima pala d’altare, consegnò il suo “testamento” artistico, del quale solo il Caravaggio colse la lezione nei valori luministici e chiaroscurali.
[4] Martin Lutero (in tedesco Martin Luther; Eisleben 1483 – Eisleben 1546) presbitero agostiniano e docente universitario, diede vita a una nuova teologia in cui sostenne la non necessarietà dell’intercessione della Chiesa ai fini della salvezza dell’anima, considerata «un libero dono di Dio». Questa, e altre posizioni pesantemente critiche contro la Chiesa di Roma, come per esempio la condanna della nota vendita delle indulgenze praticata dai papi Giulio II e Leone X, lo indussero a formulare nel 1517 le 95 tesi considerate dagli storici l’inizio de facto dello scisma dal cattolicesimo. Nel gennaio del 1520 si riunì a Roma il primo concistoro contro Lutero, e in giugno fu emanata la bolla Exsurge Domine che intimava a Lutero di ritrattare ufficialmente le sue posizioni, pena la scomunica. Lutero rifiutò e il 10 dicembre dello stesso anno fece bruciare nella piazza di Wittenberg i testi del diritto canonico e la bolla papale. Il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem, Leone X scomunicava Martin Lutero con l’accusa di eresia. Posto al bando dall’impero, dovette nascondersi per dieci mesi nel castello di Wartburg, ad Eisenach, dove si dedicò alla sua più importante opera: la traduzione tedesca del nuovo testamento.
[5] Erasmo da Rotterdam (Rotterdam 1467 – Basilea 1536) teologo, umanista, filosofo e saggista olandese, fu una delle figure centrali della cultura europea del suo tempo. Ammiratore di Lorenzo Valla, venne influenzato nella sua formazione anche dal movimento religioso della Devotio moderna, diffuso nei Paesi Bassi da Geert Groote nel XIV secolo, che assunse come modello diretto della vita quotidiana la vita di Cristo e sostenne la lettura personale della Bibbia. Nella sua opera Enchiridion militis cristiani (1502) si fece portavoce della corrente di riforma cattolica tollerante, e nel suo Moriae encomium, o Elogio della Follia, polemizzò contro il fanatismo, il dogmatismo, le evasioni mistiche, tessendo l’elogio di quella superiore “follia” che spinge il cristiano a fare della fede esercizio di vita. Sensibile ai motivi ispiratori della Riforma, ma decisamente ostile alla negazione luterana del libero arbitrio, scrisse il De libero arbitrio diatribe sive collatio, ove satireggiava la dottrina di Lutero. Nella sua ultima opera, l’Ecclesiaste, parafrasi dell’omonimo libro biblico, sostenne che la predicazione è l’unico dovere veramente importante della fede cattolica.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»
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