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Marco M. G. Michelini | 1 Luglio 2019

Linea Biorgafica

Ludovico Ariosto nacque l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia, primo di dieci figli (cinque maschi e cinque femmine), da Niccolò, uomo di carattere rude e violento, appartenente dalla nobile famiglia degli Ariosti (trasferitasida Bologna a ferrara già prima del 1347), e da Daria Malaguzzi Valeri, una nobildonna di Reggio, amorosa e sollecita verso la famiglia, da cui il poeta trasse il suo carattere sensibile e ricco di sentimento. Il padre faceva parte della corte del duca Ercole I d’Este ed era comandante del presidio militare degli Estensi a Reggio Emilia; tuttavia, le condizioni economiche della famiglia non erano agiate, per cui Ludovico fu spinto a seguire gli studi di legge a Ferrara, cui il giovane si adattò con poco entusiasmo e scarso profitto. A Ferrara l’Ariosto (che abitava con gli zii) trascorse cinque anni di scapestrata allegria insieme al ricco e gaudente cugino Rinaldo, componendo ogni tanto facezie in versi sulla vita del mondo universitario, messo con frequenza a rumore dalle rissose baldorie e dai tumulti goliardici. A vent’anni il poeta ottenne finalmente dal padre di potersi dedicarsi agli studi letterari e si pose allora alla scuola di Gregorio da Spoleto, coltissimo frate umanista.

Nel 1500 la morte del padre lo costrinse a prendere in mano le redini della sua numerosa famiglia e ad entrare al servizio degli Estensi che, nel 1501, gli affidarono il comando della rocca di Canossa, incarico che mantenne fino al 1503. Contemporaneamente attendeva ai suoi doveri di capofamiglia, rivelando doti di accorto e paziente amministratore, provvedendo ad assistere amorevolmente la madre, cercando di sistemare i fratelli minori, procurando la dote alle sorelle per il matrimonio, amministrando i terreni e il bestiame, riscuotendo le locazioni e sostenendo complicate liti giudiziarie.

Tornato a Ferrara nel 1503, si decise a prender gli ordini minori e ad entrare come “familiare” al servizio del cardinale Ippolito d’Este[1]: un raffinato e brillante signore, autoritario e vendicativo, smanioso di primeggiare, ricchissimo di prebende ecclesiastiche, amante del lusso, organizzatore insuperato di banchetti e baldorie, esteta gaudente, politico astuto, innamorato più della spada che del Vangelo. Accanto al Cardinale Ludovico visse quattordici anni come gentiluomo di camera con modesto stipendio e mansioni svariatissime: sorvegliare che il pranzo fosse ben curato, acquistare stoffe, vestiti, cappelli, pennacchi, maschere; correre magari fino a Milano a comprare botti di vino lombardo o uva rossiccia del Novarese; ma erano soprattutto i frequenti viaggi diplomatici e le ambascerie a cui il dinamico cardinale lo costringeva tra Emilia e Toscana, oppure a Roma, che turbavano quella vita sedentaria e tranquilla a cui Ludovico aspirava per poter continuare il suo lavoro di poeta[2]. Alcuni di questi viaggi sono rimasti famosi: ad esempio quello del 1510 per cercar di placare le ire di Papa Giulio II adirato con il duca Alfonso (e in quell’occasione il bellicoso papa minacciò di gettare ai pesci lo sfortunato poeta), o la più drammatica fuga dell’ottobre 1512 attraverso Umbria e Toscana insieme al Duca braccato dalle milizie papali[3]. Eletto papa Leone X[4], grande mecenate e protettore di artisti, l’Ariosto, che gli era stato amico in giovinezza, sperò di ottenere una più fortunata sistemazione; ma a Roma, fra la canea dei postulanti, ricevette in dono solamente un solennissimo bacio[5].

Frattanto, fin dalla primavera del 1513, aveva conosciuto a Firenze Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, e tra i due iniziò una relazione sentimentale che sarebbe durata tutta la vita, anche se all’inizio il rapporto fu tenuto segreto per il fatto che lei era sposata e perché lui non voleva rinunciare ai benefici ecclesiastici ottenuti in precedenza. Poco sappiamo delle donne che Ludovico ebbe prima di incontrare la Benucci: da una certa Maria, che gli fu compagna quando era capitano di Canossa, ebbe il figlio naturale Giovambattista (che ricorderà nel suo testamento), mentre da Orsola Sassomarino, frequentata fra il 1508 e il 1513, ebbe il figlio Virginio che, dopo averlo legittimato, educò con amorosa sollecitudine nel culto della poesia e della sapienza umanistica.

A partire forse dal 1504 (o comunque prima del 1507) aveva anche iniziato il Furioso, del quale nel 1516 fu pubblicata la prima edizione, dopo un lungo lavoro di correzione attuato sfruttando al massimo le rare pause di quiete che i suoi obblighi e le quotidiane preoccupazioni gli consentivano. Aveva inoltre scritto (1508-1509) due commedie, la Cassaria e i Suppositi. La fama dell’Ariosto, dunque, che durante i viaggi a seguito del cardinale Ippolito si portava dietro i manoscritti e li leggeva nelle corti, andava già da tempo diffondendosi. Tutto ciò, oltre ai disagi legati ai viaggi sempre più frequenti e mal sopportati da un uomo ormai quarantenne e malandato di salute, faceva sì che nel poeta, poco apprezzato dal cardinale per i suoi meriti di scrittore e di umanista, crescesse il desiderio di un’esistenza più raccolta e meno dispersiva.

I rapporti col cardinale Ippolito si incrinarono definitivamente nel 1517, allorché il prelato, nominato vescovo di Buda, pretese che l’Ariosto lo seguisse quale suo segretario in Ungheria: il poeta rifiutò risolutamente, e Ippolito, meschino ed egoista, non volle tener conto delle scuse addotte (le malattie di stomaco, il freddo clima ungherese, la vecchia madre a carico con il paralitico Gabriele) per cui lo congedò furibondo, privandolo di alcune rendite e quasi prendendolo in odio. In realtà i motivi più veri per non partire erano sicuramente l’amore per la Benucci e per il figlio Virginio, nonché il desiderio di non abbandonare la dilettissima Ferrara.

Rimasto senza lavoro, nel 1518 entrò al servizio del Duca Alfonso, in una posizione di minore disagio personale e maggiore dignità. La fama dell’Ariosto a corte ormai era grande, ma le sue condizioni economiche rimaneva nonostante tutto difficili. Per tale motivo nel 1522, dopo aver stampata l’anno prima la seconda edizione del Furioso, si vide costretto ad accettare, sia pure a malincuore, l’incarico di governatore della Garfagnana, da poco tornata sotto il controllo estense. Era quella una terra montuosa e selvaggia, infestata da bande di briganti e pervasa dalla violenza delle fazioni rivali. L’Ariosto vi rimase fino al 1525, riuscendo a compiere in modo dignitoso il proprio compito di riportare nel paese l’ordine e il rispetto della legge, e fronteggiando con pronti e opportuni provvedimenti le situazioni più incresciose, quali il pericolo della peste, o la minaccia della carestia.

Tornato finalmente a Ferrara, con il denaro risparmiato grazie al servizio svolto, e dopo aver diviso tra i fratelli il patrimonio comune, comprò una casetta in contrada Mirasole con attiguo orticello, fatto a cui il poeta diede grande importanza e che ai suoi occhi appariva come il simbolo di una raggiunta indipendenza economica. Sulla facciata della casa fece scrivere il distico latino: «Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non  / Sordida, parta meo sed tamen aere domus»[6]. Qui si ritirò a vivere negli ultimi anni dedicandosi principalmente alla riscrittura del Furioso che ora il poeta voleva ancora rivedere, accrescendone la materia e soprattutto modificando la lingua secondo i dettami di Pietro Bembo[7]. A corte si limitò a svolgere solamente funzioni di minore impegno, dedicandosi più che altro a curare gli spettacoli teatrali: questa almeno gli era sempre stata un’attività gradita e congeniale. Compose altre due commedie, Il Negromante e La Lena, e concluse le sette Satire.

Morì il 6 luglio del 1533, a quasi cinquantanove anni, pochi mesi dopo avere dato alle stampe l’ultima e definitiva versione del suo capolavoro in quarantasei canti. Il suo stile di vita era ormai talmente appartato che la notizia della sua fine raggiunge la corte estense solo alcuni giorni più tardi. I funerali, per sua espressa volontà, si svolsero senza sfarzo nella chiesa dei frati di San Benedetto, dove fu sepolto. Nel 1801 i suoi resti vennero tumulati con grandissimi onori a Palazzo Paradiso, nella sala maggiore della Biblioteca comunale ferrarese.

La personalità e il carattere

«Una vita così scevra di spunti avventurosi e romanzeschi, così povera di atteggiamenti eroici, può anche suggerire, e ha di fatto suggerito, l’immagine di un carattere pigro, senza forti interessi inteuettuali, morali e politici, di una vocazione edonistica a volta a volta disturbata e contraddetta dall’urgenza di fastidiosi problemi pratici e di obblighi familiari e cortigiani assunti e sbrigati contro voglia. Rapportata al metro dell’alta poesia del Furioso, una tale vita pare, altrettanto naturalmente, postularne un’altra, più intima e vera, assorta e contemplativa, tramata di sogni e fantasie, in cui la mente si rifugia a lenire, anzi a obliare le miserie e le meschinità dell’esistenza quotidiana. Si è giunti così a raffigurarsi l’indole dell’A. in una disposizione distaccata, indifferente o addirittura scettica, sempre aliena dall’impegnarsi interamente nei problemi della vita e della cultura del suo tempo; e per contro la sua poesia come una sorta d’evasione e di fuga dalla realtà, un gioco, un divertimento che si attua in una sfera illusoria, in un totale abbandono a quell’ideale dell’arte, che solo sopravvive alla caduta di tutte le passioni e di tutte le fedi»[8].

In realtà, la vita dell’Ariosto non fu quella di un uomo passivo e rinunciatario, che cercasse nelle divagazioni poetiche e negli ozi letterari la compensazione a una esistenza mediocre, ma l’esperienza saggia ed equilibrata – sia sul piano psicologico sia su quello morale – di un uomo maturo che agì con estrema discrezione e senso di concretezza nelle circostanze della realtà del suo tempo. Gravato da una situazione economica non florida e dal peso di una famiglia numerosa, non potendo avere quella sicurezza finanziaria che gli consentisse tranquillità di studi e di lavoro poetico, come avrebbe desiderato, accettò con animo sereno i compiti che la vita gli impose, assolvendoli sempre con onestà e cercando di difendere quel minimo spazio indispensabile a concentrare tutte le energie spirituali verso un sogno d’arte perseguito con lavoro costante. Lieto e spensierato nella giovinezza, responsabile alla morte del padre e nei doveri familiari, deciso e orgoglioso nel rifiuto a un trasferimento ungherese che avrebbe compromesso l’equilibrio fisico e psichico della sua esistenza, seriamente impegnato nell’ingrato ufficio di commissario della Garfagnana e altresì moralmente energico nel protestare col Duca per i soprusi locali, costante nell’amore per colei che rispondeva alle sue esigenze sentimentali, tenace nel perseguire il suo ideale di arte, ma anche misuratamente scettico ed ironico di fronte alla varietà e labilità delle vicende del mondo. Lontano da vane ambizioni non cercò mai i successi di una carriera fruttuosa, che avrebbe implicato ben altri compromessi morali di quelli che egli dovette accettare in qualità di servitore degli Estensi. Visse da cortigiano, come le circostanze storiche richiedevano e come la sua psicologia di uomo cauto e realistico gli imponeva, ma fu dignitoso sempre e alieno da quelle adulazioni cortigianesche che erano la premessa indispensabile del carrierismo politico. Attraverso il continuo contatto con la minuta realtà quotidiana degli umili e dei potenti imparò ad osservare la grande armonia disarmonica della società umana, e la vide come la «gran follia» degli uomini perennemente tesi agli impossibili vanitosi sogni; ma seppe guardarla con quel distacco e con quel tanto di ironia che è segno di un uomo esperto e maturo, e proprio questa «follia» volle simbolicamente tradurre in un aereo sogno fantastico che fosse monito morale e messaggio di umanità nel libero regno del sentimento e della sensibilità: moralità umana sul piano distaccato ed elusivo della contemplazione estetica, si obietterà; certamente, come le circostanze della cultura e della storia imponevano a un uomo impegnato del Rinascimento e come le leggi della psicologia sembrano pretendere ancora a cinquecento anni di distanza, in epoca di fantascientifici sogni e di ben più tragiche follie razionalizzate.

Liriche latine e volgari

«Tra gli scritti minori e il capolavoro dell’Ariosto gli storici della letteratura sogliono porre uno stacco assai forte e negano che sia possibile dedurre da quelli a questo una linea ben definita di svolgimento e di progresso artistico. Il che è vero, se si tien conto soltanto dell’intensità poetica, che nell’Orlando è grandissima e nelle opere minori scarsa e quasi assente; ma è assai meno vero se, in virtù di tale principio, si giudica quegli scritti come pure deviazioni e quasi errori marginali di una vivacissima fantasia, che a tratti si dimentica e si distrae dal suo compito essenziale, e si rinuncia pertanto a scorgere la sostanza di umanità e il complesso di atteggiamenti riflessivi e poetici che da essi confluisce via via nel capolavoro. Il giudizio che si suol dare, quasi assolutamente negativo, delle liriche, delle commedie, delle satire ariostesche merita di essere riveduto in parte, non tanto per mettere in luce i rari momenti poetici che pur s’incontrano in questi esercizi letterari, quanto per additare già in essi gli elementi di pacata moralità e di arguta riflessione, quella considerazione tra affettuosa ed ironica delle umane vicende e quel calore di sentimenti non fittizi né convenzionali, ma sempre tenuti a freno e come velati dal sorriso superiore dello scrittore, che costituiranno tanta rane dell’atmosfera poetica dell’Orlando»[9].

Del resto, quando era ancora un ragazzo, Ludovico aveva composto delle burle e delle satire studentesche; ma le prime esercitazioni letterarie di cui ci rimanga testimonianza scritta sono le liriche latine. Queste liriche furono composte fra il 1494 e il 1503 e costituiscono i primi tentativi in direzione di una ricerca stilistica esemplata sui classici, secondo quel gusto della poesia latina che era così vivo nella cultura ferrarese. Si trattava, d’altronde, di un apprendistato indispensabile per chi volesse introdursi e affermarsi con dignità nel circolo letterario della aristocraticissima società rinascimentale. Tutti questi componimenti, sono più una rielaborazione di modelli che vere e proprie conquiste poetiche, in cui tuttavia Ariosto già tentava di inserire i temi della propria umanità, riducibili, per allora, «a un motivo edonistico, di giovanile sensualità, lieta, senza complicazioni, simbolo di un’esperienza fresca e non corrucciata della vita nella sua mobilità piacevole e che ben si conciliava a sua volta con il bisogno di una dorata maturità, di frutti saporosi, di una conclusione appagante e gustata, di uno stile nitido e non arido, di una cadenza precisa, ma non secca, ricca di un’eco molle, calda, un po’ come la cadenza tra rude e languida di certi dialetti padani»[10].

Di ben maggiore importanza sono le rime italiane, dedicate per lo più alla donna amata, Alessandra Benucci, e composte nella maggior parte quando l’autore, ormai trentenne, stava raggiungendo la piena maturità. Vivissima era in Ferrara la tradizione petrarchesca e sempre più si andava contemporaneamente affermando in tutta Italia la teoria linguistica del Bembo, che proclamava apertamente la suprema dignità del volgare accanto alla lingua latina e che, mentre indicava nel Petrarca il supremo modello stilistico, elaborava al tempo stesso i temi dell’amor platonico ponendoli alla base della nuova poesia. In realtà Ariosto si era già orientato decisamente per conto suo in questa direzione, ma, senza dubbio, la profonda amicizia col Bembo (che risiedette alcuni anni a Ferrara) e la diffusione sempre più autorevole delle sue teorie, contribuirono a rinsaldare meglio il nostro poeta nei suoi convincimenti linguistici e letterari. Compose così rime varie, capitoli, madrigali, canzoni, sonetti, rifacendosi con libertà ai temi del petrarchismo e dell’amor platonico, e inserendo nelle consuete formule letterarie un suo proprio e originale atteggiamento poetico di esaltazione dell’amore come libera e gioiosa espansione dei sensi; il tutto espresso in una forma classicamente eletta, ma al tempo stesso piana e misurata, ora più madrigalesca ora più scherzosa, ora più ampiamente elaborata secondo architetture pur sempre piuttosto facili ed esterne. Si tratta, in sostanza, di «esperienze diverse animate anche da presenze letterarie diverse, ma che nel loro fondo essenziale mirano ad una poesia che porti in lingua letteraria un sentimento di esperienza vitale che va da una concretezza realistica ad una raffinata sentimentalità, ma che non esce mai dal cerchio di una sensibilità sottilmente edonistica, capace di tendersi fino ad una idealizzazione, ma florida, antiascetica»[11].

Le commedie

Ariosto, sin da giovane, s’era impegnato alla corte degli estensi in un’attività di attore, autore e regista, rifacendosi alla moda del teatro latino, vivissimo nella cultura ferrarese. Da questa esperienza, coltivata per tutta la vita, nascono le sue cinque commedie: prima manifestazione di un rinascente teatro in lingua volgare, dopo la dissoluzione del dramma religioso quattrocentesco (cioè di quelle Sacre Rappresentazioni di cui s’è parlato) e i tentativi compiuti da vari autori di riprodurre il teatro classico mediante piatte traduzioni di modelli latini. L’importanza storico‑culturale di queste commedie ariostesche (che saranno tradotte e imitate dai francesi) consiste non tanto in effettivi risultati di raggiunta poesia, bensì appunto nell’aver offerto per la prima volta dei modelli teatrali in cui la convenzionale tematica plautina e terenziana è fusa con motivi attinti dalla novellistica medioevale (Boccaccio in particolare) e rimodernata mediante l’inserzione di un ambiente e di un clima di vita contemporaneo. D’altra parte, questa attività teatrale ci conferma nell’Ariosto una vocazione genuina al ritmo, all’azione, allo spettacolo, al gusto scenografico, alla satira scherzosa, all’intreccio complicato, perché – come è stato scritto – nel libero ed estroso artificio della commedia risultava appagato il suo amore per le vicende avventurose, laboriosamente congegnate, e per l’imprevisto, implicito nella serie inesauribile degli equivoci e dei colpi di scena, senza che si manifestasse, tuttavia, un’eccessiva preoccupazione per la coerenza psicologica dei personaggi.

Se si esclude la Tragedia di Tisbe (1493), andata perduta, che rappresenta il primo tentativo dell’Ariosto di scrivere opere teatrali, si può dire che la “carriera” drammaturgica ariostesca inizi con la rappresentazione, nel marzo del 1508, della Cassaria (1507), opera in cinque atti scritta dapprima in prosa e in seguito rifatta in versi. Ad essa seguiranno i Suppositi (1508), Il negromante (scritta fra il 1509 e il 1520, e rappresentata nel 1528), La Lena (1528) e I Studenti, concepita forse tra il 1518 e il 1519, ma rimasta incompiuta[12]. Non ci rimangono, invece, «le sue traduzioni compiute nel 1529 delle plautine Aulularia e Maenechmi (quest’ultima con compendi in versi) e delle terenziane Andria ed Eunuchus, che comunque lasciano memoria della fervida attività del suo laboratorio teatrale. Alla quale si può assegnare anche una stravagante “ciurmeria” pubblicata postuma, l’Erbolato: un elogio della medicina che un imbonitore infarcisce di classiche citazioni in una prosa solennemente intonata, forse per indurre a sorridere delle virtù di quell’arte piuttosto che per suggestionare»[13].

La Cassaria rappresenta il primo tentativo, nella storia del teatro italiano, di cimentarsi col genere classico della commedia. Il retaggio dei modelli latini, specialmente di Plauto e di Terenzio, risulta sin troppo evidente, poiché a dispetto dei richiami alla realtà contemporanea e della proliferazione delle peripezie, i modelli psicologici rimangono gli stessi: giovani innamorati, servi furbi, vecchi avidi, schiavi e mezzani. L’azione si svolge nella città greca di Metellino (che nella redazione in versi diventerà Sibari) dove due giovani, Erofilo e Caridoro, sono innamorati di due fanciulle, Eulalia e Corisca, schiave del ruffiano Lucrano che ne è il lenone. Seguendo i consigli del servo Volpino, Erofilo tenta di riscattare Eulalia dando in pegno a Lucrano una cassa di ori filati del padre Crisobolo, ma il ritorno imprevisto del genitore complica tutto: Volpino tenta di far passare per ladro Lucrano, ma la cassa viene recuperata e Volpino viene sbugiardato e imprigionato. Fulcio, servo di Caridoro, riesce a spillare denaro a Crisobolo con un inganno, potendo, così, riscattare le due fanciulle e ottenere la libertà di Volpino.

I Suppositi, invece, si svolgono a Ferrara e in epoca contemporanea a quella dell’autore. Anche qua le fonti plautine e terenziane si sprecno, ma ad esse si uniscono pure chiare reminescenze dal Decameron del Boccaccio. «Erostrato, studente siciliano dello Studio di Ferrara, scambia le parti del suo servo Dulippo per entrare al servizio di Damone e intrattenersi senza sospetto con la sua figliuola, che ne ricambia l’amore ma è pretesa dall’anziano dottor Cleandro. Per impedire il matrimonio la fanciulla è richiesta in sposa dal falso Erostrato che si procura un falso padre in un senese di passaggio a Ferrara: dove, a complicare la situazione, arriva il vero padre dello studente che scopre l’inganno, ma senza danno per nessuno perché il dottor Cleandro riconosce in Dulippo il proprio figlio rapitogli bambino dai turchi e i due innamorati non trovano opposizione alla loro unione. Ma ragioni per un’opposizione iniziale all’amore dei due giovani non se ne intravvedono; il dramma non esiste; esiste solo il meccanismo degli equivoci e delle arguzie, preparato dalle insistite allusioni del prologo al vizio deprecato nella Satira VI con il quale qui invece l’Ariosto vuole appagare la lascivia carnevalesca del pubblico»[14].

Sia nella Cassaria che nei Suppositi si appalesano quelli che sono i maggiori difetti del teatro ariostesco: mancanza di un vero centro unitario attorno a cui si muova l’azione drammatica e conseguente dispersione nei particolari, nelle macchiette, magari nelle battute oscene. Di diverso stampo e più interessante è Il Negromante, nella quale si fondono fonti antiche e moderne: terenziani sono i temi del matrimonio non consumato e delle nozze clandestine, mentre lo stratagemma dell’innamorato chiuso nella cassa e, soprattutto, il personaggio stesso del negromante sono presi dal Bibbiena. La scena è ambientata a Cremona, dove Cinzio, costretto dal patrigno Massimo, sposa la ricca Emilia. Tuttavia Cintio si era già sposato segretamente con la povera Livinia, per cui, per cavarsi dai guai, decide per qualche mese di fingersi impotente, negando qualsiasi soddisfazione amorosa alla sua ricca sposa. Emilia si lamenta di questo con suo padre, Abondio, il quale convoca in casa un famoso negromante (che si rivelerà un ciarlatano che sfrutta le sue arti magiche per vivere alle spalle del prossimo) per risolvere la situazione. Cintio, allora, corrompe il mago affinché dichiari ai genitori e ad Emilia che la sua impotenza è inguaribile, a meno che egli non si separi per sempre dalla ricca sposa. La situazione sembra precipitare quando due servi di Cintio scoprono l’inganno, rivelandolo; senonché, Massimo apprende di essere il vero padre di Livinia, concepita da un incontro extraconiugale, e così permette le nozze tra lei e Cintio. Il negromante e uno dei due servitori che avevano smascherato l’imbroglio di Cintio sono costretti a darsela a gambe per non essere linciati.

In questa commedia il dialogo si fa più vivace e il tono comico‑realistico si arricchisce di un sentimento più cordiale e più immediato della vita quotidiana. «Diminuita di molto risulta invece l’incidenza dei servi nel meccanismo dell’azione e anche il loro scarso rilievo farsesco, mentre si disegna nel comportamento del servo Temolo una più pacata fisionomia di smaliziato e ironico popolano al quale sono affidati i commenti satirici alla credulità dei padroni irretiti dal negromante e altri, più sommessi, al costume amministrativo e politico del tempo. Così, incrementando gli inserti satirici, rinunciando a gareggiare con il dinamismo dei testi plautini, l’Ariosto sembra volgersi in questa seconda fase della sua produzione drammatica, segnata dal Negromante, verso una raffigurazione più frontale e statica dei personaggi, con il vantaggio di una loro più netta individuazione tipologica: risultato che comunque non riesce a cogliere pienamente per la sua riluttanza a esasperare e deformare, con l’aggressività mimica e linguistica che è propria dei grandi comici, i connotati scenici individualizzanti»[15].

Ma è con La Lena che il teatro ariostesco si fa più efficace e convincente: una commedia che – come è stato scritto – è senza dubbio, la migliore dell’Ariosto, quella in cui il poeta costruisce una più continua e sicura atmosfera realistica sulla base di un caso di vita. La scena si svolge a Ferrara, dove la mezzana Lena, moglie dell’inetto Pacifico, tiene in casa Licinia (figlia di Fazio, suo amante, che ha saldato a lena e Pacifico i loro debiti e ha dato loro la casa) per insegnarle il ricamo. Lena concede a Flavio, innamorato di Licinia, di incontrare la ragazza dietro il pagamento di venticinque fiorini, che Flavio sta per ottenere dall’amico Giulio, impegnando la propria veste. Per evitare che il padre di Flavio scopra la verità, Corbolo, servo di Flavio, inventa la storia di un’aggressione al padrone, in cui gli sarebbero stati rubati gli abiti. Ma mentre Flavio è in casa di Lena, sopraggiunge Fazio, per cui Pacifico, per nasconderlo, lo fa entrare in una botte. La botte, per una lite tra due creditori di Lena, Finisce a casa di Fazio, di modo che Flavio e Licinia potranno esaudire il loro desiderio. E quando i due innamorati saranno scoperti sul fatto si appronteranno, nella generale soddisfazione, le nozze riparatrici.

«Collocata nello spazio cittadino della Ferrara del duca Alfonso, popolata di bottegai, faccendieri e famigli ducali dei quali il servo Corbolo denuncia la disonestà (“mala razza”), irrigidita da rapporti di reciproca diffidenza tra i personaggi principali e secondari, la favola sembra conservare a stento il suo ilare decorso. Lo spaccato di società ferrarese che l’Ariosto incorpora nell’azione riflette aspre ragioni economiche ed esistenziali ed esprime una tensione che coinvolge vita privata e vita pubblica. Lena incarna con più esasperazione questa tensione d’impronta economica che la induce a esibire il suo rifiuto della morale corrente, contrapponendosi all’opportunismo remissivo del marito Pacifico quanto all’avarizia del suo amante»[16].

È stato detto dai più che le commedie dell’Ariosto hanno soprattutto un interesse storico, cioè quello di avere inaugurato la commedia volgare di imitazione classica. Alcuni vi hanno poi rilevato come pregi quelle che sono le doti ispirative dell’Orlando Furioso: la macchina dell’intreccio, il gusto dell’imprevisto, il senso dell’avventura. E v’è stato anche chi ha messo a confronto i testi ariosteschi con la Mandragola del Machiavelli – confronto dal quale l’Ariosto non poteva che uscirne malconcio – evidenziando che, mentre il teatro del fiorentino mette in luce i selciati di una città nei quali mercanti disposti a tutto pur di avere un erede mettono a repentaglio l’onore di mogli combattute tra gli obblighi di fedeltà e le soddisfazioni del sesso, il teatro del ferrarese sembra piuttosto un polveroso teatrino di corte dove ripassano in abiti volgari gli eroi di Plauto e di Terenzio.

Questo «giudizio concordemente ostile della critica romantica ottocentesca e poi di quella neoidealistica deve esser limitato e temperato, non solo in una prospettiva di storia culturale, col riconoscimento dell’importante funzione storica che l’Ariosto esercitò fornendo i primi esempi di una commedia regolare e dando in tal modo l’avvio al teatro italiano e poi a quello europeo del Rinascimento, si anche, da un punto di vista più preciso, con un giusto apprezzamento delle qualità letterarie e dell’impegno anzitutto tecnico, e poi anche umano e morale, dello scrittore. Occorre dire che le prove dell’Ariosto autore, regista, e talora persino attore, comico, nacquero da una passione concorde dell’ambiente e del suo poeta: dall’amore vivissimo, cioè, fin dagli ultimi decenni del Quattrocento, della corte ferrarese per le feste e gli spettacoli capaci ad un tempo di rallegrare gli occhi e lo spirito e di appagare le esigenze non volgari di un pubblico colto e raffinato, e dal gusto, fortissimo nell’Ariosto in ogni tempo, per il teatro amato e sentito in tutti i suoi aspetti e nella sua multiforme e complessa realtà, come esperienza letteraria e come effimero divertimento, come episodio della vita cittadina e cortigiana e come specchio bonario e scherzoso di quella vita attraverso la riflessione morale e la satira. A questo amore e a questo gusto si aggiunga il proposito di restaurare il teatro comico nella sua antica dignità sottraendolo alla rozzezza delle plebi e riconducendolo alla chiarezza e alla regolarità dei modelli classici: proposito umanistico, ma non astratto né cerebrale, anzi congeniale all’educazione del nostro e aderente agli spiriti e alla cultura di tutto il secolo. E non è poi vero che le commedie rimangano estranee, non diciamo all’alta fantasia, ma al sentimento e all’intelligenza dell’Ariosto; perché in fondo, nelle parti più vive e meglio riuscite, esse si riportano a quell’ispirazione moralistica riflessiva e satirica, da cui scaturiscono anche le Satire (sebbene in queste ultime con un’impronta tanto più personale e cordiale, e in quelle invece calata in schemi alquanto rigidi e un po’ ruvidamente polemici). La scelta stessa del metro, fissatasi, dopo un primo tentativo di stenderle in prosa, in quell’endecasillabo sdrucciolo che è sembrato sempre così artificioso e infelice – imposto, si diceva, dal proposito intellettualistico di rendere almeno approssimativamente in volgare il ritmo e l’andamento quasi prosastico dei trimetri giambici della commedia romana – risponde a un’esigenza non del tutto esterna di decoro, di uniformità linguistica e di freno stilistico (come risulta da un confronto fra i testi più antichi e quelli più recenti); e si dovrà aggiungere che lo scrittore pose tutta la sua attenzione, anzi la sua bravura, per conferire a quel verso ingrato e difficile andamenti facili e piani, quasi di prosa e di naturale conversazione, adeguando gli espedienti formali al tono umile, familiare, e ad ogni modo non poetico, della materia e alle esigenze del genere, così come egli lo intendeva. Del resto è importante, per la storia letteraria, che l’Ariosto perseguisse fin dal principio il consapevole proposito di dare una “nova commedia”, com’egli dice nel prologo della Cassaria, pur attenendosi nell’invenzione dei suoi “vari giuochi” all’esempio dei latini; e che questo proposito si facesse con gli anni sempre più chiaro e risoluto, nella scelta dell’ambiente, dei temi, degli episodi. Del che è prova non tanto il fatto che la scena, la quale nella Cassaria è collocata a Metellino (a Sibari, nella redazione in versi), sia trasportata in un ambiente più familiare e più realistico, a Ferrara e a Cremona, nelle commedie successive; quanto piuttosto l’altro fatto, più sostanziale ed intrinseco, che, fra le maglie degli intrighi complicatissimi modellati sugli schemi classici, penetri in misura sempre maggiore un contenuto umano e cittadino, pittoresco e a volte pettegolo, la vita vissuta insomma e direttamente osservata con occhio curioso e malizioso: poco ancora nei Suppositi, ma già moltissimo nel Negromante, vasta satira dell’umana sciocchezza in balia di furbi impostori, e più nella Lena, commedia assai ricca di quadretti d’ambiente ferrarese.

La maggior debolezza artistica delle commedie nasce essenzialmente dal divario fra la trama congegnata con i procedimenti che diverranno tipici del teatro comico del Rinascimento, imitando e contaminando le fonti di Plauto e di Terenzio, con non rari apporti tematici e formali della novellistica toscana, e il contenuto reale di passioni e di situazioni, che stanno a sé, senza un necessario legame con l’intreccio complicato delle vicende e senza la capacità di pervenire a una costruzione coerente dei caratteri dei personaggi. Donde il groviglio estremo, fino all’assurdo, e l’evidente inverosimiglianza degli argomenti, l’uso degli espedienti più convenzionali, gli sbalzi e le discordanze delle invenzioni, del tono, e anche del linguaggio, che, specie nelle due prime commedie, tocca a tratti gli estremi della caricatura, del lazzo e addirittura del gergo furbesco. Ma è chiaro anche il progresso che, per questo riguardo, si avvera nelle prove più tarde, con una notevole semplificazione delle strutture e dei modi espressivi, a tutto vantaggio dello scavo psicologico e di una più accorta caratterizzazione del personaggio. Ma, a prescindere dal significato culturale e storico, e anche dai momenti più vivi e letterariamente riusciti (qualche pagina di energica polemica morale o di arguta rappresentazione satirica; qualche figura ritratta in modo efficace, come il Corbolo della Lena), le commedie dell’Ariosto meritano attenzione, ai fini di una miglior valutazione della sua personalità artistica, se non altro per il gusto, che esse rivelano, della peripezia e dell’intrigo, dei colpi di scena e delle trovate inventive, dell’astratto gioco scenico insomma, gusto che tornerà nell’Orlando, con tanto maggior vigore fantastico, s’intende, e limpidezza e precisione costruttiva»[17].

Le Satire

Le Satire sono un’opera di originalissima poesia che l’Ariosto compose tra il 1517 e il 1525, quando già aveva pubblicato l’Orlando Furioso e andava rielaborandone la seconda edizione. Si tratta di sette componimenti in terzine, scritti in forma di lettere indirizzate da Ariosto a parenti e amici realmente esistiti, plasmate con grande fedeltà verso il modello prescelto, che è l’Orazio dei Sermoni e delle Epistole.

Considerate per lungo tempo come una sorta di riflesso immediato dell’indole, degli affetti e dei gusti dello scrittore, come lo sfogo della sua umanità negli aspetti più modesti del vivere quotidiano, e in definitiva come una sorta di epistolari versificato che ci fa entrare in contatto con un Ariosto meno paludato (considerazione sulla quale s’è costituita e in gran parte diffusa la simpatia dei lettori romantici per questo gruppo di componimenti, nonché l’opinione dei critici che concordemente li hanno considerarti come la più riuscita fra le opere minori dell’Ariosto), le Satire in realtà sono un’opera concepita con intenti esplicitamente letterari, dove il tono e lo stile colloquiale non è affatto indice di una scrittura spontanea e tanto meno autobiografica. Deve quindi essere tenuto ben presente che le Satire «sono un’opera decisamente artistica, sono il frutto non di un facile abbandono epistolare alla confessione e alla testimonianza autobiografica, ma di un consapevole ed ispirato impegno artistico maturo già rafforzato dalla composizione della prima redazione del poema, dall’esercizio in pieno sviluppo dell’attività lirica e teatrale.

Non si scambi grossolanamente la facilità e spontaneità incantevole del tono medio e discorsivo delle Satire con una prosaicità dovuta ad intenzioni pratiche, epistolari, e al semplice gusto di un raccontarsi e confidarsi fuori di ogni volontà di poesia e di arte, in una specie di cronaca autobiografica, sdegnata e sorridente, casualmente ravvivata da tocchi quasi involontari della mano del grande poeta.

Quella “facilità” è in effetti una “difficile facilità”, quella “cronaca” è in effetti una “cronaca poetica”, quei tocchi e quadri più facilmente riconosciuti come poetici sono in effetti le punte più evidenti di tutta un’organica tensione ispirativa indirizzata coerentemente a fini artistici, quel tono medio discorsivo confidenziale e libero è in effetti il frutto alto di una “poetica” che, entro la varietà e articolazione delle direzioni espressive ariostesche, mirava appunto alla realizzazione di un tono poetico “medio”, antiretorico e antieroico e pur non prosastico, capace di passare dal realistico al fiabesco, dall’ironico all’appassionato, sempre tenendosi ad una base media volutamente minore, ad una voce affabile, schietta, “naturale”.

Né ciò deve d’altra parte risolversi nell’idea altrettanto sbagliata di una impresa preziosamente e sterilmente “letteraria” (nel senso peggiorativo di questa, spesso ambigua, parola), in un calcolo aridamente sperimentalistico, ché quella stessa cosciente direzione artistica scaturiva, coerente ed organica, da un’intima esigenza espressiva, dalla necessità ariostesca di dar vita artistica ad una matura considerazione e presa di coscienza della propria condizione personale e umana, del senso intimo amaro e insieme antidrammatico e antiretorico della propria vicenda, della validità delle proprie convinzioni, preferenze, scelte vitali nel contesto di una società, di un tempo, della comune condizione umana»[18].

Gli autori del Quattrocento (Poliziano, il Magnifico, ecc.) avevano cercato di ottenere talvolta un’immediatezza poetica più umana e cordiale mediante l’uso di forme letterarie e di toni realistici attinti alla letteratura popolare, ma tutto ciò era rimasto pur sempre artificio retorico, gioco aristocratico di intellettuali, mascherati dietro una sorta di carnevalata poetica; solo ora per la prima volta, in un autore pur dotto e consapevole come Ariosto, questa comunicatività autentica, semplice e spontanea è effettivamente raggiunta attraverso l’idealizzazione e la classicizzazione di quella che è la modesta biografia individuale di un uomo-poeta, con tutte le connesse aspirazioni etiche e umane, e al tempo stesso con tutta la sua problematica spicciola, ma viva e concreta, di esigenze quotidiane e vitali.

Perciò in queste Satire l’autore dà più libero sfogo a quei temi umani e poetici, a quelle contingenze immediate, che nel capolavoro dell’Orlando Furioso, pur permeandone l’originaria base, non comparivano in maniera diretta, perché trasvolate e superate nel clima del mito, della pura favola, della fantasia irreale e sopra-reale: il gusto del particolare preciso e l’atteggiamento antiintellettualistico; la difesa della libertà individuale, come diritto di ognuno a scegliersi la forma di vita più consona alla propria natura e come rivendicazione delle proprie egoistiche esigenze vitali; il rifiuto dell’ambizione e delle vanità mondane; la ricerca di uno spazio di idillio e raccoglimento nella tempesta del mondo; un atteggiamento di bonaria indulgenza per i difetti degli uomini, ma pur saldo nella difesa dei basilari principi etici; il senso di un moralismo che non si esprime mai in formule sentenziose e astratte, ma che si volge a condannare concretamente gli eccessi umani e ad esaltare, per contro, l’ideale del giusto mezzo, come simbolo di maturità e saggezza, di equilibrio raggiunto attraverso una concreta sperimentazione della vita stessa. Così nelle Satire ariostesche «la vera saggezza di esperienza si fonde facilmente con l’episodio personale, con la scenetta gustosa, acquistando un’evidenza che la fa svolgere coerentemente fino alle fiabe, fino a quegli autoritratti eroicomici che spesso rompono la possibile monotonia delle abbondanti terzine ed esaltano il tono medio delle Satire a punte ambiguamente drammatiche. E queste a loro volta contribuiscono a quel tono non puramente comico, di saggezza e di esperienza disillusa e sorridente, a quel ritmo che l’Ariosto volle creare fuori della trasfigurazione orlandesca»[19].

Abbiamo perciò in queste Satire una varia e complessa fusione di temi e di toni, sempre rigorosamente tenuti insieme dal sentimento etico dell’autore che tutto riporta all’atteggiamento costante di chi vuole non già riformare, anzi neppur modificare, la società, bensì semplicemente osservare e comprendere i vizi e i difetti degli uomini per trame una personale lezione di vita che valga a giustificare e garantire il proprio ideale interiore di equilibrio, saggezza, armonia. Dall’episodio biografico al breve squarcio di paesaggio, dalla macchietta comica ritratta con leggera ironia all’invettiva sdegnosa, dal gusto degli oggetti concreti al vagheggiamento nostalgico di una vita non sempre realizzata con piena soddisfazione, dal tono morale bonario e dimesso a quello invece polemico e risentito di fronte a una realtà ineludibile, tutto si fonde coerentemente in questo crogiuolo di una libera e salda sensibilità etica, per culminare infine, poeticamente, in quelle fiabe che sono talvolta un piccolo capolavoro del moralismo ariostesco trasfuso nella realtà di una situazione figurativa concreta e pur trasvolata in termini di fantasia leggerissima. Un’intenzione morale che non pesa e non infastidisce proprio perché tradotta nell’allegoria di una favola umana; come appunto era già avvenuto in forma più vasta e generalizzata, nella grande epopea morale e fantastica del poema.

Nella prima satira, che è la più nota, composta quando il cardinale Ippolito parte per raggiungere la propria sede vescovile in Ungheria (1517) con il suo seguito (del quale facevano parte anche il fratello Alessandro e il compare Ludovico del Bagno, ai quali è indirizzata), l’Ariosto ci mostra molto più dello sfogo di un cortigiano deluso: non solo si difende, ma colpisce l’adulazione dei cortigiani e il falso mecenatismo del cardinale, rivela la sua dura condizione di servitore e denuncia gli inganni delle ambizioni smodate, rivendicando il suo ideale di vita sobrio e dedito agli studi, nonché ancorato ad affetti sinceri e sereni.

A poca distanza dalla prima (tra novembre e dicembre del 1517), viene scritta la seconda satira, indirizzata al fratello Galasso, ecclesiastico a Roma, perché gli cerchi un comodo alloggio per lui e il suo servitore, dovendo recarsi di lì a poco nella “città eterna” per ottenere dalla curia la salvaguardia dei suoi benefici. L’intento satirico qui è più evidente e si traduce in un vivace quadro della corruzione della curia romana e dell’ambizione degli uomini, di fronte a cui il poeta rivendica il proprio desiderio di libertà e indipendenza.

Nella terza satira, diretta nel maggio 1518 al cugino al cugino Annibale Malaguzzi, e che è tra le più ampie e complesse, il poeta parla della sua nuova “servitù” presso il duca Alfonso, accennando alla nuova vita ed esponendo, ancora una volta, la sua ideale aspirazione a un’esistenza tranquilla, lontana dagli onori e dalle ambizioni. Famose le due favolette inserite: quella della gazza – consapevole di non potere mai dissetarsi se ad un piccolo rivo devono attingere prima il pastore e la sua numerosa famiglia – e, piccolo capolavoro di fantasia, quella degli uomini che salgono sulla montagna nell’illusione di riuscire a prendere la luna.

L’argomento della quarta satira, scritta dalla Garfagnana (20 febbraio 1524) e indirizzata al cugino Sigismondo Malaguzzi, è ancora una volta il suo servizio ed esprime la tristezza del poeta, costretto a vivere in un territorio infestato dai briganti, lontano da Ferrara e dalla donna amata. Per cui, ricordando i giorni felici trascorsi a Reggio Emilia, l’Ariosto giunge ad affermare che tutto questo, oltre ai fastidi e alle preoccupazioni che il suo incarico comporta, gli impedisce di dedicarsi alla poesia. Certo noi sappiamo che la poesia dell’Ariosto non fu in alcun modo condizionata o legata ad uno stato di felicità, che si realizzò solo saltuariamente e in modo stabile unicamente negli ultimi anni della sua vita. «Ma vale più di quell’aspirazione alla quiete questa ripresa in stile oraziano che gli consente di farcire il tema, otre che dell’apologo finale, di digressioni polemiche e invettive ad personam persino aspre, tali comunque da correggere l’immagine vulgata della bonomia ariostesca»[20].

Nella quinta satira, la cui data di composizione è variamente assegnata fra il 1519 e il 1521, al tema della servitù cortigiana si sostituisce quello della servitù matrimoniale. La satira è indirizzata, come già la terza, al cugino Annibale Malaguzzi ch’è in procinto di sposarsi, e l’Ariosto coglie l’occasione per fare professione di saggezza su un tema, il matrimonio, appunto, sul quale egli non ha certo alcuna reale esperienza, ma che può tuttavia trattare con il distacco compassato di un semplice osservatore. «Questa morale dell’osservatore imparziale non ha ovviamente niente di pedantesco. Raccoglie temi umanistici di buona condotta coniugale, indulge alla derisione misogina e alla relativa tradizione ribellistica e si risolve in una serie di precetti cautelativi contro gli svantaggi del matrimonio che però alla fine smentiscono ironicamente la stessa validità del precetto»[21].

Nella sesta satira, scritta tra il 1524 e il 1525 e indirizzata a Pietro Bembo, l’Ariosto chiede al famoso letterato di trovare un precettore per il figlio Virginio, allora quindicenne e studente a Padova, raccomandandosi che sia uomo valente per dottrina e per bontà; soprattutto per bontà, giacché negli uomini di lettere le virtù si accompagnano spesso a “vizi nefandi”: la sodomia, ch’è il più turpe, e la miscredenza, ch’è indizio di presunzione intellettuale. Ma se da una parte viene sferzata la corruzione dei letterati, dall’altra vi è invece una vivace e nostalgica rievocazione biografica degli studi giovanili, che Ariosto non poté mai completare a causa della cattiva sorte.

La settima ed ultima satira, composta nella primavera del 1524 in Garfagnana, è indirizzata al cancelliere del duca Alfonso, Bonaventura Pistofilo, che gli aveva offerto un posto di ambasciatore presso il papa Clemente VII. L’Ariosto ringrazia e rifiuta: la sua aspirazione a una vita lontana dagli intrighi del carrierismo e la speranza di poter ritornare presto nella diletta Ferrara non gli consentono di accettare.

L’Obizzeide

«La consapevolezza che l’Ariosto ebbe di appartenere a un cultura cittadina capace di assorbire una tradizione di poesia classica e moderna, che la civiltà dell’umanesimo aveva ormai da oltre un secolo recuperata e riproposta come modello della nuova letteratura in volgare, spiega il suo precoce proposito di affrontare il genere di maggior prestigio, il poema epico. Tra i suoi tentativi giovanili restano 211 endecasillabi di un componimento in terzine, detto Obizzeide dal nome di un Obizzo estense di cui il poeta si propone di cantare “l’arme” e “gli affanni d’amor”, cioè le azioni eroiche che mettono in risalto la nobiltà di una dinastia e le peripezie amorose che rinvigoriscono il legame coniugale da cui si origina una progenie da celebrare. Sono gli ingredienti in cui l’epos, sia la sua forma eroica, eroicomica o romanzesca, non può rinunziare. E infatti essi incorniceranno le avventure dell’eroe primigenio del Furioso, di Ruggiero di Risa, il cavaliere convertito alla fede cristiana e destinato a unirsi con Bradamante e a fondare la stirpe estense. Ma il Furioso non è una “Ruggereide”, non è il poema esclusivo dell’eroe capostipite; è un romanzo che incorpora l’epica cortigiana con una prestigiosa capacità di fusione, di gran lunga maggiore di quella che il Boiardo dimostra nell’Orlando innamorato, dove il tema encomiastico appare ancora sovrapposto all’invenzione narrativa. Senza debilitare lo sviluppo romanzesco, anzi addirittura rinvigorendolo, il tema celebrativo innalza a livello classico, virgiliano, una materia fortunata, un genere di largo consumo, ma non ancora del tutto valorizzato letterariamente. L’operazione culturale dell’Ariosto è in questo senso di grande rilievo: fa del classicismo un duttile strumento artistico che annulla le gerarchie dei livelli contenutistici e stilistici; asseconda le tendenze edonistiche della letteratura rinascimentale ma le risarcisce di un’assoluta compiutezza formale; propone un modello linguistico di fondo toscano scartando gli irrigidimenti regionali che avrebbero compromesso l’assimilazione nazionale dell’opera, fuori da quei confini ferraresi da cui tuttavia poté nascere la poesia più rappresentativa dell’Italia rinascimentale»[22].

La stesura dell’Obizzeide risale agli anni tra il 1503 e il 1504. L’Ariosto si propone di cantare le imprese di Obizzo III d’Este (1294-1352), antenato della dinastia ferrarese e servitore di Filippo il Bello, che aveva sposato in seconde nozze la nobildonna bolognese Lippa Ariosti (ava di Ludovico). Il poeta, forse subito dopo il suo ingresso alla corte del cardinale Ippolito d’Este, compone questo abbozzo per ragioni encomiastiche, ripromettendosi di celebrare “l’arme” e “gli affanni d’amor” del capostipite di una stirpe degna di essere esaltata. Alla base del testo vi è la tematica dell’invidia di corte: un’invidia nobile, dettata da uno spirito di emulazione, che ricorrerà anche nei Cinque Canti. Obizzo ottiene l’onore di essere designato a rispondere alla sfida lanciata al re francese da un cavaliere nemico. Ma questa designazione muove contro di lui l’invidia di un altro cavaliere. Obizzo rappresenta l’onore italiano, in opposizione alle offese e agli assalti degli stranieri, ed incarna un modello di eroe epico-dinastico tutto interno al mondo signorile e tardo‑medievale. Da un punto di vista strutturale l’Obizzeide rispetta l’impianto cavalleresco tradizionale, con una fusione boiardesca tra ciclo bretone e ciclo carolingio, poi ripresa e dilatata nell’Orlando Furioso. L’uso della terza rima al posto dall’ottava, inusuale nel contesto epico, impedisce tuttavia l’ariosità necessaria alla narrazione, rivelandosi inadeguata, e determina una frantumazione del discorso, il quale sovente sconfina nel quarto verso e oltre. L’opera ha una sua identità di genere inserendosi in un filone di poemi epici che miravano all’esaltazione delle diverse signorie italiane, come la Borsias di Tito Vespasiano Strozzi, poema in latino sulle gesta di Borso d’Este. L’interesse del poema, pur nella sua forma mutila, va ricercato nel suo essere un laboratorio poetico alternativo e complementare al Furioso, un esperimento di tipo epico‑cavalleresco piuttosto che romanzesco, una sorta di banco di prova iniziale delle attitudini narrative di Ludovico poi sfociate in altre direzioni.

« L’Obizzeide, come poi il Furioso, esordisce con la tradizionale esposizione degli argomenti trattati (protasi):

Canterò l’arme, canterò gli affanni
d’amor, ch’un cavallier sostenne gravi,
peregrinando in terra e ’n mar molti anni.

Segue l’altrettanto classica invocazione che, tuttavia, è rivolta non più alle Muse (si pensi all’Iliade: «Cantami, o Diva, del Pelìde Achille…») bensì alla donna amata, sulla scorta di quanto era già avvenuto in Properzio, nel Filostrato boccacciano e, in tempi più recenti, nelle Stanze per la giostra di Angelo Poliziano. L’attacco del Furioso manterrà intatta la sostanza di quest’esordio (nel celeberrimo «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto»), stravolgendone però la forma: nel capolavoro ariostesco risaltano infatti la meglio ragionata organizzazione dei temi, il loro ampliamento nonché la disposizione chiastica, più efficace di quella per parallelismo nell’accordare incisività all’incipit. L’ispirazione alla base di entrambi i principî sono questi versi del Purgatorio: “Le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi”; ma, mentre sull’Obizzeide interferisce il ricordo di Petrarca («canterò com’io vissi in libertade»), il Furioso sembra ricollegarsi a una fonte più pertinente, cioè a Virgilio («Arma virumque cano…»). Si può pertanto concludere che l’Obizzeide, “goffo ordito classicheggiante”, sia un esperimento giovanile condotto sulla scorta di Dante e Petrarca, laddove il Furioso – pur mantenendo viva la (ironica) presenza dantesca, specie nel lessico e nelle situazioni – segnerà un riavvicinamento all’epica classica, in particolare virgiliana. Con risultati profondamente diversi»[23].

L’Orlando furioso

A seguito dell’abbandono dell’Obizzeide, cioè nel 1504 o poco più tardi, l’Ariosto iniziò la stesura dell’Orlando furioso, che – fin dall’inizio – fu pensato e curato per la pubblicazione a stampa, volto quindi alla diffusione verso un pubblico più vasto. L’opera si propone come il naturale prosieguo dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo ed infatti il poeta riprese la narrazione proprio dove Boiardo l’aveva interrotta, facendo evolvere la vicenda amorosa tra Angelica e Orlando che, a causa del rifiuto dell’amata, diviene furioso, pazzo per amore. Tutto questo era ben chiaro ai contemporanei[24] e allo stesso autore[25] che, tuttavia, era altresì conscio che la novità del proprio poema non poteva certo consistere nel contenuto.

«Certo nel febbraio del 1507 la composizione doveva esserne ormai avanzata, e tutto il piano del libro predisposto in ogni sua parte, se, trovandosi a Mantova in quell’epoca, l’Ariosto poteva esporre a Isabella Gonzaga la “narrazione de l’opera” e probabilmente leggergliene qualche episodio, facendole trascorrere due interi giorni “non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo”. Compiuto nel 1509 il poema in quaranta canti, dovette attendere ancora sei anni (durante i quali la stesura primitiva fu sottoposta a un minuto lavoro di correzione formale) prima di apparire a stampa, in Ferrara, nell’aprile del ’16. Il successo immediato e vastissimo del libro fece sì che l’edizione fosse esaurita già nel ’20. Nel febbraio dell’anno seguente usciva la seconda edizione, assai vicina alla precedente nell’aspetto esterno (immutato vi rimaneva il numero dei canti e la disposizione degli argomenti, salvo qualche spostamento o sostituzione di singole ottave), ma tutta riveduta nella lingua e nello stile, nell’intento di sopprimere i residui dialettali e le dissonanze e durezze di costrutto, con l’occhio fisso a quell’ideale di toscanità letteraria, che il Bembo andava proprio in quegli anni costituendo e propugnando. Questo travaglio di perfezione artistica e l’influsso della riforma bembesca sono anche più evidenti nella terza edizione del ’32, dove i canti sono diventati quarantasei (con l’aggiunta degli episodi di Olimpia, della rocca di Tristano, di Marganorre e delle avventure di Ruggero e Leone), e tutto lo stile è portato a un grado supremo di rifinitura e di splendore. Di cui tuttavia l’Ariosto non doveva sentirsi ancora soddisfatto, se è vero che riprese a lavorarvi per migliorarlo pur negli ultimi mesi, che ancora gli rimasero, di vita»[26].

La trama

«Non è facile riassumere la trama del Furioso, caratterizzata proprio dall’infinita molteplicità e dall’incessante svariare degli episodi e delle vicende, che l’Ariosto aduna nel suo poema. E tuttavia questo ha una struttura anche esteriore assai più compatta ed organica, a paragone dell’Innamorato o del Morgante, perché il poeta tiene con salda mano tutti i fili delle sue avventure e dei suoi personaggi, e li maneggia con un accorto gioco di inaspettate interruzioni, di improvvise riprese e di sapienti alternative. Senza essere rigidamente unitaria, secondo le regole astratte imposte dalla poetica della seconda metà del secolo, l’azione si raccoglie pure con sufficiente chiarezza intorno a tre nuclei essenziali: l’amore di Orlando per Angelica; la guerra fra i saraceni e i cristiani presso Parigi; e l’altro contrastato amore fra Ruggero e Bradamante. Di questi tre motivi, il primo è quello che assume maggior rilievo e risuona nella prima parte del libro con accenti più intensi e appassionati, finché raggiunge il suo culmine nell’episodio della pazzia di Orlando, quando il paladino scopre che la sua Angelica ha sposato il saraceno Medoro; il secondo costituisce lo sfondo epico della narrazione e solo a tratti balza in primo piano, accentrandosi nella possente figura di Rodomonte; il terzo infine è il più scialbo, e risponde in parte ad un fine cortigiano (perché dalle nozze della sorella di Rinaldo con il discendente di Ettore avrà origine la stirpe degli Estensi), ma non è privo neppur esso di una sua atmosfera di tenerezza e di commozione, se pur meno evidente e più modesta di tono. Intorno a queste tre storie di più ampio e seguitato sviluppo molte altre se ne svolgono, che nel complesso del quadro serbano una funzione secondaria ed episodica, e pur son trattate con la stessa amorosa precisione e finitezza delle principali: come la pietosa e drammatica avventura di Olimpia, il gentile amore di Fiordiligi e Brandimarte, l’eroica devozione di Medoro e Cloridano, la tragica vicenda di Zerbino e Isabella, gli scenari meravigliosi e incantati dell’isola di Alcina e del castello d’Atlante, e tante altre favole e invenzioni minori, sulle quali non gioverebbe insistere, in un minuto e fastidioso elenco. L’unità in tanta varietà tematica, è assicurata soprattutto dalla presenza costante di un’accorta regia, che armonizza i contenuti e i toni, diversi in un ritmo alterno, ma sempre controllato e obbediente a una profonda norma musicale: il poeta, che ha bisogno di “molte fila” per ordire la sua “gran tela” (XIII, 81), si comporta “come fa il buono Sonator sopra il suo instrumento arguto, Che spesso muta corda e varia suono, Ricercando ora il grave, ora l’acuto” (VIII, 29); ma appunto in quel “ricercare”, in quell’abile e pur spontaneo gioco di contrappunto tematico e tonale, egli attinge la misura naturale della sua poesia»[27].

Orlando è un cavaliere cristiano perdutamente innamorato della bellissima Angelica, che però è contesa anche dal cugino Rinaldo. La donna viene affidata da Re Carlo al Duca Namo di Baviera, con la promessa di darla in sposa a chi si dimostrerà più valoroso nello sconfiggere i mori. I cristiani vengono sconfitti, sono costretti a ritirarsi tra le mura di Parigi, e Angelica ne approfitta per fuggire: molti cavalieri di entrambi gli schieramenti la inseguono, tra cui Orlando, Rinaldo e Ferraù. La donna si libera dei contendenti grazie all’aiuto di un eremita, e decide di proseguire la fuga con l’intenzione di fare ritorno in Oriente. Dopo diverse traversie, Angelica si imbatte in un giovane fante saraceno ferito, il bellissimo Medoro: la ragazza si prende cura del giovane nella casa di un pastore, strappandolo alla morte. I due si innamorano, si sposano e scappano insieme. Prima però, incidono i loro nomi su un albero. Quando Orlando giunge nei luoghi in cui Angelica e Medoro avevano dato sfogo alla loro passione e suggellato il loro amore, viene travolto dalla follia: getta le armi, abbandona il cavallo, si spoglia delle vesti ed inizia a fare strage di chiunque e di qualunque cosa gli capiti a tiro. Lo sconforto porta il cavaliere ad errare senza meta per la Spagna e la Francia, attraversando a nuoto lo stretto di Gibilterra. Nel frattempo il guerriero Astolfo, che riesce a domare il cavallo alato ippogrifo, vola sulla Luna, che è una sorta di archivio in cui finisce tutto ciò che è stato perduto sulla Terra. Astolfo perciò vola lì per recuperare il senno di Orlando, trovandovi città scomparse, sospiri d’innamorati, il tempo perduto nel gioco e tant’altro. Vi ritrova anche, in un’ampolla, il senno perduto di Orlando. Dopo aver attraversato l’Africa e aver compiuto mirabili imprese, Astolfo fa odorare l’ampolla a Orlando, che torna in sé e rientra in combattimento. Nel frattempo, Angelica e il suo amato Medoro riescono a fuggire in Catai.

L’argomento bellico, tipico della tradizione del poema epico e cavalleresco, si interseca spesso con il motivo sentimentale, e da quest’ultimo viene in più occasioni condizionato, influenzando l’esito delle battaglie e dei duelli tra i cavalieri. Tutto comincia con l’invasione della Francia e l’assedio di Parigi da parte del re saraceno Agramante, che inizialmente sembra aver la meglio sull’esercito cristiano di Carlo Magno, anche grazie all’aiuto dei suoi alleati: il grande guerriero Rodomonte, Marsilio, re di Spagna, e Manfricardo, re tartaro. I due paladini più importanti dello schieramento cristiano, Orlando e Rinaldo, si perdono infatti (come s’è detto) dietro alla bellissima Angelica, e gli infedeli possono così penetrare a Parigi. Rinaldo, che nel frattempo ritorna all’accampamento, viene mandato da re Carlo in Inghilterra a chiedere soccorsi. Durante il suo viaggio salva Ginevra, figlia del re di Scozia, ed ottiene quindi l’aiuto desiderato nella guerra contro i saraceni. A Parigi, intanto, i saraceni iniziano l’assedio della città. Re Carlo è privo dei suoi più valorosi cavalieri e fatica a difendersi. Rodomonte penetra nelle mura e fa strage di cristiani. Arrivano appena in tempo gli aiuti portati da Rinaldo; la sconfitta viene evitata e sono ora i saraceni a doversi ritirare e a rifugiarsi nella città di Arles. Astolfo si dirige in Etiopia, dove in precedenza aveva aiutato il re Senapo a liberarsi dalle Arpie, e seguendo le indicazioni ricevute da San Giovanni, conduce l’esercito etiope per tutta l’Africa muovendo guerra ai pagani rimasti in patria. Lo scontro è impari ed in breve i saraceni sono costretti a rifugiarsi nella città di Biserta, ma l’assalto alla città si risolve con una facile vittoria dell’esercito cristiano. Agramante, Gradasso e Sobrino, in fuga dalla Francia, a seguito di una tempesta, si ritrovano sull’isola di Lampedusa.  I tre re saraceni decidono di affidare le sorti della guerra ad un duello: loro tre contro Orlando, Oliviero e Brandimarte. Nello scontro, Brandimarte viene ucciso da re Gradasso. Orlando, adirato per la perdita dell’amico, sbaraglia i nemici: uccide Re Agramante e Re Gradasso, ma risparmia Re Sobrino, che ha riportato gravi ferite, assicurando la vittoria a Re Carlo Magno.

Il terzo tema narrativo, cioè quello encomiastico, riguarda Ruggero, guerriero saraceno, e Bradamante, sorella di Rinaldo. I due, che si amano ma che sono continuamente divisi dal susseguirsi degli eventi e delle battaglie, sono presentati come i capostipiti della famiglia d’Este, che in tal modo, per via di Ruggero, discenderebbe addirittura dalla stirpe troiana di Ettore. L’amore tra i due è innanzitutto ostacolato dal mago Atlante, che vuole evitare le nozze tra i due perché sa, in seguito ad una profezia, che Ruggiero è destinato a morire se si convertirà alla fede cristiana e sposerà Bradamante. Il guerriero viene quindi imprigionato in un castello incantato creato appositamente dal mago. Bradamante, che è alla ricerca di Ruggero, viene a sapere da un cavaliere sconosciuto (ch’è in realtà Pinabello dei Maganza, suo acerrimo nemico) che l’amato è prigioniero del mago Atlante. Pinabello, però, la fa cadere con l’inganno in una grotta: la tomba di Merlino. Bradamante si salva ed incontra la maga Melissa che le dà le istruzioni per salvare l’amato. Dopo aver rubato un anello magico, in grado di rendere invisibili ed annullare ogni magia, Bradamante sconfigge Atlante e libera Ruggero, che viene però subito dopo rapito dal cavallo alato Ippogrifo (comandato da Atlante) e portato sull’isola di Alcina. Sull’isola Ruggiero incontra Astolfo, trasformato in una pianta di mirto dalla crudele maga, che si libera in tal modo degli amanti che le vengono a noia. Nonostante gli avvertimenti del cavaliere cristiano, il cavaliere saraceno cade nella trappola di Alcina, che lo seduce con le sue arti di strega, e se ne innamora, trascorrendo il tempo in leggerezze amorose e dimenticando quindi i suoi doveri. Ma a tal punto giunge sull’isola la maga Melissa che, prese le sembianze del mago Atlante, mostra a Ruggiero le reali sembianze di Alcina (la quale non è una giovane leggiadra ma una vecchia) e lo convince a fuggire. Il guerriero saraceno libera Astolfo e insieme si rifugiano nella parte dell’isola di proprietà della maga buona Logistilla: da qui il primo fa ritorno in Europa per mare, mentre il secondo riparte in sella all’Ippogrifo. Dopo alterne vicende, Ruggero, Bradamante ed Astolfo finiscono nuovamente prigionieri del mago Atlante; ma Astolfo, grazie al suo corno magico, riesce ad annullare l’incantesimo del mago e a liberare se stesso e gli altri. Ruggiero può così recarsi con Bradamante in Vallombrosa per convertirsi e sposare l’amata, ma il tutto è ulteriormente rimandato dalla guerra con i saraceni. Conclusa la guerra, si scopre che Bradamante è già stata promessa in sposa dal padre Amone a Leone, figlio di Costantino ed erede dell’Impero romano d’Oriente. Ruggero parte quindi per la Bulgaria con l’intenzione di uccidere il suo avversario in amore. Leone e Ruggiero, però, divengono grandi amici e dopo diverse vicissitudini il figlio dell’Imperatore accetta di rinunciare a Bradamante a favore dell’amico. Il matrimonio tra Ruggiero e Bradamante può essere così finalmente celebrato. Ma, durante i festeggiamenti, fa irruzione al banchetto nuziale Rodomonte, che accusa il novello sposo d’aver rinnegato la sua fede e lo sfida a duello. Il combattimento si trasforma ben presto in una lotta corpo a corpo, ma il capostipite della dinastia degli Estensi, riesce infine ad immobilizzare Rodomonte e ad ucciderlo con un pugnale.

II mondo cavalleresco

La materia che l’Ariosto pone a base della sua rappresentazione poetica è quella direttamente fornitagli dalla civiltà cavalleresca: un regno di belle donne e di cavalieri erranti, di romanzesche avventure e di fantastiche imprese, che una tradizione secolare aveva ampiamente elaborato e reso familiare sia sul versante dei cantori popolareschi, sia su quello letterario di più impegnati scrittori quali il Pulci e il Boiardo: civiltà ormai lontana nel tempo e perciò entrata nella leggenda e nel mito, ma che sopravviveva nel gusto della società cortigiana del Cinquecento come residuo di fantasie eleganti ed eroiche, divenute oggetto di idealizzazioni e di platonici vagheggiamenti. Si tratta però di un complesso di immaginazioni che nell’Ariosto è permeato e arricchito dagli elementi spirituali di quella civiltà umanistica che il Rinascimento dei primi decenni del secolo aveva ormai portato al suo culmine di compiutezza: sentimento della vita come libera affermazione dell’individuo, come apertura e disponibilità ad osservare con uguale interesse tutte le forme della natura e della realtà umana; sforzo di equilibrare le tensioni dell’animo in uno spontaneo e superiore dominio facendole coincidere con le intenzioni di una lucida coscienza che si impone nella precarietà degli eventi; aspirazione a un’ideale armonia, complessa e dinamica, di stati d’animo e di comportamenti esteriori.

L’angolo visuale da cui Ariosto contempla questa civiltà ultrasecolare non è né quello di una totale adesione, né di una rievocazione nostalgica, e non è neppure distaccata ironia per un medioevo romanzo ormai superato, bensì sorge come fondamentale simpatia per un mondo immaginativo che gli offre una gamma vastissima di situazioni sentimentali, di variazioni fantastiche sempre libere e imprevedibili nella continua possibilità compositiva e scompositiva che lo sterminato materiale tematico connesso a tale letteratura consente alla capacità creativa dell’autore.

Diviene così possibile per Ariosto far emergere in maniera esemplare quelle componenti della psicologia e del comportamento che sono alla base della originaria vitalità umana: l’atteggiamento maschile della forza, della lotta, della violenza, l’ansia della conquista amorosa e guerriera, il senso dell’eroico e del gigantesco e quegli elementi invece più specificatamente connessi alla femminilità, quali il sentimento della grazia e della bellezza, della trepidazione e della timidezza sfuggente (ma difesa da una decisa sicurezza istintuale e sensuale), della passione amorosa delicata e tenace, che può andare dai toni della fragile tenerezza fino alle punte più accese della sensualità maliosa e ardente. Tutti questi stati d’animo l’autore rappresenta e coordina in una mescolanza quanto mai complessa di sfumature, realizzando, con la sua creazione poetica, una sorta di ideale summa, che costituisce quasi l’universale atlante geografico del cuore umano, riscoperto alla luce della nuova sensibilità rinascimentale: aperta e spregiudicata, amante delle manifestazioni concrete della realtà così come dei sogni e delle fantasticherie, libera da preoccupazioni metafisiche e velleità moraleggianti. Elementi poetici, ideali e sentimentali che, almeno in parte, erano presenti anche nell’opera del Boiardo, ma che da istintualità ancora grezza e da visione frammentaria si sono ora innalzati a indice esponenziale di una scelta matura, consapevole, irrefutabile.

Varietà fantastica, storia ed ironia nel mondo dell’Ariosto

Già l’ironia stessa, che è uno dei grandi toni lirici dell’Orlando Furioso, sembra essere sin dall’inizio una sorta di stratagemma storico dell’autore per aprirsi un possibile spazio vitale come artefice creatore, come ideologo di un’estetica autentica all’interno di quella società cortigiana del Cinquecento che amava le fantasticherie del Boiardo assegnando alla libertà della fantasia una semplice prerogativa di pura evasione e consolazione; ed è perciò il primo atto di consapevole ribellione dell’Ariosto nei confronti di quella funzione sociale che gli era imposta dalle esigenze del poema di corte. Un’ironia che sembra raggiungere le sue più immediate punte socialmente eversive proprio nel tema della pazzia di Orlando, che è perdita della razionalità, ma in una direzione ben precisa, cioè violenza fisica e materializzata, distruzione selvaggia di quella bella natura tanto cara alla retorica rinascimentale, e, soprattutto, annullamento di quel senso del comportamento, del rapporto, delle relazioni interindividuali, in cui si rifletteva un aspetto tipico dell’esteriorità sociale cinquecentesca: l’idealità borghese che voleva sublimarsi in aristocratica raffinatezza di gesti, di atteggiamenti, di formale armonia interumana. Ma è poi chiaro che queste implicazioni sociologiche sono trascese dall’autore verso una intenzionalità di significati ben altrimenti vasta. Perché nell’Ariosto la fantasia non è più semplicemente come nel Boiardo esigenza psicologica (o, se si preferisce, costrizione sociologica), bensì diviene assunzione ideologica, implicito rifiuto della contingente società storica e atteggiamento eversivo di liberazione; coincide con una superiore forma di razionalità, con l’ordine e l’essenza della vita universa; deve servire a offrire, come in una proiezione scenografica, il grande quadro archetipale del cosmo interiore, contrapposto in termini assoluti e antitetici a quelle che sono le più comuni ragioni della Storia e di una sua presunta moralità. Perciò una summa che, prescindendo dalle più immediate contingenze della razionalità storica, offra in sintesi, per rapidi diagrammi fantastici, il dinamismo immaginifico della vita dell’anima, la fenomenologia del comportamento psicologico dell’uomo, visualizzata in una globalità di esorcizzati fantasmi, contemplabili serenamente nella loro distensione molteplice, nella loro dialettica armonia di rapporti, nella loro unitarietà dinamica. L’ironia stessa, d’altronde, è sempre un modo di esorcizzare i fantasmi interiori per via alogica, mediante cioè l’immaginazione anziché attraverso una razionale presa di coscienza; implica un atteggiamento di distacco intellettuale che consente appunto alle inquietudini inconsce di affiorare alle soglie della coscienza e di distendersi in una pacificata sintesi con le ragioni dell’intelletto; in tal modo coscienza e inconscio trovano nell’ironia il loro asse di equilibrio intorno a cui ruotare in radicale armonia, mantenendo intatto il libero gioco dei rapporti e delle tensioni dinamiche, senza urti, senza scosse, senza contrasti: il famoso tono medio, insomma, dello stile ariostesco, che smorza le punte così della passione come dell’implicito intelletto operante, a cui è assegnata solo più una funzione di coordinazione generale degli infiniti temi fantastici e di ristrutturazione continua dei loro rapporti: e questa possibilità di sintesi in cui la razionalità si applica automaticamente per via fantastica è appunto quella sovrana fortuna che domina nell’Orlando Furioso reggendone tutta l’impalcatura.

Si comprende altresì per tal via il carattere realistico e fantastico dell’arte ariostesca (il cosiddetto naturale meraviglioso), perché l’elemento realistico, naturale, quotidiano, magari biografico e conversevole, o storico‑cortigiano, deve garantire le esigenze di quella razionalità che, se non si manifestasse (al di là della sua generale presenza coordinatrice) per qualche via più immediata e più facilmente percepibile alla coscienza (come rapporto diretto con quella vita di tutti i giorni in cui siamo immersi), consentirebbe ai fantasmi dell’immaginazione di prevaricare il loro piano, di spezzare il centro dell’equilibrio dinamico, e di ripresentarsi conseguentemente in una forma magari di nuovo minacciosa e inquietante, non più esorcizzata, distruggendo in tal modo le ragioni stesse di tutta l’implicita operazione estetico‑psicologica. Perciò l’interiore esigenza di tradurre in termini di visualizzazione il ritmo dinamico delle tensioni interiori disegnate sullo sfondo archetipico per offrirne come uno stampo completo agli occhi della coscienza, spiega il gusto di rappresentazione visiva, l’esigenza dell’inesauribile movimento narrativo, l’ininterrotta cangiante colorazione dei toni fantastici e psicologici all’interno di uno stesso personaggio o di una singola vicenda, il ritmo di avventurosa scoperta e, in ultima analisi, il senso attivo di creazione continua che è insito nel poema ariostesco: le vicende della guerra fra saraceni e cristiani, le avventure dei paladini, gli inseguimenti, le fughe, i ricongiungimenti, le apparizioni improvvise e miracolose, ora dolci e rasserenanti, ora fantastiche, sovrumane, mostruose; la psicologia piuttosto sommaria dei singoli personaggi, dove gioia e dolore, timore e speranza, amore e odio, sono scanditi in termini di azione e di movimento più che non scavati nell’intimo (proprio perché nessuno dei fantasmi interiori deve prevaricare); le novelle di amore, di sangue, di morte (che si intrecciano talvolta con la stessa trama generale dell’opera), ora proiettate sul piano del mito, ora intonate a un realismo quasi borghese (ma sempre trasvolato in toni di fantasia leggerissima); le descrizioni di paesaggio che sembrano riassorbire avventure e figure umane per subito riproiettarle di nuovo in avanti; gli orizzonti di una natura ora quieta e raccolta in concentrazione idillica, ora aperta e distesa su sconfinate visioni di spazialità geografica; il senso di una temporalità che travalica, pur nella sua naturalezza, i limiti del quotidiano; gli aspetti di una magia sorprendente realistica e allucinata, oppure limpida e spontanea come il più normale dei fatti, ora cangiante in caleidoscopiche figurazioni umane, o, ancora, soffusa di un’ironia e di una satira più scopertamente impegnata, o sfumata in toni di surrealismo: tutti questi elementi della salda struttura poetica ora si raggrumano come centri nodali della narrazione ora si dissolvono nel ritmo vertiginoso e pur calmo dell’opera, affinché tutte le categorie dell’anima possano emergere nella loro stringente e compatta unità dinamica. L’Ariosto vuole ricostruire, in una vasta summa, quell’ideale cosmo dell’anima, la cui legge è la libertà dinamica del comportamento umano e delle relazioni intercorrenti tra uomo e natura, dandone come una rappresentazione graficamente visibile, che renda percepibile alla coscienza tale legge stessa. Così, alla luce di questa razionalità riscoperta, diverrà possibile arginare quel sentimento del caos che nell’Ariosto, conformemente alla sua concezione antropomorfica, è timore di una radicale perdita di umanità, di un’incompletezza psichica, di una deviazione dalla razionalità istintiva della vita interiore, di una possibile frattura in quella legge del libero rapporto che è simbolo di unità e armonia nell’universale cosmo dell’anima umana.

Il sentimento amoroso

Se da una parte predomina questo senso dell’inesausto ritmo vitale che sospinge spontaneamente gli uomini a sfidare e vincere le irrazionali forze dei fantasmi interiori proiettati in visione oggettiva di mostri, altro elemento basilare di questo dinamismo delle forze umane è il sentimento dell’amore, che l’autore rappresenta sfaccettato in tutte le sue possibili ramificazioni e implicazioni. Domina nel Furioso un senso di libertà amorosa che sfiora le punte dell’anarchia erotica: nessun amore (di nessun tipo) è mai condannato, purché non pretenda tradursi di in possesso esclusivo o di imporsi con la violenza, ignorando il diritto di ognuno a scegliersi il compagno secondo le proprie interiori esigenze di libertà. Perché nel Furioso non è più lo stilnovistico «amor che a nullo amato amar perdona»: forza misteriosa dell’inconscio che si impone a tutti i costi, oscura e inebriante, idillica e tragica, e neppure (come nel Boccaccio) avventura epica da celebrarsi nelle forme dell’astuzia, della caparbietà, dell’intelligenza scaltrita, o della volontà eroica tesa con tutti i mezzi alla lotta e al possesso, sino magari al trionfo ideale nella morte e nel sacrificio, bensì un amore maturato alla luce delle conquiste dell’Umanesimo, e concepito perciò come tensione fantastica che l’uomo deve saper dominare razionalmente mediante la libera e spontanea scelta individuale e la matura consapevolezza della propria volontà decisionale nella raggiunta armonia di tutte le forze dell’anima; è aspirazione a un fermo ideale di equilibrio e serenità, che sottintende realismo di comportamento pratico nell’affrontare quelle oscure spinte dell’irrazionale che sono implicite nell’amore, arginandole istintivamente nella direzione di una pacificata armonia sentimentale che si realizza come automatica capacità di dominio interiore di fronte ai fantasmi dell’immaginazione.

Nell’Orlando Furioso l’amore è «inteso sempre in un modo schiettamente sensuale, come contemplazione voluttuosa e godimento della bellezza femminile, non turbato da morbose complicazioni, ignaro di tormenti e di crucci che non sian quelli naturalissimi che derivino dalla crudele ripulsa dell’amante o dalla gelosia, eppure non superficiale né gretto, e capace di variamente atteggiarsi e di assumere volti e movenze diverse, ora appassionato e denso di tragedia (come nella storia di Orlando e in quella di Isabella), ora tenero e patetico (in quelle di Olimpia e Fiordiligi), impetuoso in Rinaldo, gaiamente volubile e avido di piacere in Doralice»[28]. Per contro una curiosa ambivalenza nei confronti dell’idealità coniugale che intenzionalmente si pone come volontaristica celebrazione morale e patetica, come desiderabile culmine di un’autentica vita di equilibrio interiore, ma per altro verso rivela un inconscio atteggiamento negativo e ostile. Tali storie, infatti, che pur sono tra le più intimamente vissute dall’autore, o si concludono nella catastrofe (Isabella e Zerbino, Fiordiligi e Brandimarte) o si presentano come il frutto estremo di un’ardua e sofferta conquista (storie di Ginevra e di Olimpia, matrimonio di Bradamante e Ruggero, storia di Norandino e Lucina); comunque, la matrimonialità sembra comportare sempre un senso di annullamento o di tragedia: quando Angelica si sposa, scompare definitivamente dal poema, e Orlando, proprio per questo matrimonio, impazzisce; quando Ruggero e Bradamante realizzano il loro idillio coniugale, il poema è finito[29]. Tuttavia nel Furioso non si avverte frattura alcuna in questa duplicità di atteggiamenti, e ciò avviene perché la concezione amorosa dell’autore implica una sorta di principio morale unificatore (che poi altro non è che la legge intrinseca dell’amore stesso), vale a dire il riconoscimento dell’alterità, l’accettazione dell’amore come rapporto liberamente scelto: chi non si attiene a questa legge soccombe: è il caso limite, appunto, di Orlando, che, incapace di farsi una ragione di questo rapporto dualistico esplode nella pazzia; è la dannazione di Rodomonte, ignaro di altra legge che non sia quella della propria egoistica violenza sopraffattrice. È il destino di Angelica, orgogliosa e sprezzante, che sembra proiettare nel suo moto perenne di trepida fuga la ricerca di questo interiore destino di libertà, fino appunto a trovarlo nell’atto di innamorarsi dell’umile fante Medoro. Per contro la libera sensualità della novella di Fiammetta o le figure di Fiordispina e di Doralice costituiscono l’esatto rovescio di quel comportamento abnorme e delirante: nei due paladini la perdita della intelligenza come espressione di un’incapacità ad adeguarsi alla legge dell’amore, dell’alterità nel rapporto; in quegli altri casi la più limpida spregiudicatezza nel sapere accettare senza restrizioni le regole varie e mutevoli della libertà sensuale, il riconoscimento aperto dei propri e degli altrui diritti amorosi (magari anche di quelli ambigui).

La frequente difesa dei diritti di libertà della donna (come rifiuto della volontà impositiva degli uomini e della loro pretenziosità possessiva), così nei tanti episodi della vicenda narrativa, come negli interventi personali dell’autore (soprattutto ad apertura di ogni singolo canto), pervasi da un sorridente e spregiudicato moralismo; il prevalere, in genere, positivo delle figure femminili; le storie di tenace amore soffuse di tenerezza e pietà, e sboccianti nella delicata tragedia di Isabella per Zerbino, di Fiordiligi per Brandimarte, la storia di Olimpia, complicata sulla linea di un romanzesco eroico e drammatico, oppure quella di Ginevra in toni dolenti fra commedia e tragedia, o la determinazione eroica della vendicatrice Drusilla, fino ai toni bizzarri di una femminilità avventurosa e guerriera, ma estrosa e cordiale come quella di Marfisa, o, ancora, fino al carattere maternale dell’amore di Bradamante, sono tutti segni che indicano una simpatia dell’Ariosto per quella maggiore capacità femminile nel sapersi adeguare, di volta in volta, alla legge morale dell’interiore libertà amorosa, quasi implicando l’idealizzazione per una sorta di vagheggiabile civiltà femminile che esprima il senso di quella radicalità dell’Anima che è precipuamente femminilità, maternalità e matriarcalità; quell’anima, generatrice archetipica di positive forze psichiche, in cui si riassorbe il senso di una vita primigenia come felicità e pace, tenerezza e fraternalità, libertà e uguaglianza, armonia e bellezza, come assenza di stonature interiori e accettazione passiva di tutti i fenomeni naturali. Civiltà femminile di cui l’autore conosce e descrive tuttavia i possibili risvolti negativi: la frivolezza cattiva di Orrigille, la renitenza malvagia e assurda di Lidia, la crudeltà ostinata e rabbiosa di Gabrina, sino alla follia organizzata delle donne omicide, degradanti l’ideale virile delle armi e degli amori a puro meccanismo guerriero e a stallonesca funzione, come per una sorta di mitica e grottesca parodia (e il grottesco sembrerebbe essere proprio il modulo fantastico per eludere sul piano sentimentale questo risvolto negativo della femminilità).

Per contro un senso spesso di degradazione della civiltà maschile, un sorriso di scettica ironia di fronte al comportamento dell’uomo in generale, con la vanità delle sue inchieste amorose, con l’aspirazione spesso a un amore possessivo, colla litigiosità e futilità delle sue contese, con la ricerca avventurosa dei vani oggetti del suo orgoglio, simboleggiati negli emblemi del mondo cavalleresco (elmo, spada, corazza, scudo, cavallo); oppure affiorante nell’amore esclusivistico di molte figure di padri che minano alla base quel destino di amore e di libertà che è innato nella virtù cavalleresca dei figli: dalla malvagità angosciante di Marganorre alla crudeltà astuta di Cimosco, dagli influssi infausti del padre di Lidia a quello della fanciulla ingravidata dal dio Proteo, sino agli interventi del vecchio delirante patetico mago Atlante, che nega al meraviglioso la sua istanza di liberazione. Il sentimento maschile sfuma semmai nelle pieghe riposte delle tante storie che si ispirano a una sorta di amore fraterno come desiderio di reciproca bontà e giustizia, e che tocca il suo vertice lirico nella delicatezza eroica di Cloridano e Medoro, nella pietà di Zerbino per la giovanile bellezza di Medoro o che s’incentra nella filiale figura del giovanile e un po’ disincantato Ruggero, o che può anche raggiungere le punte di un dolore più virile e solenne in Orlando per la perdita dell’amico fraterno Brandimarte. Indubbiamente non manca un certo senso dell’eroico, ma è piuttosto oscuro fascino per una violenza barbarica, da intendersi nel suo risvolto negativo, come irrazionale sentimento di distruzione e morte: l’assalto di Rodomonte a Parigi, il furore annichilante di Orlando impazzito e lo stesso episodio epico del duello di Lipadusa sembra giustificarsi, in chiave di struttura poetica, per le possibilità che offre di scatenare intorno alla morte di Brandimarte il sentimento tragico della coniugalità infranta di Fiordiligi e della fraternalità spezzata di Orlando. Perciò i temi del litigio, della discordia, della follia, la visione spesso negativa del comportamento maschile, il tono ambiguo di illusorietà che si insinua tra realtà e magia riverberano un senso di futile e vana tragicommedia sulla guerra stessa e sulla sua ragione d’essere, degradandola talvolta quasi a infantilismo bizzoso e tragico. Questa disposizione mentale fa sì che Ariosto possa osservare anche le vicende più dolorose della guerra con uno sguardo di scettica e iperbolica ironia o con un atteggiamento di distacco dolente eppure olimpico, perché il suo dolore, il suo disappunto si disacerba nell’atto stesso della grande rappresentazione scenica e nell’intima serietà morale di una consapevolezza più vasta; perché tutte queste componenti negative dell’anima vengono eluse e risolte nella globalità dinamica dell’insieme, dove le forze dell’irrazionale si liberano nell’atto in cui pervengono alla realtà ultima della coscienza, evocate dalla fantasia dell’artista, che non le nega, non le reprime, ma riconosce la loro necessaria funzione dialettica, proclama apertamente la loro tragica compresenza, e appunto le esorcizza egli stesso nella sua esemplarità di artefice creatore e liberatore, che, come Astolfo, salverà gli uomini dal caos mentale e fantastico restituendo loro l’equilibrio del senno perduto, garantendo loro, mediante uno specchio dell’anima in cui limpidamente riflettersi, quell’istintualità radicale, che è amor vitae, che è completezza, totalità di rapporto col mondo e reinserimento nel suo dinamismo vitale: al di sopra di ogni esclusivismo di fantasmi interiori patito dai, singoli, al di là di un amore prevaricante, possessivo, distorto dalla sua essenza di razionale legge dell’universa vita e compresente nell’animo umano come ambivalente fantasma, reversibile nei termini opposti di violenza e di male, di delirio e follia.

Il meraviglioso

Questo atteggiamento di superiorità del sovrano artista dominatore che persegue un facile ideale di trionfo del bene sul male secondo una linea di vendetta e giustizia, ricacciando nei recessi infernali le perversioni sacrileghe dell’anima per disporsi a una visione di gioia, di armonia, di bellezza e inseguendo in tal modo un’idealità diversa e antitetica da quella che sembra essere la tragica realtà storica, non è disumanità di chi guarda sprezzante «questo ch’abitiam noi fetido mondo» (sino magari a sfiorare i toni dell’indifferenza, dello scetticismo, dell’ironia), né va frainteso nel senso di un moralismo bigotto, di un conformismo piccolo borghese, di una retorica estetizzante e convenzionale, perché alla base del Furioso vi è quel senso di intima consapevolezza che è proprio di chi sa di rappresentare una grande fiaba, e che comporta l’abbandono e anzi il rifiuto, delle più immediate contingenze sociali e storiche, e la scelta di un altro mondo, che al regno terreno si contrappone nella sua totalità primigenia: la visione originaria di quelle componenti psicologiche e archetipiche del cosmo interiore che trovano nella libertà e nella fantasia i loro basilari principi di coesione dinamica.

D’altronde la costruzione di un sopramondo fantastico in cui tali ideali di libertà, di giustizia, di bontà trionfano spontaneamente per intervento magico e miracoloso, implica che tutto ciò viene consapevolmente prospettato come una possibilità che non è di questo mondo e di questa società (maschile e patriarcale, potremmo aggiungere) così come essa è storicamente attuata con le sue ipocrite leggi, i suoi falsi rapporti, le sue inibizioni e restrizioni mentali, e comporta, ovviamente, sul piano della contemporaneità storica un senso di scettico e paradossale distacco. Neppure le frequenti digressioni di carattere storico-cortigianesco non hanno in realtà nessuna funzione storicizzante; non intendono radicare il poema fantastico nella concretezza della Storia, per conferirgli un eventuale carattere più vero e contemporaneo: sono l’espressione della corte che deve realizzare un’armonia psicologicamente e praticamente rassicurante di legami e rapporti, e agganciare le istanze biografiche dell’operazione artistica alla contemporaneità transeunte e alla storicità effimera di quella corte nel cui ambito il poeta prospetta le sue vagheggiate soluzioni ideologico‑estetiche. Costituiscono insomma l’aspetto esteriorizzato di quella interiore esigenza ariostesca che è stata indicata come la poetica del «cor sereno». Significativo, in tal senso, è il fatto che l’amore di Bradamante e Ruggero, legato in maniera esemplare all’idealità idillica del matrimonio, della coniugalità, coinvolga strettamente il motivo encomiastico e cortigianesco: quasi a esprimere l’inconscia tendenza dell’Ariosto al rapporto con la corte come plaga di riposante serenità familiare.

Perciò il meraviglioso, tono dominante del poema ariostesco, è la traduzione in termini di soprarealtà di questo sentimento numinoso di fronte alla folgorante scoperta di un mondo che travalicando il regno della più immediata contingenza storica attua l’ideale proposta di una civiltà astorica, mitica e idillica, intimamente retta dalle leggi della libertà e della fantasia fattesi automatismo vitale: mondo aperto a un’avventurosità inesausta, perché libero da qualsiasi gerarchia predeterminata non solo tra gli uomini stessi, ma addirittura tra uomini, natura, oggetti, eventi, e dove i rapporti scattano per germinazione spontanea regolati dalla Fortuna, vale a dire da quella razionalità fantastica che è la legge della libertà, e che coincide, sul piano della contemplazione, con la creatività dell’arte che sempre si rinnova; dove gli oggetti magici, divina prerogativa dei buoni, intervengono a sciogliere i centri nodali dell’intrico e a far scattare le ragioni dell’avventura, dissolvendo con la loro presenza oggettuale le avverse forze del male secondo una linea di razionalità morale che regge inavvertita le infinite trame del disegno cosmico dell’animo umano: i colpevoli e i reietti sono quelli che non rispettano la legge dell’alterità, come libertà inesauribile di sempre mutevoli rapporti dinamici.

Nascono in questo clima di un meraviglioso che è divenuto consapevole assunzione ideologica le grandi invenzioni della fantasia ariostesca: il mito del volo concretizzato nell’ippogrifo, come liberazione dai limiti e dalle restrizioni della fisicità, perciò scoperta e conquista, dominazione di fantasmi perennemente sgominabili in un ritmo d’avventura che non conosce ormai più ostacoli di spazio o di tempo. Il dinamismo mercuriale di Orrilo, simbolo di una tensione di movimento che è divenuta, al limite, presenza fisica e allucinante di una motilità fine a se stessa, perciò fantasma inquietante del caos e del male, perché prevaricante quella legge del rapporto alteritario che è consapevolezza del proprio relativismo e inserimento nel superiore ritmo del cosmo, non mai chiusura interna, dinamicità stravolta, abnorme e gratuita (come, sul versante psichico, nella pazzia di Orlando: tensione sentimentale, che, rotti gli argini del rapporto, diviene pura violenza fisica, entità psichica restituita allo stadio del caos preumano). La grande fiaba surrealistica del Silenzio che si è fatto obliosa e impalpabile scansione di movimento e premessa di ulteriore vortice narrativo; oppure la fiaba della Discordia: categoria psicologica innalzata a divinità del male, negativo principio di disgregazione in quella solidarietà umana che è insita nella legge morale dell’alterità. La fantasmagoria cangiante del castello del mago Atlante, dove uomini e donne inseguono i vani contorni della loro immaginazione: senso del rapporto che sfuma in un’atmosfera incerta fra realtà e sogno, ma altresì tensione, espressa in una sorta di labile dinamismo onirico, per una possibile frattura nella relazione che intercorre tra inconscia visione di desiderio e realizzazione oggettuale di tali speranze dell’anima. Il giardino di Alcina, idillico e favoloso paesaggio della libertà sensuale, ma al tempo stesso inquietante magia di metamorfosi. La grande fantasia satirica del vallone della Luna, dove i sogni e le vanità umane, le menzogne e le false prospettive dell’anima, le folli presunzioni di un’umanità perduta, le ambizioni tradotte in ipocrisia di comportamento, sono visualizzate in rapide e grottesche immagini; ombra speculare, ma in chiave di parodia fantastica, di quel sopramondo interiore che deve realizzarsi come armonia di umani rapporti e moralità di sempre liberi comportamenti, e nel quale soltanto è possibile per gli uomini riattingere il senso più vero delle loro colpe, dei loro errori, dei loro intendimenti inutili e assurdi, la realtà ultima di tutto ciò che è stato negato alla consapevolezza morale della coscienza; ma dove, soprattutto, è possibile ritrovare quel senso, quella razionalità primigenia che è legge di libertà interiore e molla del dinamismo vitale. Regno del meraviglioso di cui Astolfo è il supremo vertice lirico: la razionalità fantastica fatta personaggio, con la sua sovrana capacità sgominativa delle inquietanti forze avverse dell’immaginazione mediante gli elementi magici in una sorta di epica ascesi celeste; simbolo, soprattutto, dell’artista, del poeta, capace di abbandonarsi con incondizionata adesione a quel viaggio memorabile che è l’esplorazione dell’inconscia realtà dell’arte, della libertà fantastica creatrice di vita attinta alle origini, perciò regno del meraviglioso, perché mondo metastorico, risorsa onirica di possibilità archetipiche limpidamente visualizzabile agli occhi della coscienza mediante la forza evocativa della parola, che ricostruisce l’universo interiore e lo proietta sulla scenografia di un limpidissimo schermo; non più caos inquietante, delirio e follia, e neppure semplicemente chiusura nei limiti contingenti di una realtà storica che è rapporto raggelato, parzialità di possibili realizzazioni, negatività di tutto ciò che è trascendenza utopica dell’immaginazione. E questo, ripetiamo, non è disumanità di chi guarda con evasivo distacco o superba ironia la vicenda terrena dell’uomo, perché nell’Ariosto è consapevolezza che il sopramondo dei fantasmi archetipici è la grande prospettiva dell’arte che appunto l’autore del Furioso accetta sino ai suoi limiti estremi, senza compromissioni o contaminazioni pseudostoriche, senza velleità di incidere ideologicamente nella realtà mediante una prevaricazione di contenuti morali o ideali che non siano quelli inerenti alla specificità dell’arte, cioè la libertà e la fantasia come principi etici, a tradurre, nella visualizzazione artistica, quasi un macroscopico specchio dell’anima in cui l’uomo possa vedere gli orizzonti cosmici della sua umanità al di là degli stretti confini delle sue contingenti perdizioni storiche.

I Cinque Canti

Dell’Ariosto ci restano anche alcuni “spezzoni” in ottave che probabilmente dovevano essere utilizzate per l’Orlando Furioso: la Storia d’Italia, lo Scudo della regina Elena, i Cinque Canti. Nulla di tutto questo venne utilizzato per l’ultima edizione del poema e pur tuttavia essi dimostrano, soprattutto i Cinque Canti, «che la poesia del Furioso non è il risultato di una coincidenza tra un’armonia psicologicamente prestabilita e una corrispondente espressione, di un’equità intellettuale e sentimentale che l’Ariosto riveste di belle forme; è la vittoria su tensioni, forze interne discordi, sollecitazioni etiche, religiose, ideologiche e anche stilistiche dissonanti che fermentavano nella coscienza del poeta e operavano dentro la stessa materia narrativa, quasi a insidiare il perfetto equilibrio compositivo dell’opera»[30].

I Cinque Canti furono riesumati dopo la morte dell’Ariosto e pubblicati per la prima volta – anche se in forma non completa – nel 1545, in appendice ad una edizione del Furioso. La data di composizione non è stata ancora determinata: il Dionisotti pensa che possa collocarsi tra il 1518 e il 1519, mentre il Segre ritiene che vada ascritta ad un’epoca più tarda, tra il 1521 e il 1528. Il punto in cui questo frammento doveva innestarsi al poema è al canto XL (ottava 45, dell’edizione del 1521) per introdurre il tema delle discordie in seno alla cristianità che nel poema era stato introdotto, ma sviluppato solo marginalmente.

Nei Cinque Canti, dunque, si acuiscono i toni foschi già accennati nel Furioso, con i diffusi riferimenti alle guerre d’Italia, e diviene centrale il motivo del tradimento operato da Gano di Maganza su istigazione della maga Alcina. Il conflito si sposta dall’orizzonte esterno della guerra contro i saraceni alla dimensione interna dello scontro tra i popoli cristiani europei, e si apre il dubbio della sconfitta dell’autorità imperiale, rappresentata dalla rovinosa e comica caduta di Carlo Magno nel fiume, al canto V.

Ciò che distingue maggiormente il Furioso da questa sua continuazione incompleta, al di là di questi notevoli elementi tematici e narrativi, è però la prospettiva autoriale. Lo sguardo ironico dell’autore, capace di osservare, annodare e rinviare l’intreccio, rimane assente. E ugualmente, quella voce che interviene direttamente con commenti e valutazioni di portata più universale rimane silenziosa, lasciando che l’intreccio si muova secondo le trame cortigiane del traditore Maganzese. «Il tono è quello del canterino pensoso che si permette ancora qualche scherzo con il pubblico, ma è in sostanza preoccupato degli eventi che narra. Di qui l’uniformità dello stile, anche laddove l’Ariosto non sermoneggia, e la generale mancanza di ritmo narrativo in favore del rilievo descrittivo adibito prevalentemente a fini morali. L’influsso del Morgante ha la meglio sul supporto boiardesco, […] quasi a farsi continuatore anche dell’altro esemplare della letteratura cavalleresca recuperando anche la tradizione dimessamente municipale e devota del cantare carolingio. Nel corpo rigoglioso del poema i Cinque canti sono come un’escrescenza della realtà, dell’attualità storica e morale dell’autore, che intacca l’immaginazione. L’Ariosto non poteva conservarla senza snaturarne la libertà extratemporale del suo mondo poetico, quasi intonandone la palinodia. Per questo la rifiutò lasciando ai posteri la responsabilità di metterla in luce»[31].

Le Lettere

L’Ariosto ci ha lasciato ben duecentoquattordici lettere rimaste pressoché sconosciute sino alle scoperte del secondo Ottocento e alle successive sistemazioni editoriali. Scritte tra il 1509 e il 1532, dunque in un arco assai ampio della vita del poeta, e furono concepite per lo più come missive ufficiali indirizzate al duca Alfonso o ad altri membri del governo ducale; non essendo dunque destinate alla stampa, poiché hanno carattere occasionale (relazioni di incarichi, richieste, lettere di cortesia), esse sono scritte in uno stile semplice e piano, alieno da una vera elaborazione stilistica. Dei suoi fatti personali e dei suoi atteggiamenti interiori Ariosto nelle lettere non parla quasi mai; in qualcuna di esse vi sono notizie circa la composizione del Furioso, ma si tratta di informazioni del tutto esterne e legate alle pure esigenze sociali. Le più interessanti e vivaci sono quelle scritte durante il commissariato nella Garfagnana, nelle quali – mentre si lamenta del fatto che le sue decisioni come commissario vengano puntualmente sconfessate dalle decisioni di Alfonso, per cui la sua autorità viene minata e l’efficacia del suo governo della regione (infestata da banditi e criminali) è resa nulla, mettendo diplomaticamente in discussione l’operato del suo signore – il poeta mostra il suo temperamento di uomo cauto ed equilibrato, ma energico e deciso nel cercar di difendere la giustizia.

Vi sono poi anche lettere di carattere privato e colloquiale, indirizzate ai destinatari più diversi, specie ad amici e conoscenti di Ariosto, in cui lo scrittore mette spesso a nudo se stesso e usa molta autoironia: tra queste è interessante una missiva del 1513 all’amico Benedetto Fantino, cancelliere del cardinale Ippolito d’Este, in cui il poeta racconta il suo viaggio a Roma per rendere omaggio a papa Leone X da poco eletto pontefice, e la sua delusione nel non ricevere i grandi benefici promessi[32]. Notevole anche la lettera inviata allo stesso Leone X nel 1520 con cui gli manda il testo del Negromante, la commedia che si sarebbe dovuta rappresentare a Roma, e quella a Pietro Bembo del 1531 in cui gli raccomanda il figlio Virginio, giunto a Padova per studiare[33].

Completano l’epistolario anche varie lettere inviate al cardinale Ippolito negli anni 1509-1516, con osservazioni puntuali su dati socio‑economici della realtà e utili anche a conoscere aspetti vari della società rinascimentale in cui il poeta era perfettamente inserito, oltre a illuminarci in parte sui complessi rapporti che intercorrevano tra lui e il suo potente protettore con cui (1517) ruppe poi le relazioni.

Fama e fortuna dell’Ariosto

L’Orlando Furioso fu subito molto apprezzato, sia a livello popolare sia dagli uomini di cultura, in Italia come all’estero, perciò il suo autore ebbe durante la sua vita una fama assai ampia, consolidatasi attraverso i successivi rifacimenti del poema e la rappresentazione delle commedie, inferiori sul piano artistico ma molto apprezzate dal pubblico rinascimentale. Dopo la morte dell’Ariosto il successo del Furioso fu tale da oscurare del tutto l’Innamorato del Boiardo e da imporre la soluzione della lingua proposta da Bembo nelle Prose, che il poeta aveva di fatto applicato nell’ultima riscrittura dell’opera.

Ma ciò non accadde solo in Italia, anche all’estero l’Orlando Furioso riscosse enorme successo, soprattutto in Spagna, Francia e Inghilterra dove la lingua Italiana era maggiormente conosciuta.

La prima traduzione del Furioso in spagnolo è del 1549, ad opera del capitano Jeronimo Jiménez de Urrea (Épila, 1510 – Napoli, 1573). Non solo, perché il poema ariostesco venne imitato sia nei temi che nella metrica: il poeta Bernardo de Balbuena (Valdepeñas, 1561 – San Juan, ottobre 1627) scrisse Bernardo o La Vittoria di Roncisvalle, un poema cavalleresco in ottava rima dove compaiono Orlando, Angelica e altri personaggi del Furioso; Miguel de Cervantes Saavedra (Alcalá de Henares, 1547 – Madrid, 1616) nel suo Don Chisciotte, affine al Furioso per il tema della pazzia, ricordò molte volte l’opera di Ariosto; e Félix Lope de Vega y Carpio (Madrid, 1562 – Madrid, 1635), nel 1586, scrisse il poema epico La bellezza di Angelica.

In Francia, nel 1554, l’umanista Jean Martin tradussee in prosa il Furioso; l’anno successivo Jean Fornier de Montauban pubblicò la traduzione in versi dei primi 15 canti e nel 1582, a Lione, Gabriel Chappuys (1546 – 1613) fa uscire l’opera completa. La diffusione e il successo del poema di Ariosto furono straordinari: fra gli ammiratori più entusiasti il poeta Pierre de Ronsard (Couture-sur-Loir, 1524 – Prieuré de Saint-Cosme, 1585), lo scrittore Jean de La Fontaine (Château-Thierry, 1621 – Parigi, 1695), che ne riscrisse molti episodi, e il filosofo Voltaire (Parigi, 1694 – Parigi, 1778) che nel suo Dizionario, affermò: «L’Orlando Furioso è insieme l’Iliade, l’Odissea e il Don Chisciotte!».

In Inghilterra, nel 1591 a Londra uscì la prima versione inglese in ottava rima, ad opera del poeta John Harrington (1561 – 1612) che nella premessa paragonò il poema dell’Ariosto all’Eneide e ne mise in luce gli insegnamenti morali; anche il poeta Edmund Spenser (Londra, 1552 – Londra, 1599), nella sua opera più famosa, il poema allegorico La regina delle fate (1590), prese a modello per i suoi personaggi alcune figure del Furioso. Nei secoli seguenti il poema ariostesco venne imitato e adattato per rappresentazioni teatrali; ma il periodo di massima fortuna lo ebbe nell’Ottocento, quando Walter Scott (Edimburgo, 1771 – Abbotsford House, 1832) disse di aver tratto ispirazione dal Furioso per le narrazioni intrecciate che caratterizzano il suo Ivanhoe.

Tornando all’Italia, nel secondo Cinquecento il poema fu il modello indiscutibile del genere epico-cavalleresco che conobbe un grande rilancio nella letteratura italiana e solo la pubblicazione della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, sia pure avvenuta in circostanze travagliate, rinnovò in parte i canoni del poema, peraltro sulla scorta delle molte discussioni che sul poema eroico stavano nascendo specie negli ambienti vicini all’aristotelismo. Nacquero di qui, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, ulteriori polemiche e diatribe tra gli intellettuali su quale fosse il modello migliore di poema cui rifarsi e molti si divisero nella preferenza da accordare all’Ariosto o al Tasso: la querelle fu iniziata, ancora vivente il Tasso, dal poeta Camillo Pellegrino (Capua, 1527 – Capua, 1603) che in un trattato del 1584 (Il Carrafa o vero Della epica poesia) accusava Ariosto di aver tradito i principi dell’aristotelismo, cui risposero Leonardo Salviati e altri intellettuali dell’Accademia della Crusca difendendo il poeta emiliano soprattutto sul piano linguistico e stilistico; alla discussione prese poi parte anche lo scienziato e scrittore Galileo Galilei, che nelle sue Postille all’Orlando Furioso e nelle Considerazioni al Tasso si schierò decisamente a favore di Ariosto, dimostrando una conoscenza delle opere tutt’altro che superficiale. In età barocca il genere epico andò perdendo di interesse e finì per scomparire quasi del tutto, portando con sé le polemiche letterarie del secolo precedente, mentre anche il culto ariostesco iniziò un lento declino per poi riaffiorare in pieno Ottocento, quando critici e studiosi tornarono a occuparsi dell’opera dell’autore con maggiore coscienza critica. Da quel momento in poi il poema dell’Ariosto avrà sempre grande successo e sarà oggetto di interesse non solo per gran parte della critica letteraria[34], ma anche per scrittori e poeti: basti ricordare – a tale proposito – che Italo Calvino dedicò al poema una sua personale riscrittura in prosa e che e che Edoardo Sanguineti ne scrisse una riduzione teatrale, poi messa in scena dal regista Luca Ronconi.

***NOTE***

[1] Ippolito d’Este (Ferrara, 20 marzo 1479 – Ferrara, 3 settembre 1520) era figlio di Ercole I d’Este, e della principessa Eleonora d’Aragona. Immediatamente avviato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica, nel 1485, a sei anni di età, era già affidatario di un’abbazia, e nel 1487 venne nominato arcivescovo di Strigonio e quindi primate d’Ungheria, sebbene Papa Innocenzo VIII non volle confermare la sua consacrazione fino al compimento del diciottesimo anno di età. Nel 1497 prese possesso dell’arcidiocesi di Milano e l’8 gennaio del 1498 ricevette la berretta cardinalizia. Durante la guerra tra il Papa e Venezia contro la famiglia estense, si comportò in maniera egregia spalleggiando il fratello Alfonso I. Il 22 dicembre 1509, alla guida della famosa artiglieria ferrarese, affondò nel Po la flotta della Repubblica di Venezia nella battaglia di Polesella (1509) e bloccò l’avanzata delle armate della Serenissima, che erano giunte a minacciare la stessa Ferrara.

[2] Nella Satira VI, 237-40, scrisse appunto: « Non mi lasciò fermar molto in un luogo, / e di poeta cavallar mi feo: / vedi se per le balze e per le fosse / io potevo imparar greco o caldeo».

[3] A tale proposito l’Aristo scrive: «Ho passato la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile mascherato, l’occhio all’erta e il cuore in soprassalto»; e prosegue, non senza un pizzico di ironia: « Il cielo continua tuttavia molto obscuro, onde non metteremoci in via così subito per non aver ancora ad andar in maschera fuori di stagione».

[4] Leone X, al secolo Giovanni De Medici (Firenze 1475 – Roma 1521), era il secondogenito di Lorenzo il Magnifico. Venne creato cardinale a 13 anni da Innocenzo VIII. Durante la cacciata dei Medici da Firenze, viaggiò a lungo in Europa. Nel 1500 rientrò a Roma adoperandosi per restaurare il potere della famiglia a Firenze. Divenuto Papa (1513), condusse una costosa lotta contro il Ducato di Urbino (1516-1517) per rafforzare il potere papale nelle province. Nella guerra tra la Francia e l’Impero fu inizialmente alleato di Francesco I, con il quale siglò un concordato religioso (1516), ma in seguito secondò la politica imperiale di Carlo V, appoggiandolo nel corso delle guerre d’Italia. Poco attento ai problemi religiosi, non comprese la pericolosità della protesta di Lutero che scomunicò soltanto nel 1520.

[5] In merito a questo episodio l’Ariosto scrive: «Piegossi a me da la beata sede; /la mano e poi le gote ambe mi prese, / e il santo bacio in amendue mi diede», Satira III, 178-80.

[6] « Piccola, ma adatta a me, non soggetta ad alcuno, non miserabile, e tuttavia acquistata col mio denaro».

[7] Vedi pagine seguenti.

[8] Natalino Sapegno, Ariosto Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto_(Dizionario-Biografico)/

[9] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1981, pag. 37.

[10] Walter Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, in Opere complete di W.B., Vol. 7, Il Ponte Editore – Fondo Walter Binni, 2015, pag. 57-58

[11] Ibidem, pag. 64

[12] L’opera fu successivamente completata in modo diverso dal fratello Gabriele che scrisse La Scolastica e dal figlio Virginio che scrisse L’Imperfetta.

[13] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 405.

[14] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 408.

[15] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 408.

[16] Ibidem, pag. 408-409.

[17] Natalino Sapegno, Ariosto Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto_(Dizionario-Biografico)/

[18] Walter Binni, Ludovico Ariosto, in Opere complete di W.B., Vol. 7, Il Ponte Editore – Fondo Walter Binni, 2015, pag. 287-288.

[19] Walter Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, in Opere complete di W.B., Vol. 7, Il Ponte Editore – Fondo Walter Binni, 2015, pag. 74.

[20] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 398.

[21] Ibidem, pag. 399.

[22] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 408.

[23] Marco Cascitelli, L’«instabil dea» e la «gran follia»: Fortuna e delirio nell’Orlando furioso, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, 2015, pag. 18-19.

[24] Nel luglio del 1509 il Duca Alfonso d’Este, scrivendone al fratello, il cardinale Ippolito, la designava appunto come la “Gionta a lo Innamoramento de Orlando”

[25] In una lettera del luglio 1512 indirizzata al Marchese Gian Francesco Gonzaga, l’Ariosto scrive che sta “continuando la inventione del conte Matheo Maria Boiardo”.

[26] Natalino Sapegno, Ariosto Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto_(Dizionario-Biografico)/

[27] Natalino Sapegno, Ariosto Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto_(Dizionario-Biografico)/

[28] Natalino Sapegno, Ariosto Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto_(Dizionario-Biografico)/

[29] La celebre similitudine della rosa del canto primo esprime appunto l’idea che la donna può essere oggetto di desiderio e felicità sino a quando non perde – con il matrimonio, come appunto nel caso di Angelica – la sua verginità; e tale idea è alquanto bizzarra, se non altro perché contraddice le storie di libero amore che esistono nel poema.

[30] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 462.

[31] Nino Borsellino, Ludovico Ariosto, in Storia generale della Letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 465.

[32] Si veda a questo proposito la Satira III.

[33] Vedasi anche la Satira VI.

[34] Tra i primi Foscolo e De Sanctis, poi Croce, Binni, Caretti e Segre, solo per citarne alcuni.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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