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Marco M. G. Michelini | 6 Giugno 2019

Giovanni Morelli

Giovanni Morelli, appartenente a una antica e ricca famiglia guelfa di mercanti di lana, nacque a Firenze nel 1371 da Pagolo e Telda Quaratesi. Rimasto orfano a tre anni dovette soffrire di questa sua situazione, tanto da farne oggetto di una lunga trattazione nei Ricordi. Secondo le tradizioni familiari si iscrisse all’Arte della lana e ne ricavò onori e ricchezze: fu tintore, ma si occupò anche di commercio e di cambio di valuta. La sua carriera politica lo vide gonfaloniere dell’Arte della lana nel 1409, priore nel 1427 e gonfaloniere di giustizia nel 1441. Morì a Firenze, qualche anno più tardi, nel 1444.

Il suo libro, intitolato Ricordi, fu iniziato nel 1393 e giunge sino al 1411 (salvo una brevissima ripresa del 1421, che registra la morte del figlio Antoniotto). In pratica si tratta di un racconto, a carattere annalistico, che doveva servire esclusivamente alla famiglia Morelli e ai suoi discendenti, quasi una sorta di manuale pratico in base al quale procedere nella vita sociale e politica fiorentina anche in assenza del genitore. Nella prima parte dell’opera l’autore rievoca le figure dei Morelli a partire dal 1150 sino ai suoi giorni e quindi espone i danni a cui sono sottoposti gli orfani di padre. Nella seconda parte, invece, narra i fatti della politica fiorentina dal 1348 al 1411 (alternandoli ancora però con nuovi cenni sulla sua famiglia).

Come è stato osservato, la vita e l’opera del Morelli si svolsero in un periodo storico assai difficoltoso, delicato e complesso, che abbracciava la fine del Medioevo e l’inquieto ed immaturo inizio dell’Umanesimo. In quello stesso momento la vita politica della città di Firenze attraversava forse uno dei suoi momenti di maggiore drammaticità, giacché il libero comune andava ineluttabilmente spegnendosi sotto le spinte di restaurazione oligarchica, che fecero seguito alla rivolta dei Ciompi e che raggiunsero l’apice con l’affermazione al potere della famiglia Medici. Tutto ciò era il frutto di un radicale mutamento del sistema economico e della società fiorentina, per il quale alla rischiosa audacia dei grandi mercanti medievali si andava sostituendo l’oculata avvedutezza del “popolo grasso”, che a Firenze mirava alla supremazia politica per sfruttare a proprio favore le condizioni economiche interne, passando quindi dal momento di massima espansione commerciale – sia in Italia che in Europa – sotto l’egida delle Arti e delle Compagnie, ad un periodo di più cauta organizzazione capitalistica, seguendo le direttive dei “banchi”. E i Ricordi si svolgono appunto su questo sfondo tempestoso, ove si incontrano e si scontrano nostalgie grandiose, odi tenaci, slanci entusiastici, ambizioni spropositate, illusioni profetiche. In questa grande crisi politico‑economica il Morelli, uomo malinconico, utilitarista, ombroso, diffidente, sempre in allerta per possibili disgrazie, vagheggia un ideale equilibrio che assicuri la tranquillità economica alle famiglie dei bravi cittadini, le quali costituiscono la base e la solidità dello Stato. Tutto, insomma, deve convergere verso il tornaconto personale e della famiglia, anche e soprattutto la partecipazione alla vita politica. Per tale motivo dunque, Morelli – guelfo e fedele al comune fiorentino – che aderiva senza riserve al regime delle arti maggiori, non ebbe poi alcuna difficoltà ad accettare la signoria medicea.

«Gli studi che tra anni Settanta e inizio anni Ottanta del Novecento presentavano i Ricordi di Morelli quale documento per la storia della famiglia, della società e della politica fiorentina, oltre e forse prima che quale tassello della storia della letteratura italiana, andavano in un certo modo nella direzione indicata nel 1983 da Angelo Cicchetti e Raul Mordenti quando proposero nella Letteratura italiana Einaudi la categoria dei “libri di famiglia”, genere di scrittura tra il letterario e il documentario, aperto a più argomenti, forse primo fra tutti l’anagrafe familiare, con la fondamentale caratteristica di essere scritto almeno prevalentemente per la famiglia. I tratti distintivi del libro di famiglia fiorentino tra circa seconda metà del Trecento e metà Cinquecento […] sono quelli di un testo che presenti una esplicita o implicita autocoscienza familiare e che intenda trasmettere quell’autocoscienza, che si presenti cioè come uno strumento atto a favorire la prosecuzione delle fortune economiche, politiche e sociali della famiglia, che di questa registri la composizione e l’evoluzione, che fornisca informazioni sulle alleanze sociali in essere, sul patrimonio familiare, sugli antenati, sulle cariche pubbliche ricoperte dai membri passati e presenti , possibilmente sugli avvenimenti storico‑politici che hanno interessato e interessano la famiglia, e che infine detti o suggerisca norme seguendo le quali lo scopo per cui il libro viene composto (la trasmissione della autocoscienza familiare) possa essere raggiunto. Insomma il capofamiglia che si fa redattore del libro è un anello tra i suoi antenati e i suoi discendenti, che raccoglie le informazioni precedenti, le amplia attraverso la propria esperienza, trasmette il bagaglio aggiornato al fine di mantenere il benessere della famiglia»[1].

Giovanni Cavalcanti

Poche sono le notizie sulla vita di Giovanni Cavalcanti. Sappiamo che nacque nel 1381 da un ramo minore della celebre famiglia fiorentina, alla quale apparteneva il famoso poeta Guido, e che morì approssimativamente nel 1451. Sappiamo anche che nel 1422 fu capitano di Parte guelfa e che successivamente fu incarcerato alle Stinche a Firenze per non aver potuto pagare le enormi tasse impostegli dal Comune per far fronte alle spese della guerra contro i Visconti.

Durante il periodo della propria detenzione scrisse le Istorie fiorentine, con l’intento iniziale di narrare la storia della cacciata e del ritorno di Cosimo de’ Medici (1433-1434). In seguito, però, per meglio chiarire le ragioni delle discordie interne di Firenze, ampliò il racconto partendo dal 1420 e narrando le vicende della guerra tra Firenze e Filippo Maria Visconti fino al 1440. L’anno dopo l’uscita dal carcere scrisse una Seconda storia, che tratta gli anni tra il 1440 e il 1447 e nella quale si dimostra particolarmente ostile ai Medici, che, invece, nelle Istorie aveva osannato.

Il Cavalcanti, dotato di una cultura vasta ed eclettica e di una notevole intelligenza critica, come storico possiede un indubitabile vigore dovuto alla sua capacità di armonizzare il racconto degli fatti militari e politici sia con lo studio minuzioso delle congiunture economiche, che con l’ analisi delle relazioni che legano la politica interna a alla politica estera. E in ciò, molto spesso, riesce persino a superare il Machiavelli, che si avvalse delle opere del Cavalcanti per acquisire una migliore conoscenza della politica interna di Firenze.

La lingua del Cavalcanti, attinta in parte dal Boccaccio minore, non senza un forte influsso dantesco, è, pur con le sue frequenti imperfezioni grammaticali e sintattiche, un esempio di volgare tanto più interessante se si considera l’epoca storica in cui le opere furono scritte. Il linguaggio è colorito,vivace e sempre appassio­nato.

Gentile Sermini

Non abbiamo pressoché notizie sulla vita di questo scrittore senese a. Da una delle sua no­vella (XII) sappiamo che per sfuggire alla peste del 1424 se ne andò per qualche tempo in montagna, dove scrisse dei racconti che, una volta ritornato  a Siena, riunì in una raccolta. Il riferimento alla peste, tuttavia, potrebbe anche essere soltanto una artificio tratto dal celebre esempio del Decameron. Ad ogni modo ciò che a noi rimane è un libretto di quaranta novelle, alle quali sono mescolate senza ordine alcuno rime di varia natura e una curiosissima descrizione del «giuoco delle pugna», cioè un gioco popolare che consisteva nel prendersi scherzosamente a pugni.

La tematica narrativa del Sermini è piuttosto ristretta; nelle novelle egli parla di amori sguaiati e licenziosi, di inganni e beffe, anche se talora spassose, di frati corrotti, di contadini imbroglioni. La sua concezione della vita perciò è piuttosto dozzinale e triviale. Il suo intento nel narrare è solo e soltanto quello di divertire, ed anche in quei  racconti che vorrebbero essere di più ampio respiro gli fa difetto la ponderazione e il senso della misura. Tuttavia questo “dilettante” della narrativa riesce sovente a stupirci con la genialità e la capacità non comune di riuscire ad utilizzare la parlata senese, per delineare con arguzia e spigliatezza le situazioni comiche di quel suo mondo rozzo e plebeo. Infatti Sermini tende per lo più a costruire una “sceneggiatura” di voci, come si può esemplarmente evincere dalla descrizione del «giuoco delle pugna».

Ma questo uso della parlata senese, questo suo linguaggio immediato e diretto sono stati, altresì, motivo della scarsa fortuna del Sermini presso la critica letteraria, tanto che la sua raccolta di novelle fu duramente criticata da Giulio Reichenbach con le seguenti parole: « Le novelle del Sermini appariscono troppo spesso il frutto di un’arte stracca e monotona, la quale batte e ribatte su pochi temi preferiti, e sono poi bruttate da un’estrema licenziosità. Pochi debiti ha il Sermini verso i suoi predecessori; ma atteggia la sua materia scipitamente, sì che i suoi tipi sono uniformi, disegnati con mano rozza e pesante. Si può dire che il maggiore interesse dell’opera sia linguistico»[2].

Il Burchiello

Domenico di Giovanni, meglio noto come il Burchiello[3] (Firenze, 1404 – Roma, 1449), nacque da povera famiglia: padre Giovanni era legnaiolo mentre la madre Antonia era filatrice. In via Calimala a Firenze esercitò l’attività di barbiere, tuttavia, essendo fautore degli Albizzi, rivali dei Medici, dovette abbandonare la città quando prevalse Cosimo il Vecchio. Si recò allora a Siena, dove non solo visse miseramente, ma fu anche più volte condannato e messo in prigione (1439), per non aver potuto saldare tre pene pecuniarie, di cui una per furto e le altre per questioni d’amore o rivalità di mestiere. Nel 1445 si recò infine a Roma per aprire una nuova bottega di barbiere e nella Città Eterna trascorse gli ultimi anni di vita fra malattie e miseria. Ci restano di lui circa duecento poesie, perlopiù nella forma di sonetti caudati[4].

Il Burchiello aveva costituito nella sua bottega di via Calimala a Firenze un vero e proprio ritrovo di letterati e artisti, tra i quali lo stesso Alberti, e questi “dotti” amici non disdegnavano di ascoltare e di interessarsi alle bizzarre sperimentazioni poetiche di questo geniale barbiere. Si tratta di un genere basso di poesia, che, pur riallacciandosi alla tradizione comico-realistica di un Angiolieri o di un Rustico Filippi, se ne distacca al tempo stesso, perché, conducendo alle estreme conseguenze il gusto della parola comicamente aggressiva e dell’immagine stravolta, assurda, eversoria, perviene a un originalissimo livello espressivo, attraverso un continuo gioco di sorprese verbali e fantastiche. Tale genere poetico, che prenderà addirittura il nome di rime alla burchia – ovvero a caso oppure alla rinfusa, se non piuttosto per attinenza alle rime del nostro barbiere – ha i suoi precedenti nel Sacchetti e in un certo Orcagna pittore[5], e diventerà, sempre più, una vera e propria moda letteraria perdurante sino al Cinquecento e oltre nella poesia del Berni e dei berneschi. «In alcuni dei suoi sonetti il Burchiello prende argomento dalle traversie della triste sua vita per scherzare allegramente spesso sguaiatamente; in altri satireggia uomini oscuri e personaggi famosi o almeno di qualche nominanza, pronti gli uni e gli altri a pagare di ugual moneta il maledico barbiere. Tutte queste rime a noi riescono spesso oscure per i difficili doppî sensi e le recondite allusioni; ma i contemporanei dovevano intenderle e gustarle senza sforzo, mentre certamente indecifrabili anche a loro e all’autore stesso erano altri bizzarri sonetti tutti intessuti di riboboli senza nesso, di ghiribizzi senza senso, di slatinature fuor di proposito»[6].

Infatti, questa poesia ha un carattere di sperimentazione tecnica, in primo luogo sul piano dei contenuti, poicé qui si attinge dovunque, in un gioco inesauribile di accostamenti e rimescolamenti che raggiungono talora incredibili effetti allucinati e grotteschi: dagli aspetti più comuni della vita quotidiana alle citazioni mitologiche (magari inventate di sana pianta o comicamente deformate), dal formulario religioso, messo in allegra caricatura, ai riferimenti storici (anche questi, per lo più, con assurde contaminazioni di spazio e di tempo), dal mondo degli animali alla geografia della Toscana o alla fisiologia corporale, dalle metafore della golosità allo sberleffo della letteratura stilnovistica e pedantesca; il tutto sempre in un gioco di echi, rimandi, ammiccamenti, allusioni, dove riesce difficile distinguere il valore realistico di un termine dal suo tono di trascendimento fantastico, il significato serioso di un’immagine dalla sua implicazione canzonatoria e beffarda. A ciò contribuisce pure l’andamento stesso di queste poesie, che è, per lo più, quasi ragionativo, esplicativo, interpretativo: ma tutte quelle frasi dichiarative, causali, consecutive, avversative, ipotetiche, modali, temporali che si dispongono in bell’ordine e fingono di collegare le bizzarrie più astruse in una rigorosa concatenazione logica, altro non sono che un espediente caricaturale, una sorta di indovinato artificio retorico per snocciolare la serie inesauribile delle strampalerie e renderle più irruenti e mordaci, più sorprendenti e più sbalorditive a contatto con quell’apparente perbenismo logico e ragionativo; e sono altresì, al tempo stesso, un modo e un tentativo di razionalizzare l’accozzaglia caotica di quelle assurde immagini in totale libertà e anarchia.

Questo particolare aspetto della poesia del Burchiello, «con i suoi bizzarri accostamenti e l’evidente (anzi esibita) estraneità a qualsiasi sviluppo logico o narrativo, è stata spesso messa in relazione con le più recenti forme del nonsense otto-novecentesco, con le quali condivide alcune strategie espressive, quali ripetizioni, inversioni e varie forme di incongruenza semantica. In effetti, questi due linguaggi poetici sembrano basati su una comune trasgressione di base: collegare in maniera conforme al discorso tradizionale elementi del tutto irrelati o incongruenti rispetto alla materia verbale e agli operatori logici impiegati. Il fatto che la letteratura del nonsense propriamente detta abbia una tradizione recente e prevalentemente inglese non fa altro che rendere più curiosa la convergenza»[7].

È perciò arduo, e talora rischioso, voler dare un significato esplicativo troppo realisticamente preciso a queste poesie: bisogna accettarle per la pura forza semantica delle parole in se stesse, per quel loro gioco gratuito di iperboli pazze, per la perentorietà di quei ritmi fantastici, per la fertile vivacità grottesca che nasce da quei frammenti visti nel loro complesso.

In questo squillante teatro di marionette in azione, le parole e le immagini scandiscono il loro suono di fanfara carnevalesca, come in una sorta di allucinante sfilata: le cose, gli oggetti, le situazioni improvvisamente si animano, parlano, agiscono, per assumere la cultura e la vita a bersaglio di un’allegra e beffarda dissacrazione: più ancora che balenanti rivelazioni di un possibile mondo in rivolta, simboli e mimi grotteschi di un vitale istinto della parola senza più freni e inibizioni. Ma qui sta appunto il limite del Burchiello: questo mondo vive solo per guizzi, frammenti, squarci improvvisi; tutto rimane a livello un po’ grezzo di istinto: mancava al poeta un consapevole centro unificatore, un sostrato intellettuale e morale che desse alla sua rivoluzione fantastica un significato umano o polemico autentico, una vis comica innovatrice, una vitale pregnanza storica e culturale.

Ambrogio Traversari

Ambrogio Traversari, detto anche Ambrogio Camaldolese, nacque a Portico di Romagna nel 1386 ed entrò a quattordici anni nell’ordine dei camaldolesi presso il convento fiorentino di Santa Maria degli Angeli. Allievo di Emanuele Crisolora divenne ben presto, grazie ai suoi studi, un famoso teologo ed ellenista. Divenuto generale dell’ordine (1431), gli fu affidata la guida della congregazione per il diritto canonico. In tale ruolo fu strenuo difensore del papato, in special modo al Concilio di Basilea, al quale partecipò come legato di Papa Eugenio IV. Continuò a sostenere il Papa anche quando il concilio venne spostato a Ferrara, mostrandosi assolutamente ostile ai prelati rimasti a Basilea, che egli giunse a definire una moderna Babilonia. La sua principale preoccupazione era la riconciliazione tra cattolici ed ortodossi, tanto che, con il Bessarione, redasse il decreto detto di Firenze e Ferrara che avrebbe dovuto porre fine allo scisma. Come teologo, scrisse trattati sull’Eucaristia e sulla processione dello Spirito Santo, Vite di santi, una cronaca di Montecassino e l’Hodoeporicon, racconto delle vicende del suo generalato tra il 1431 e il 1435, e quadro fedele delle condizioni degli ordini religiosi nella sua epoca. Dedicò anche grandissima attenzione alla questione dei diritti giurisdizionali dell’abbazia di Sansepolcro, mettendo in atto una vasta azione diplomatica finalizzata a riconoscerne l’esercizio; tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a conseguire tale obiettivo. La morte lo colse a Ferrara nel 1439.

Interessante esponente del nuovo umanesimo che si andava diffondendo all’interno della Chiesa, amico di Cosimo de’ Medici e di molti umanisti, quali Niccolò Niccoli[8], la sua cella a Santo Spirito divenne punto d’incontro degli ingegni più vivi del suo tempo, oltre che un centro per lo studio della patristica. Il Traversari, nel dibattito sullo studio e sulla valorizzazione della filosofia e della poesia pagana, avviato dal Salutati con il De Laboribus Herculis, di cui abbiamo già parlato, scese in campo e si distinse per la sua ferma posizione contro le ingannevoli seduzioni «della cultura classica e della poesia profana, cui egli esortava ad anteporre la poesia sacra ad anteporre la poesia sacra delle laudi (in volgare) e degli inni (in latino)»[9].

Ma oltre al l’Hodoeporicon e alle opere tologiche e religiose, il Traversari va ricordato anche per le sue traduzioni dei grandi teologi greci: Giovanni Crisostomo, Basilio Magno ed Efrem il Siro. Tradusse anche i quattro libri Adversus Græcos del teologo greco e frate domenicano Manuel Kalekas, opera che oggi conosciamo soltanto nella sua traduzione latina. Degno di nota è anche il suo vasto ed importante epistolario nel quale «il Traversari regista i dubbi e le esitazioni in cui lo aveva gettato la richiesta, a lui avanzata da Cosimo de’ Medici e dal Niccoli (amici che riteneva impossibile non accontentare) di volgare in latino le Vite dei filosofi  di Diogene Laerzio, vera e propria summa della sapienza pagana la cui traduzione gli richiese un decennio (dal 1424 al 1433)»[10].

Matteo Palmieri

Nato a Firenze il 13 gennaio 1406 da Marco, iscritto all’arte dei medici e speziali, e da Tommasa Sassolini. Dopo la morte del fratello maggiore Bartolomeo (1423) e quella del padre (1428) fu costretto dalle necessità familiari a lavorare nella bottega di speziale per mantenere una numerosa famiglia. Le strettezze economiche non gli impedirono, tuttavia, di essere uomo benefico e liberale, né di formarsi una solida cultura umanistica: studiò infatti tutte le opere latine note al suo tempo e conobbe il greco; ebbe come maestro di grammatica e retorica Giovanni Sozomeno, di retorica e poetica Carlo Marsuppini, nonché Ambrogio Traversari, di cui frequentò il dotto circolo, conoscendovi i migliori esponenti della cultura fiorentina. La sua vita si divise così tra l’attività di speziale, gli studi storico-letterari, e una brillante e multiforme carriera politica, tutta legata alla famiglia Medici, che lo portò a ricoprire cariche illustri, fino a divenire a quarantasette anni gonfaloniere di giustizia, dopo essere stato più volte ambasciatore presso il papa e presso i maggiori potentati d’Italia. Ammalatosi mentre era capitano a Volterra morì nel 1475. Le esequie si tennero alla presenza di Lorenzo de’ Medici nella chiesa di S. Pier Maggiore, e Alamanno Rinuccini[11], per incarico dello Stato, pronunciò l’orazione funebre.

Il Palmieri scrisse alcune opere di storiografia umanistica in latino, ma la sua maggior fama è affidata ai due componimenti in volgare: il trattato etico-politico Della vita civile e il poema in terzine La città di vita. Questa seconda opera, scritta nell’ultimo periodo della vita, è un poema allegorico in cento canti, di ispirazione dantesca e neoplatonica, in cui l’autore immagina di compiere un viaggio ai Campi Elisi; qui conosce la sorte di quegli angeli che, rimasti neutrali durante la lotta dei loro confratelli con Dio, entrano in seguito nei corpi mortali e diventano le anime degli uomini, per decidere, attraverso una seconda prova, della propria salvezza o dannazione. Tale teoria degli angeli neutrali deriva dall’eresia di Origene, cosicché il  Palmieri, terminatane la stesura, «affidò la revisione del testo a Leonardo Dati, ma nonostante avesse rimesso mano al poema sulla scorta delle annotazioni di quest’ultimo, l’opera non solo non fu data alle stampe, ma secondo alcuni studiosi fu consegnata dallo stesso autore alla corporazione dei Giudici e notai “ut non aperiatur” […] e fu pubblicata, parzialmente, solo nel XVIII secolo […]. Nell’orazione funebre per Palmieri Alamanno Rinuccini vi fa solo un accenno e nel XVI secolo molti letterati formularono accuse di eterodossia su di essa; Paolo Giovio si spinse addirittura a insinuare che Palmieri fosse “un seguace dell’eresia ariana” e a sostenere che il poema era stato “condannato dai teologi e bruciato” […]. La parabola intellettuale di Palmieri si consumò, in realtà, in stretta connessione con la mutata realtà politica e culturale della sua città, indirizzatasi verso quelle istanze neoplatoniche che a distanza di alcuni anni sarebbero state al centro della riflessione dell’Accademia Platonica fondata da Marsilio Ficino»[12].

Il capolavoro del Parmieri, però, è il trattato Della vita civile, opera giovanile di carattere pedagogico, etico e politico, scritta in forma di dialogo prima del 1438, ma pubblicato solamente nel 1529. Nel proemi l’autore asserisce che tali dialoghi si svolsero durante la peste del 1430 in una villa del Mugello, ove l’anziano e saggio Angnolo Pandolfini[13] espose al Palmieri stesso e ad altri due giovani «l’ordine e il virtuoso vivere» degli uomini esperti nella vita civile. L’opera è divisa in quattro libri e in essa si immagina di dare degli ammaestramenti a un fanciullo, accompagnandolo dalla nascita sino all’età matura, attraverso tutta una serie di precetti che devono servire alla sua educazione e formazione morale e civile. L’ultimo libro è il più importante e originale: esso è infatti dedicato all’utile ed espone le massime a cui deve ispirarsi chi mira a contribuire concretamente al miglioramento della vita civile.

È rilevante evidenziare che il Palmieri, benché permeato di erudizione umanistica, scrive un trattato in lingua volgare per riproporre e divulgare il pensiero dei classici quale concezione della vita interamente rinnovata; per cui l’opera, attraverso la trattazione di temi pedagogici, etici, politici e civili diviene un vero e proprio trattato di filosofia pratica, ad uso dei tempi nuovi e della nuova cultura volgare. E la sua lingua, ci offre uno dei primi modelli di volgare elaborato concettualmente e vigorosamente idoneo per gli scopi espositivi che si prefigge, inerenti alla materia trattata.

Il Palmieri scrisse la sua opera pressappoco negli stessi anni in cui l’Alberti componeva il suo trattato Della famiglia, di ben più vasto respiro, ma, analogamente al trattato albertiano, nella Vita civile si condanna la vita ascetica e solitaria, e si elabora un concetto di virtù che è fede energica nel lavoro e nell’attività pratica dell’uomo. La virtù vera è, infatti, per il Palmieri, quella che l’uomo esplica concretamente nei confronti degli altri uomini, a vantaggio del loro utile e del loro miglioramento materiale e spirituale. Lo Stato, inteso in senso aristotelico come prodotto e fine degli uomini, è alla base della concezione civile di Palmieri, e l’uomo che egli vuole formare è un uomo attivo e capace di costruire il proprio mondo, perché in tal modo non contribuisce soltanto a costruire se stesso, ma tutta quanta la società, giacché l’utile dell’individuo coincide con l’utile collettivo. Per tale motivo tutta l’opera esalta la socialità della morale e dell’utile e, al tempo stesso, il rapporto di amore e amicizia che lega concretamente gli uomini nella loro attività costruttrice e creatrice, e che realizzando l’utile sociale attua la vera giustizia. Il lavoro umano viene così celebrato in tutto il suo valore sociale nei più svariati campi dell’attività, da quella agricola e pastorale a quella manifatturiera e mercantile. La gloria sarà il premio dell’attività dell’uomo e il legame, al tempo stesso, che lo avvincerà ai posteri, perché, come dice il Palmieri, «certo si conosce negli animi nostri essere fermo un desiderio quasi pronosticativo de’ futuri secoli, il quale ci strigne a desiderare la nostra perpetua gloria, felicissimo stato della nostra patria, e continua salute di quelli che nasceranno di noi».

Pandolfo Collenuccio

Pandolfo Collenuccio, figlio di un maestro di grammatica,  era nato a Pesaro nel 1444 e si laureò in Giurisprudenza a Padova nel 1465. Frequentò la corte di Pesaro, all’epoca dominata da un ramo degli Sforza, ricoprendo numerose cariche politiche e svolgendo importanti missioni diplomatiche che lo misero in contatto – tra gli altri – con Lorenzo de’ Medici e Poliziano. Nel 1488, tuttavia, in seguito a una diatriba col signore di Camerino, Collenuccio fu imprigionato, subì la confisca dei beni, e fu infine costretto a lasciare la città natale per l’esilio (1489). La fama di umanista (è stato fra l’altro il primo ad aver studiato gli Etruschi e ad aver creato il primo museo di scienze naturali in Italia) e l’abilità di diplomatico e uomo politico gli valsero la protezione di Lorenzo il Magnifico[14], dei Gonzaga, che nel 1491 lo fecero nominare podestà di Mantova, e soprattutto di Ercole I d’Este. Quest’ultimo nominò Collenuccio dapprima consigliere e in seguito capitano di Giustizia (1500), e lo inviò come ambasciatore presso l’Imperatore e il Papa Alessandro VI. In qualità di legato di Ercole I, sostenne Cesare Borgia nel corso della sua seconda spedizione romagnola; e quando il Borgia conquistò Pesaro, Collenuccio ottenne la restituzione dei beni che gli erano stati confiscati. Morto Cesare Borgia, però, gli Sforza tornarono a Pesaro, per cui Collenuccio si rifugiò nuovamente a Ferrara da Ercole d’Este. La sua morte fu conseguenza di una trappola tesagli dal signore di Pesaro: questi, infatti, gli aveva fatto intendere, che avrebbe permesso il suo ritorno in patria; ma non appena Collenuccio mise piede in città, lo Sforza lo fece imprigionare, torturare e infine decapitare, senza processo (1504).

La maggior parte delle opere letterarie e storiche di Collenuccio, in latino e in volgare, sono state composte dopo il 1489 e pubblicate postume, per lo più a cura del figlio. Molto interessanti, e indispensabili per comprendere la vita spirituale del XV secolo, sono gli Aplogi, le cosiddette Operette morali di Collenuccio, scritti in latino e in volgare, nei quali riprende l’imitazione lucianesca sull’esempio delle Intercoenales dell’Alberti, a lui accostandosi per il vivace tono morale e intellettuale, e per il senso dell’ironia, elegante e sorvegliata (ma rimanendogli inferiore quanto a forza di sentimento e ricchezza di fantasia). Pure interessanti le Relazioni delle ambascerie scritte durante le sue missioni diplomatiche e l’opera naturalistica Pliniana defensio, scritta per difendere Plinio dalle accuse del medico e botanico umanita Niccolò Leoniceno (1428-1524), nella quale il Collenuccio, diffidando del principio di autorità, propende per uno stile della ricerca naturalistica fondato sull’esperienza.

La sua opera fondamentale rimane comunque il Compendio delle istorie del regno di Napoli, ricostruzione sintetica delle vicende di questo regno, iniziata nel 1498 per incarico del duca Ercole I e mai terminata. Esposto in una prosa rapida ed essenziale, « il Compendio si basa, oltre che su una preliminare selezione dei fatti da trattare, che toglie all’opera ogni carattere di disorganica elencazione annalistica, su un rigoroso esame delle fonti, nel corso del quale si riserva un’attenzione particolare alle fonti documentarie ed epigrafiche, e se ne dichiarano con lucidità caratteristiche ed eventuali discordanze. La storia del Regno, indagata con questi strumenti, si configura come quella di un continuo e continuamente frustrato tentativo di costituzione di uno Stato solido e autonomo, tentativo ostacolato dall’azione della Chiesa, che non accetta vicini non subordinati, e di una feudalità riottosa, che ha tutto da guadagnare dalla disgregazione del potere centrale, Su questo sfondo assumono un grande risalto ideale le figure di quei pochi che, come Federico II, si sono fatti portatori, agli occhi del Collenuccio, del principio di uno Stato regolato da leggi efficaci e ordinatamente sottoposto a un, principe che di esse si faccia imparziale garante»[15].

La storia del Collenuccio, prima di ottenere la meritata stima che le fu sancita dal riconoscimento del Croce, venne acerbamente criticata non solo dal punto di vista linguistico ma anche dal punto di vista storico, soprattutto da parte degli storici napoletani che tentavano di respingere quelle accuse «d’incostanza e d’infedeltà» che il Collenuccio aveva mosso nel Compendio ai «regnicoli». Ma va oggi riconosciuto che, se vi sono in quest’opera errori e parzialità, ciò è dovuto ad un interesse storico e ad un sistema di pensiero che, nella storia del Reame di Napoli, vagheggia da un lato l’ideale di un principe illuminato ed autonomo, dall’altro combatte gli abusi e le prevaricazioni dei baroni e del feudalesimo. Se il Collenuccio, quindi, rimane inferiore a un Machiavelli o a un Guicciardini, ciò non è dovuto all’imprecisione o alla parzialità, ma solo perché gli manca una più solida e rigorosa struttura concettuale in cui inserire propria la visione della storia.

I versi del Collenuccio, invece, sia quelli in lingua latina che in lingua volgare, hanno in genere scarso valore, fatta eccezione per la canzone Alla morte (composta in carcere nel 1488), giudicata – per intensità d’espressione e forza di sentimento – uno dei migliori risultati poetici della lirica del secolo XV, anche alla luce della tragica fine dell’autore. In essa, essendo considerata la vita quasi una catena ininterrotta di tormenti e delusioni, la morte viene invocata come donatrice di pace.

Vespasiano da Bisticci

Quasi nulla si conosce sulle origini di Vespasiano se non che nacque a Bisticci nel 1421, una località nei pressi di Rignano sull’Arno, e che possedeva un negozio di libri presso il Bargello. La nascente cultura umanistica stava imprimendo all’arte libraria un nuovo slancio dinamico, grazie anche alle grandi figure di intelligenti mecenati quali Cosimo de’ Medici, Alfonso d’Aragona e papa Niccolò V. Vespasiano divenne ben presto noto nella Firenze medicea – ma anche in Italia e in Europa – per le sue buone cognizioni bibliografiche, che gli permettevano di procurare dei buoni esemplari manoscritti, anche se non sempre corretti. Non v’era pertanto forestiero d’una certa importanza che, passando da Firenze, non gli facesse visita per acquistare libri o per incontrare tutti quei molti umanisti che nella sua bottega si ritrovavano per conversare in maniera colta e raffinata.

Quando Cosimo de’ Medici decise di formare la propria biblioteca, Vespasiano non solo gli procurò attraverso Tommaso Parentucelli (futuro Papa Niccolò V) un catalogo che divenne la base della nuova collezione, ma, grazie ai suoi amanuensi, in soli ventidue mesi preparò anche e gli fornì duecento volumi.

Tuttavia, con la nascita della stampa a caratteri mobili, il libro divenne più economicamente accessibile e ciò fece tramontare inesorabilmente i codici trascritti a mano e ricchi di preziose miniature. Vedendo così spegnersi quella che era stata per un quarantennio la sua attività, Vespasiano,, ormai deluso dai mutamenti del tempo e restio ad abituarcisi, decise di chiudere la propria bottega e di ritirarsi nella sua villa di Antella dove morì nel 1498.

È in quegli anni di ozio che Vespasiano cominciò a scrivere le Vite degli uomini illustri del secolo XV per ricreare in tal modo nella memoria i tempi felici di quel particolare splendore di cultura che lui, semplice bottegaio, aveva personalmente vissuto negli incontri e rapporti quotidiani con gli uomini di potere e di cultura che aveva conosciuto, ammirato e amato. Avendo un formazione culturale modesta, assimilata per lo più durante le dotte conversazioni che si svolgevano nella sua bottega, le Vite sono scritte in uno stile semplice e un po’ discontinuo. «Ma in questo volgare discorsivo, che ha spesso la libertà sintattica delle pagine del Cellini, le Vite hanno un’immediatezza di rappresentazione che aggiunge un modesto pregio d’arte al loro valore documentario»[16]. Ognuna di esse è un insieme di ricordi e di episodi narrati come vengono alla memoria, con l’intento di costruire una vita esemplare per virtù morali e doti di cultura, paragonabile in un certo modo a quella degli uomini antichi: quasi sorta di trascrizione plutarchiana in un’atmosfera quotidiana e domestica. Oltre il ricco e vasto quadro del tempo, ciò che più che interessa nel libro non è questo tono costantemente agiografico, bensì l’ammirazione che l’autore sente per il valore della letteratura e della parola come strumento di elevazione morale e spirituale, come mezzo per comporre le controversie umane e per realizzare un ideale di vita semplice, onesto ed equilibrato.

Polifilo

L’Hypnerofornachia Poliphili, cioè letteralmente Combattimento d’amore in sogno d Polifilo, ma più semplicemente detta Polifilo, fu stampata nel 1499 dal grande tipografo veneziano Aldo Manuzio, in un’edizione che è un vero capolavoro dell’arte rinascimentale per la bellezza dei caratteri tipografici e per lo splendore delle xilografie. La paternità del testo, essendo l’opera anonima, fu attribuita a diversi autori (tra i quali lo stesso Manuzio), tuttavia l’acrostico formato dalla lettera iniziale della prima parola dei trentotto capitoli del libro rivela la seguente frase: «Poliam frater Franciscus Columna peramavit»[17], che non ci lascia dubbi sul nome dell’autore. Così come è altrettanto indubbio che Polifilo, il personaggio principale dell’Hypnerofornachia innamorato di Polia, altri non sia che l’autore del romanzo. Ciò che rimane da stabilire è chi sia questo Francesco Colonna.

Alcuni studiosi sostengono che possa trattarsi di un frate predicatore dell’ordine domenicano, nato a Venezia (o a Treviso) tra il 1433 e il 1434 e vissuto per lo più a Venezia, dove morì vecchissimo nel 1527. Questa tesi è stata vigorosamente ribadita nello studio di Maria Teresa Casella e Giovanni Pozzi[18], in cui la vita dell’oscuro frate veneto viene ricostruita con dovizia di documenti e di argomentazioni. Certo lascia alquanto perplessi che un modesto frate, a quanto pare di non elevata cultura e che mai lasciò il Veneto, possa avere scritto un’opera tanto complessa sia per le conoscenze filologiche e archeologiche, nonché per gli intendimenti allegorici e culturali che in essa vengono manifestati. Per tali motivi altri studiosi, sopra tutti Maurizio Calvesi[19] confortato da sorprendenti coincidenze, sostengono che l’autore andrebbe identificato in un Francesco Colonna della illustre famiglia romana, nato intorno al 1430 e signore di Palestrina. Questo laico avrebbe compiuto la sua formazione spirituale nell’ambito dell’Accademia Romana di Pomponio Leto (i cui componenti tra di loro si chiamavano fratres): un centro di cultura classica edonistica e paganeggiante, che ha molte corrispondenze col tono erotico, allegorico e misticheggiante dell’Hypnerofornachia. Anzi questo esponente della celebre famiglia romana nel 1493 fece compiere dei lavori architettonici sui resti dell’antico tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina: zona archeologica che appare descritta con precise concordanze in una scena fondamentale del nostro romanzo. Secondo l’interpretazione del Calvesi, dunque, l’Hypnerofornachia esprimerebbe una concezione naturalistica, ispirata al culto pagano della Fortuna, all’epicureismo, e soprattutto agli antichi riti misterici e alla cultura ermetico‑alchimistica. Tuttavia, poiché entrambe queste ipotesi non convincono completamente, il problema biografico relativo all’autore del Polifilo rimane per tale motivo tutt’altro che risolto.

Secondo quanto il libro stesso ci dice, l’anno della sua composizione risale al 1467, ma – sicuramente – si tratta di una data simbolica, dal momento che essa deve essere durante gli ultimi quindici o vent’anni del secolo. La storia inizia con lo sfortunato Polifilo (che in greco significa amante di Polia), tormentato dal recente abbandono dell’amata Polia (in greco “tante cose”), che viene oniricamente trasportato in una foresta misteriosa (come Dante), fonte di incubo e angoscia, dove si perde e incontra draghi, lupi, fanciulle, una meravigliosa piramide e varie opere di architettura e scultura sparse tra rovine archeologiche. Dopo aver superato molte difficoltà, Polifilo, aiutato da vaghe e lascive ninfe, riesce a raggiungere l’amata Polia, con la quale verrà condotto, su un’imbarcazione il cui nocchiero è Cupido, sulla mitica isola di Cerigo per il proprio matrimonio. Ma durante il viaggio la coppia litiga nuovamente, e sarà compito della magia di Cupido riappacificarla. Finalmente l’incomprensione tra Polia e Polifilo è risolta, ma la ragazza scompare all’improvviso nell’aria quando il giovane sta per stringerla fra le braccia: il sogno è terminato.

Non v’è dubbio alcuno che l’ Hypnerofornachia Poliphili voglia essere un racconto allegorico sul tipo della Divina Commedia dantesca, dell’Ameto e dell’Amorosa Visione del Boccaccio, ma i continui richiami alle divinità dell’antica Roma ne fanno un’opera dichiaratamente pagana, e ciò spiega anche il perché venne stampata anonima. Tutto il libro è cosparso di erudizione antiquaria e di raffinatezze linguistiche. Il testo è scritto in una lingua volutamente difficile, un volgare misto a latino, ricco di neologismi e di invenzioni lessicali coniate da radici greche e latine, inserite in un gioco continuo di citazioni e di rinvii a miti classici ed a speculazioni filosofiche assai complesse. L’aspetto predominante, tuttavia, è il miscuglio di sensualità e di allegorismo misticheggiante che sembra contaminare e investire ogni cosa, oscillando fra il culto della paganità classica e il gusto del rituale cristiano.

Ed in effetti, il Polifilo dimostra una carica fantasiosa straordinaria, attingendo a piene mani dall’antica mitologia greco‑romana e mostrando una costante propensione alla totale compenetrazione spirituale tra uomo e natura, unica possibilità di rigenerazione per l’individuo nel mondo terreno. La semplice trama riesce comunque a trasmettere una tensione erotica piuttosto inconsueta per l’epoca: durante il suo viaggio Polifilo incontra infatti dee dell’Olimpo, ritratte nella loro celeste nudità, mente sull’isola di Cerigo si erge il fallo di Priapo, figlio di Dioniso e Afrodite, padre della vita. Tale carica sessuale è poi ulteriormente sottolineata da continui rimandi ad immagini di fiori e frutti, che rendono ancora più selvatica e “boschereccia” l’ambientazione narrativa. L’autore sembra divertirsi a creare tali ammiccamenti scherzosi, che forse rimandano anche a simboli alchemici non ancora decifrati. Di certo la presenza di divinità magiche – descritte nei loro aspetti più grotteschi – dimostra chiaramente l’intento filosofico‑spirituale dell’opera, concepita come elegante manifesto di un nuovo paganesimo per il futuro dell’umanità.

Il risultato finale è quello di un libro singolarissimo irto di difficoltà di ogni sorta, ma affascinante proprio per il suo carattere di orgia erotico‑linguistica, vissuta nell’atmosfera di un incubo onirico. Sotto il profilo storico, l’opera si colloca nell’ambito di quel contrasto fra volgare e latino che aveva caratterizzato tutto l’Umanesimo e che si stava ormai concludendo a favore del primo, ed è quasi uno sforzo disperato e ossessionante di pervenire a una sorta di impossibile conciliazione e sintesi fra le due lingue.

***NOTE ***

[1] Leonida Pandimiglio, MORELLI, Giovanni, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 76, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2012 – http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-morelli_(Dizionario-Biografico)/

[2] Giulio Reichenbach, SERMINI, Gentile, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1936 – http://www.treccani.it/enciclopedia/gentile-sermini_(Enciclopedia-Italiana)/

[3] I burchi o burchielli erano piccole barche adibite al trasporto fluviale delle merci.

[4] Questa forma di sonetto nasce nel secolo XIV: al quattordicesimo endecasillabo del normale sonetto si faceva seguire una “coda” composta da un settenario, che riprendeva la rima del quattordicesimo verso, e da una coppia di endecasillabi a rima baciata ed indipendente dalle altre rime usate in precedenza. Del sonetto caudato spessissimo si servirà nel secolo XVI il Berni, il quale diede inizio all’uso di ripetere più volte la “coda” con rime concatenate. Questo tipo di sonetto a più code viene detto sonettessa.

[5] Alcuni vorrebbero identificarlo col celebre Orcagna morto nel 1368.

[6] Vittorio Rossi, BURCHIELLO, Domenico di Giovanni, detto, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1930 – http://www.treccani.it/enciclopedia/burchiello-domenico-di-giovanni-detto_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[7] Michelangelo Zaccarello, Il sonetto burchiellesco: parodia o nonsense?, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 01 gennaio 1970 – http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/nonsensi/5.html

[8] Niccolò nacque a Firenze nel 1365 dal lanaiolo Bartolomeo e presto, insieme ai fratelli, seguì l’arte del padre. Tuttavia attratto dal clima culturale fiorentino di fine secolo, iniziò a frequentare il “Circolo di Santo Spirito” e a partecipare alle dotte disquisizioni dei letterati che lo frequentavano, come Luigi Marsili e Coluccio Salutati, diventando così fautore convinto della nuova corrente umanistica. Protetto da Cosimo de’ Medici e, con la guida di Poggio Bracciolini, adottò la minuscola carolina diventando eccellente e raffinato copista dei classici nonchè esperto collezionista e bibliofilo. Niccoli fu un grande ricercatore di codici greci e latini e si fece spesso promotore delle ricerche di altri, come nel caso dei cardinali Niccolò Albergati e Giuliano Cesarini per i quali preparò nel 1431 l’Itinerarium o Commentarium che consisteva in un elenco di autori latini che dovevano essere ricercati nei monasteri tedeschi. Il suo intransigente classicismo e il suo carattere intollerante furono causa di numerose invettive scritte sia da avversari come il Guarino e il Filelfo che da amici come Leonardo Bruni che lo accusavano anche di mancanza di creatività. Egli veniva essenzialmente visto come uno snobistico estimatore della filologia latina, che «ostentava compatimento per gli ormai superati Petrarca e Boccaccio e disprezzo per la preumanistica, volgare e popolare poesia di Dante» [Carlo Dionisotti, Niccoli, Niccolò, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970 – http://www.treccani.it/enciclopedia/niccolo-niccoli_%28Enciclopedia-Dantesca%29/]. Alla sua morte, avvenuta nel 1437, tutti gli ottocento codici da lui posseduti, a seguito delle sue disposizioni testamentarie, vennero consegnati a Cosimo de’ Medici, che li donò alla biblioteca presso l’allora Convento domenicano di San Marco (oggi Museo nazionale di San Marco), che diventò la prima biblioteca pubblica.

[9] Mario Martelli, Quattrocento latino e volgare, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, pag. 51, Federico Motta editore, Milano, 2004.

[10] Iibidem.

[11] Alamanno Rinuccini nacque a Firenze nel 1426. Si formò alla scuola dell’Argiropulo e dal 1455 insegnò nello Studio fiorentino e prese parte attiva alla sua riorganizzazione promossa da Lorenzo de’ Medici. Insigne cultore della letteratura greca, tradusse in latino le Vite di Plutarco. In volgare lasciò i Ricordi storici e il Dialogus de libertate (1479), cui è legato il suo nome. Composto poco tempo dopo la Congiura dei Pazzi, il dialogo è una nostalgica celebrazione della florentina libertas e una larvata protesta nei confronti della signoria medicea che aveva ridotto forzatamente all’otium gli intellettuali. Più esplicita è, nei Ricordi, la denuncia del governo illiberale di Lorenzo de’ Medici, definito da Rinuccini “perniziosissimo e crudelissimo tiranno”. Morì il 12 maggio 1499 e fu sepolto, secondo le indicazioni del suo testamento, nella cappella di famiglia a Santa Croce.

[12] Elena Valeri, PALMIERI, Matteo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 80, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014 – http://www.treccani.it/enciclopedia/matteo-palmieri_%28Dizionario-Biografico%29/

[13] Agnolo Pandolfini (Firenze, 1360 – Firenze, 1446)  nacque da Filippo Pandolfini e Dora Boscoli. Nella giovinezza ebbe una istruzione raffinata e conobbe celebri umanisti quali il Bruni e l’Alberti. Occupò importanti incarichi politici nella Repubblica fiorentina e partecipò a numerose ambascerie. Inoltre gli è stata tradizionalmente ed erroneamente attribuita la redazione del trattato Governo della famiglia, opera che in realtà è parte del terzo libro della Famiglia di Leon Battista Alberti e scritta un quindicennio dopo la morte del politico.

[14] Grazie a ciò nel 1490 divenne podestà di Firenze per sei mesi.

[15] Eduardo Melfi, COLLENUCCIO, Pandolfo, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Volume 27, 1982 – http://www.treccani.it/enciclopedia/pandolfo-collenuc-cio_%28Dizionario-Biografico%29/

[16] Enrico Carrara, VESPASIANO da Bisticci, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1937 – http://www.treccani.it/enciclopedia/vespasiano-da-bisticci_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[17] Letteralmente: «Frate Francesco Colonna amò intensamente Polia».

[18] Maria Teresa Casella, Giovanni Pozzi, Francesco Colonna Biografia e Opere, Editrice Antenore, Padova, 1959.

[19] Maurizio Calvesi, Identificato l’autore del Polifilo, in «Europa Letteraria», n.35, 3 dell’anno VI, 1965.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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