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Marco M. G. Michelini | 30 Ottobre 2018

Linea Biografica

Esponente di spicco dell’umanesimo partenopeo, Jacopo Sannazzaro nasce a Napoli nel 1457 dall’unione tra Masella di Santomango e Cola dei Sannazzaro, discendente da una nobile famiglia pavese ricordata da Dante, stabilitasi nel Regno di Napoli nel sec. 14º, ma quasi estinta alla nascita di Iacopo. In seguito alla prematura scomparsa del padre (1462) quando Jacopo era un bambino, la famiglia si trovò a dover fronteggiare problemi di stabilità economica e la madre decise di tornare a vivere nella sua terra d’origine, San Cipriano Picentino, portandosi con sé i figli, Jacopo (di cinque anni) e Marcantonio (nato nell’aprile del 1461), e qui, a otto anni, si sarebbe innamorato d’una bambina, che i biografi identificarono in Carmosina dei Bonifacio.

In seguito la famiglia, sempre alla ricerca di una qualche stabilità economica, si trasferì nuovamente a Napoli ove Jacopo incontrò i due maestri che forgeranno il suo destino: Lucio Crasso[1] e Giuniano Maio[2], insegnanti dello Studio partenopeo, che lo avviarono verso studi di matrice umanistica. Dimostrando immediatamente una singolare attitudine verso queste materie, il Sannazzaro ottiene un posto nell’esclusiva Accademia di Giovanni Pontano, importantissimo umanista dell’epoca, dove entra col titolo di Actius Syncerus. Il Sannazzaro si afferma così in tutto il suo talento di letterato colto e raffinato, ottenendo consensi e ammirazione dall’élite culturale partenopea dell’epoca.

«La prima attestazione, comunque, di un’attività letteraria è l’organizzazione della festa di nozze di Federico Del Balzo, conte di Acerra e primogenito del potente Pirro, duca di Venosa, con Costanza d’Avalos, appartenente al clan degli Avalos fedelissimi della dinastia aragonese (1477). Oltre alla supervisione delle allegorie e degli apparati scenici, Sannazzaro compose i testi della rappresentazione teatrale, riferiti nella vita latina di Costanza scritta dall’umanista siciliano Giovanni Tommaso Moncada conte di Adernò (1495)»[3]; inoltre nel 1480 scrive le prime egloghe.

Dopo aver perso anche la madre e la donna amata, Carmosina Bonifacio, Sannazzaro nel febbraio del 1481 si trasferisce alla corte di Alfonso II d’Aragona, con lo stipendio annuo di centoventi ducati, e seguì il sovrano nella campagna per la riconquista di Otranto (1481), nella guerra di Ferrara (1483-1484) e nella campagna d’Abruzzo contro i baroni ribelli (1485). In questo periodo di tranquillità economica, il poeta, sotto la spinta degli stimoli culturali di corte, inizia a produrre anche scritti in volgare: vedono così la luce le Rime, e nel 1483 la sua opera più celebre (e più influente nei secoli successivi), l’Arcadia, ovvero il Libro pastorale nominato Arcadio, che, completata all’inizio del 1486, fu copiata in un manoscritto di dedica per Ippolita Sforza e subito diffusa in tutta Italia.

Negli anni successivi, prese a dedicarsi più attivamente alla poesia latina, con la composizione degli Epigrammata, delle Elegiae e di un poemetto mitologico, Salices. Partecipò anche al dibattito seguito alla pubblicazione dei Miscellanea di Angelo Poliziano (1489) con violenti epigrammi contro l’umanista fiorentino (Epigrammata I 66-67). Negli anni Novanta riprese la composizione del Libro pastorale, aggiungendo due prose e due egloghe e un nuovo titolo che diverrà poi quello definitivo di Arcadia.

Il Sannazzaro seguì da vicino la crisi della corona napoletana, rimanendo sempre ad essa fedele, e quando Federico d’Aragona[4] salì al trono, non esitò a prestare denaro al re, che si trovava in difficoltà finanziarie. Il re dimostrò in diverse occasioni la sua riconoscenza per la fedeltà e la lealtà di Sannazzaro, e il 12 giugno 1499 gli donò la villa di Mergellina, ove iniziò la composizione delle Eclogae piscatoriae, opera purtroppo incompiuta, nonché – influenzato dal frate agostiniano Egidio da Viterbo – il De morte Christi Domini lamentatio ad mortales, e alcuni inni latini in onore di San Nazaro e San Gaudioso.

Nell’imminenza della conquista del Regno da parte di francesi e spagnoli, a seguito del trattato segreto stipulato a Granada l’11 novembre 1500, Federico d’Aragona si rifugiò nel castello di Ischia. Il Sannazzaro, dopo aver venduto una parte dei suoi beni e aver lasciato l’altra al nipote Giovan Francesco, raggiunse il sovrano a Ischia e con lui partì con una flottiglia di galee che raggiunse Marsiglia il 10 ottobre. Il corteo aragonese giunse successivamente a Blois, alla corte del re di Francia, il quale offrì allo spodestato sovrano (in cambio della rinuncia ai diritti sul regno di Napoli) la Contea del Maine e uno stipendio annuo di 20.000 lire[5].

In Francia l’umanista ebbe anche modo di esplorare antiche biblioteche di monasteri e cattedrali, scoprendovi manoscritti di testi classici ancora sconosciuti o codici autorevoli di testi già noti, ricevendone un biglietto di felicitazioni da parte del vecchio Pontano.

Nel 1504 morì Federico d’Aragona e il Sannazzaro, libero dal suo vincolo di fedeltà, fece ritorno in patria, conducendo una vita abbastanza ritirata nella villa di Mergellina. In questo periodo il poeta si concentrò negli studi dei classici: trascrisse i testi latini scoperti in Francia, continuò gli studi greci (che aveva iniziato da autodidatta all’inizio del suo servizio alla corte aragonese) e nel 1523 firmò la trascrizione in bella copia di una traduzione latina di Teocrito. Lesse gli storici antichi e i moderni umanisti, registrandone i luoghi notevoli in minuziosi indici alfabetici; allo stesso modo effettuò un radicale smontaggio dei testi dei poeti antichi, compilandone vasti indici metrici. Evidente finalità di questo laboratorio era la ripresa della poesia latina, con la continuazione delle Eclogae piscatoriae e la sistemazione delle raccolte di elegie ed epigrammi, entrambe strutturate in tre libri.

Perduti i vecchi amici, mutato ormai l’ambiente dell’accademia pontaniana e diventato quasi una guida morale dell’umanesimo napoletano, visse in disparte anni dolorosi a causa di una forma di ulcera allo stomaco, confortato appena dal nobile affetto di Cassandra Marchese, una gentildonna che egli aveva assistito e difeso in una lunga e sfortunata lite con il marito. Morì nel 1530 a Napoli e quello stesso anno apparvero, postume, le sue Rime.

***

La vita sentimentale del Sannazzaro si colloca all’insegna di due amori psicologicamente ben definiti: l’innamoramento infantile per Carmosina Bonifacio, conosciuta da Jacopo sin dagli anni dell’infanzia, e amata nell’adolescenza (o nella giovinezza) in una tormentosa passione vissuta tutta nella fantasia e nell’immaginazione (e già con quelle stigmate di analogia stilnovistica, così affascinanti per un morbido letterato) e l’amore senile per Cassandra Marchese, antica amica (andata sposa ad un nobile napoletano e da questi in seguito ripudiata, malgrado il tenace amore della donna per il suo sposo), forse dal Sannazzaro già ammirata in giovinezza e comunque ritrovata negli ultimi anni di vita al ritorno dall’esilio di Francia.

Certo nessuno vorrà negare la sincerità del sentimento paterno e cavalleresco per Cassandra, il nobile intento di un animo generoso che si batte nelle sue sdegnate lettere per proteggere una donna indifesa dalla prepotenza del marito e dagli intrighi di un Papa compiacente a favorirne il divorzio, ma qui c’interessa rilevare il carattere tutto sognante e fantastico dei due amori di Jacopo, già posti inconsciamente a priori come non reali o comunque non realizzabili nella concretezza autentica della vita.

Al di la di questi due impossibili amori vi è la realtà effettiva del suo profondo affetto e attaccamento alle varie persone dei re napoletani e soprattutto a Federico d’Aragona, che culmina nel celebre gesto di ammirevole impegno morale, per cui, venduti i propri beni e rinunciato alle tranquille gioie della diletta villa di Mergellina, Sannazzaro offre il suo aiuto economico a Federico, sconfitto, e lo segue in Francia in doloroso e volontario esilio.

Era di volto irregolare, con testa grande e grosso naso carnoso, perciò non bello fisicamente (e pare che venisse chiamato Jacobaccio con allusione appunto peggiorativa a tali caratteristiche); non è perciò da escludere che abbia sofferto nell’adolescenza di quel complesso d’inferiorità fisica di cui sogliono (o almeno solevano un tempo) disperarsi i giovani inesperti d’amore, assumendo in tal modo la mancanza di bellezza fisica a pretesto giustificatorio delle proprie situazioni complessuali.


Le opere volgari e latine

«L’esordio letterario del Sannazzaro, se si ecludono farse e spettacoli di corte, nonché le prime prove poetiche in latino (epigrammi ed elegie, peraltro di dubbia datazione e comunque rielaborati in seguito) è legato all’opera dalla quale ricevette maggior fama, e che deve essere considerata una delle più importanti del secolo, l’Arcadia, romanzo pastorale steso nel 1484-1486 in una prima redazione (comprendente dieci egloghe e dieci prose alternate) e definitivamente riorganizzato, una decina d’anni più tardi, con l’aggiunta di altri cinque pezzi (due prose, due egloghe e un congedo in prosa intitolato A la sampogna) e la revisione di alcune egloghe precedenti»[6].

Comunque, già prima del 1484, oltre alle farse in volgare napoletano e ai Gliòmmeri[7], specie di frottole ricche di allusioni a vicende e personaggi dell’epoca (ma per noi oggi inintelligibili), aveva composto delle egloghe spicciolate, basate sull’esempio bucolico tracciato da alcuni poeti fiorentini e senesi, e le Rime amorose che negli anni novanta organizzò in due raccolte, rispettivamente di 66 e 32 componimenti, dedicate entrambe a Cassandra Marchese. Tali canzonieri, pervasi da uno stato d’animo triste e nostalgico, ove non manca qua e là qualche spunto più sofferto e personale, «pur essendo caratterizzati, in linea con la redazione finale dell’Arcadia, da un rigoroso petrarchismo metrico, lessicale, linguistico e stilistico, e pur non aprendosi a tematiche “extravaganti” (morali, politiche, umanistiche, encomiastiche) né a un pubblico esterno di dedicatari (le rime di occasione e quelle di estrazione cortigiana composte in precedenza furono anzi in gran parte escluse), […] sono ugualmente indicativi della crisi del genere lirico a Napoli tra Quattrocento e Cinquecento. Nessuno dei due, infatti, si presenta organicamente strutturato come un “romanzo” amoroso, e nessuno dei due fu pubblicato dal poeta, che li destinava – soprattutto il secondo – a una fruizione ristretta e “privata”, affidando piuttosto la sua fama alla produzione in latino»[8].

Già nella giovinezza, d’altronde, il Sannazzaro aveva scritto in latino il poemetto mitologico‑eziologico Salices, al quale si aggiungeranno in seguito i tre libri degli Epigrammata (152 componimenti che riproducono la varietà di atteggiamenti dell’anima di Sannazzaro per un’ampia distesa d’anni: voluttuosi, delicati, ma anche encomiastici e pungenti) e i tre libri delle Elegiae (24 componimenti che ci danno la migliore espressione dell’indole malinconica e raccolta del poeta).

Particolare rilievo hanno le Eclogae piscatoriae, cinque componimenti di incerta datazione, ma comunque posteriori al 1550, in cui al mondo bucolico dei pastori è sostituito quello dei pescatori, dando vita ad una celebrazione mitilogico‑allegorica delle coste napoletane, senza tuttavia tralasciare i consueti motivi encomiastici della dinastia aragonese.

Ma l’opera latina più ampia ed ambiziosa, alla quale il Sannazzaro dedicò oltre un ventennio, è il poema sacro in esametri De Partu Virginis, che venne pubblicto nel 1526 con una dedica al pontefice Clemente VII. «Formalmente si tratta di un poema epico‑religioso in tre libri, riservati alla narrazione e alla celebrazione dei tre momenti fondamentali della nascita di Cristo (l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione dei pastori), condotte con uno spirito e una tecnica marcatamente classicistici, evidenziati dal continuo ricorso – a livello tematico e stilistico – a modelli latini, primi fra tutti Virgilio, Ovidio e Claudiano.

Ma il De partu Virginis non mira a un semplice travestimento umanistico della storia sacra (dal quale anzi il Sannazzaro affermò esplicitamente di voler rifuggire), giacché l’immersione della nascita di Cristo in un’aura classicheggiante, ornando (come afferma lo stesso autore) “le cose sacre con le profane”, è incaricata di simboleggiare, con mezzi letterari, la convergenza della Verità rivelata con l’oscura sapienza nascosta nei miti pagani, secondo una linea di pensiero che il sincretismo neoplatonico aveva ampiamente diffuso nel Quattrocento e che lo stesso Sannazzaro poteva riconoscere nell’opera del teologo agostiniano Egidio da Viterbo, la cui influenza sulla cultura umanistica napoletana fu profonda e duratura […]. In quest’ottica, appare significativo che la struttura del De partu Virginis sia ricalcata – come ha visto il Tateo – sulla favola del ratto di Proserpina, narrata da Claudiano e interpretata dal Sannazzaro come profezia pagana della redenzione dell’umanità attraverso l’intervento divino: ed è soprattutto degna di nota la simmetria con cui la narrazione della vita di Cristo viene affidata, nei libri I e III, a due distinte profezie, pronunciate l’una da Davide e l’altra dal dio pagano Proteo»[9].

Sia il De partu Virginis che l’Arcadia ebbero fino all’Ottocento un successo immenso di edizioni e di entusiastici favori, ma ciò per ragioni essenzialmente linguistiche e formali, e tale successo si diffuse in tutta Europa.


L’Arcadia

L’Arcadia fu cominciata intorno al 1483 e definitivamente pubblicata in edizione corretta nel 1504. L’opera (suddivisa in dodici prose seguite ciascuna da una lirica in metrica varia, il tutto incorniciato da un Prologo e da un brano conclusivo intitolato A la sampogna), narra le vicende di Sincero (cioè del Sannazzaro stesso), il quale per delusione d’amore si allontana da Napoli e si reca in Arcadia, regione della Grecia che la tradizione della poesia bucolica ha sempre rappresentato come il luogo originario della vita pastorale semplice e felice. Dopo aver conosciuto vari pastori arcadici e aver condotto vita primitiva in loro compagnia, ma con un continuo senso di tristezza per il suo perduto amore, Sincero, spinto da un sogno presago, torna a Napoli mediante una sorta di viaggio fluviale. Giunto a Napoli apprende la morte della donna amata.

«Dal punto di vista letterario, la novità dell’operazione sannazzariana consiste da una parte nell’adozione del prosimetro, ossia nella costruzione – esemplata sulla Vita nuova dantesca, ma soprattutto sull’Ameto del Boccaccio, autentico antenato della bucolica volgare quattrocentesca – di un romanzo misto di parti prosastiche e poetiche; dall’altra, nella ricerca di un registro tematico, stilistico, linguistico e metrico più alto e sostenuto di quello della poesia pastorale contemporanea, con l’intento di rinnovare la raffinatezza che, sotto le convenzionali spoglie umili e “rozze”, caratterizzava questo genere nel mondo classico. Ecco, quindi, il recupero diretto di Virgilio e di Calpurnio, ecco l’adozione (accanto alle forme tradizionali, la terzina – per lo più sdrucciola – e il polimetro) di metri lirici come la canzone, il madrigale e la sestina; ecco il massiccio influsso della poesia latina nel lessico, nella sintassi, nello stile; ecco l’imitazione stilistica e linguistica dei toscani trecenteschi, in primo luogo Boccaccio e Petrarca, che si fa ancor più rigorosa nella seconda redazione. Era proprio in virtù di questa strenua ricerca letteraria che il Sannazzaro poteva affermare, nella prosa X, che dopo Virgilio nessuno si era misurato con successo, fino ad allora, nella bucolica; e poteva presentarsi, nel commiato A la sampogna, come il primo poeta moderno ad avere ricondotto in vita l’antica poesia pastorale.

Nelle prose, la prevalente tendenza allo statico ed estatico descrittivismo si traduce in un periodare ampio e musicale, il cui obiettivo pare quello di conciliare, per così dire, arte e natura (ossia, ricercatezza stilistica e liquida fluidità del dettato), dando vita a un’apparente semplicità con strumenti quanto mai raffinati, secondo una tecnica tipica della bucolica classica; rispetto al modello, certo fondamentale, del Boccaccio più sostenuto, il Sannazzaro opera non a caso una evidente semplificazione della sintassi, prediligendo accorgimenti come l’insistita aggettivazione (dotata, nella sua voluta convenzionalità, di finalità decorative più che determinative) e la studiata disposizione delle parole (per cui, se l’aggettivo precede per lo più il sostantivo, il verbo è solitamente collocato in conclusione di periodo)»[10].

La prosa del Sannazzaro costituisce una delle prove più eleganti e raffinate del volgare quattrocentesco: per essa la lingua letteraria toscana entra definitivamente nell’ambito culturale dell’Italia meridionale. La grande audacia dei latinismi, l’aderenza alla struttura sintattica classicheggiante, il movimento più poetico che prosastico del periodare, danno al discorso un alto grado di compiutezza e di stilizzazione armoniosa, senza diseguaglianze e stonature. Meno riuscite, invece, sono le liriche, perché qui il sentimento del paesaggio e gli spunti autobiografici si sviano troppo facilmente nei modi convenzionali del petrarchismo e del genere bucolico. Tuttavia, da un punto di vista formale, accanto alla terzina piana e sdrucciola e al polimetro[11] – che rappresentano le forme metriche caratteristiche del genere – troviamo forme della tradizione lirica più nobile ed elegante, come la canzone, la sestina e la sestina doppia.

L’Arcadia nasce dall’esigenza di contrapporre alla realtà della vita concreta il mitico mondo felice dei sogni e delle memorie dell’infanzia perduta. Tale felicità può essere in qualche modo ritrovata solo attraverso un più libero e genuino contatto con la natura; per cui tutta la vicenda del protagonista si presenta in questo arcadico regno come movimento di errabonde e pur quasi statiche peregrinazioni, dirette, inconsapevolmente, verso un viaggio di ritorno alla Madre‑Natura creatrice e rigeneratrice inesausta di vita e di canto poetico. In questo mondo un po’ efebico, dove i vari pastori respirano una comune aria di famiglia, ora più ora meno lieti secondo le esigenze di una variazione e contrapposizione lirico‑narrativa, non tanto le figure dei personaggi in se stessi hanno importanza, tutti quanti proiezioni parziali e momentanee dello stato d’animo dell’autore, bensì l’anima del Sannazaro in questo suo continuo processo di liberazione da determinati fantasmi interiori, in questo suo movimento nel regno dei propri contenuti inconsci, verso una conclusiva meta cosciente ben definita: la conquista di un canto poetico, ritrovato nella sua purezza alle sorgenti primigenie della Madre‑Natura.

Senonché per riconquistare questa arcana felicità è necessaria una serie di complesse operazioni magiche ed esorcistiche valide a liberare da un sentimento di colpa e di tormento. C’è infatti frequente nell’Arcadia questo senso di una violazione, di un peccato, di una profanazione che ha distrutto la sacralità originaria della Natura e che traduce in sintesi il sentimento di rimpianto e di colpa per una sorta di Eden perduto, la nostalgia per quell’epoca mitica in cui uomo e Natura vivevano in uno stato felice di identità primaria, non ancora separati nella loro intima comunione dalla dissociazione operata dal linguaggio. Per tale motivo (nella IX e X prosa) si assiste a vaste scene di magia volte a liberare i personaggi da ogni possibile pericoloso influsso di una Madre‑Natura che potrebbe anche presentare, se non esorcizzata, i suoi aspetti minacciosi e funesti, riassorbendo e, per così dire, inghiottendo i suoi giovani figli.

Definitivamente purificato, il nostro Sincero‑Sannazzaro può fare dunque ritorno – mediante una discesa in abissali cavità acquoree‑terrestri, lungo i meandri inconsci della Natura‑Madre – alla città di Napoli, simbolo ormai di una coscienza che, nel ritrovato contatto con la Natura, ha ristabilito in un certo modo il giusto equilibrio (ma pur sempre labile) tra la luce bruciante della coscienza e il regno sotterraneo e misterioso dell’inconscio.

Al fine di una lettura che conduca l’Arcadia al suo reale significato è necessario tenere presente questo sdoppiamento Sincero‑Sannazzaro e la connessa contrapposizione, da una parte tra mitico mondo arcadico, che simboleggia il regno dell’introversione, e a cui è collegata appunto la figura di Sincero, e, dall’altra, la realtà cittadina di Napoli che rappresenta il mondo oggettivo e concreto di Sannazzaro uomo‑poeta, la coscienza repressa in cui i liberi fantasmi dell’immaginazione possono acquistare vita e autenticità solo nell’impegno del canto e della vittoria poetica. Tutta l’opera è così permeata nel suo sottofondo da questo senso di travaglio, nella volontà di attingere le origini mitiche di una Madre-Natura che stimoli e sorregga lo sforzo del suo figlio prediletto per ritrovare la purezza di un canto poetico originario, una nuova creatività artistica, che costituisca, sul piano della realtà storica e letteraria, la premessa per una nuova intuizione della vita, libera da schemi preconcetti e da razionalismi repressivi. E il senso ultimo dell’opera è l’aspirazione al mito di Orfeo: l’eroe che civilizza il mondo, ricongiungendo l’uomo con la natura mediante il canto poetico.

Tuttavia per l’Arcadia si deve ancora parlare di un momento di crisi verso un passaggio ulteriore, perche questa felicità, questa liberazione non è mai totale: il sentimento doloroso, il compiacimento funereo e tombale che vena il romanzo, il timore inquietante di una possibile minaccia o perdita, l’incapacità radicale di far coincidere il regno degli istinti col mondo della ragione e della coscienza è ancora il segno di una scissione, di una ferita non del tutto sanata. È ancora necessario uno sdoppiamento: Sincero‑Sannazaro: le due figure, a livello di intenzionalità cosciente, non coincidono mai veramente, perché la frattura tra inconscio e coscienza parzialmente sussiste; il dualismo delle funzioni permane in tutta la sua sotterranea drammaticità. Solo nell’Ariosto il processo perverrà al suo culmine: la città fantastica coinciderà con la città reale e la libertà avventurosa nei regni dell’inconscio meraviglioso sarà vissuta con l’intensità realistica di una concreta esperienza della coscienza.

In tal modo il Sannazzaro sembra davvero concludere il travaglio poetico della seconda metà del Quattrocento: perché ne esprime ancora in certo qual modo il senso di incertezza e di crisi, ma al tempo stesso fa apertamente esplodere, con volontà consapevole, quel mito della Natura, quell’ansia di ritorno, quella ricerca inquieta che era stata sul piano della sensibilità l’aspirazione e l’attesa di tutto un secolo, nella direzione di un mondo nuovo di libertà che realizzi nella conquista della parola, della poesia, quasi come una religione nuova, una intuizione della vita più vasta e più aperta.

*** NOTE ***

[1] Lucio Crasso, napoletano di nascita, fu uomo di grande ingegno e dottrina. Maestro di grammatica e amatissimo dal Sannazzaro, fu anch’egli accademico pontaniano.

[2] nacque a Napoli intorno al 1430 e dal 1465 al 1488 fu professore di retorica allo Studio di Napoli. Nel 1480 ottenne dal re Ferdinando I d’Aragona il titolo di cavaliere. Fu membro dell’Accademia Pontaniana, nonché maestro pubblico e privato. Dal 1490 fu precettore dei figli del re, e nel1491 fu accolto tra gli umanisti di corte, esplicito riconoscimento del suo valore di letterato. Morì a Napoli nel 1493. La sua opera principale è il De priscorum proprietate verborum, un dizionario di voci latine, con i lemmi disposti dalla A alla Z, ma non in perfetto ordine alfabetico.

[3] Carlo Vecce – Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani – Volume 90 (2017) –http://www.treccani.it/enciclopedia/iacopo-sannazaro_%28Dizionario-Biografico%29/

[4] Federico I d’Aragona (Napoli, 16 ottobre 1451 – Castello di Plessis-lez-Tours, 9 novembre 1504) figlio di Ferdinando I e di Isabella di Taranto; fratello di Alfonso II e zio di Ferdinando II, successe al nipote, morto precocemente e senza eredi nel 1496, all’età di 28 anni.

[5] Il trattato di Granada non fu mai rispettato realmente: nel 1504 Ferdinando il Cattolico prese il regno di Napoli con le armi e ne assunse il comando. Nello stesso anno dichiarò l’annessione del regno alla corona di Spagna e ne fece un vicereame. Napoli e il meridione d’Italia persero l’indipendenza e rimasero un possedimento diretto dei sovrani spagnoli (e in seguito austriaci) per più di due secoli, fino alla conquista del regno delle Due Sicilie ad opera di Carlo di Borbone nel 1734.

[6] Mario Martelli, Quattrocento latino e volgare, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 133.

[7] Cioè “gomitoli”.

[8] Mario Martelli, op. cit., pag. 138.

[9] Mario Martelli, op. cit., pag. 139.

[10] Mario Martelli, op. cit., pag. 133-134.

[11] Componimento poetico scritto alternando versi o strofe di metri vari.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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