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Marco M. G. Michelini | 6 Settembre 2018

Linea Biografica

Matteo Maria Boiardo nacque nel borgo feudale di Scandiano nel 1441 da Giovanni (figlio primogenito di Feltrino, primo conte di Scandiano) e da Lucia Strozzi, sorella del poeta Tito Vespasiano Strozzi[1]. In quegli anni la corte estense era uno dei più importanti centri culturali d’Italia. Il principe umanista Leonello d’Este, discepolo prediletto del grande maestro di umanesimo Guarino Veronese[2], aveva dato impulso al Rinascimento ferrarese. Così che alla corte estense, sotto la guida del nuovo principe Borso d’Este, accorrevano sempre più letterati, pittori, miniatori, architetti, musici, cantori; 1’Universita si riapriva e vi si coltivava ogni genere di studi.

Essendosi il padre trasferito da Scandiano alla corte ferrarese appena nato il figlio, Matteo Maria trascorse i dieci anni della sua infanzia in quello splendore di vita cortigiana e di elevatezza culturale, incominciando presto i suoi primi studi di latino e appassionandosi alla cultura classica. Nel 1451, perduto il padre, tornò nel piccolo centro di Scandiano sotto la guida del nonno Feltrino e dello zio Giulio Ascanio. Feltrino era uomo colto e letterato e continuò ad istruire il nipote alla letteratura classica, alla quale – per proprio diletto – il giovane Matteo Maria affiancò la lettura dei poeti italiani del secolo precedente, in special modo di Dante e di Petrarca.

Nel 1456 morì Feltrino seguito nel 1460 da Giulio Ascanio, Così che Matteo Maria, non ancora ventenne, si ritrovò, assieme al cugino Giovanni, a capo del feudo. Da Scandiano, comunque, si recava spesso non solo a Ferrara, ma anche nelle più vicine corti di Reggio e di Modena; e a Modena, appunto, strinse fraterna amicizia con Ercole d’Este, che signoreggiava quella corte minore ed era destinato a succedere al fratello Borso nella guida di tutta la famiglia estense.

Alla corte di Reggio, durante una festa, incontrò Antonia Caprara, il cui nome ricorre più volte in acrostico nelle poesie; Boiardo dipinge la fanciulla come bella e volubile, e il sentimento che doveva travolgere il suo animo come una rapida e turbinosa passione svoltasi fra speranze e timori, fra simpatie e illusioni, fra infedeltà e ripulse. Tale amore, durato circa due anni, pare si sia spento per forza spontanea di cose allorquando, nel marzo del 1471, il poeta dovette seguire a Roma Borso d’Este a ricevere l’investitura di Ferrara dal papa Paolo II: nelle splendide feste della corte papale Matteo Maria dimenticò l’infelice amore. Ma intanto aveva scritto il più bel canzoniere in volgare di tutta la lirica quattrocentesca, gli Amorum libri: primaverile storia, in alternanza di gioia e dolore, del suo tormentato amore per Antonia Caprara.

Nella primavera del 1473 Matteo Maria fece parte della grandiosa cavalcata disposta da Ercole d’Este per accompagnare da Napoli a Ferrara la sua novella sposa, Eleonora d’Aragona: ciò lo tenne lontano da Reggio più mesi e quando tornò a Scandiano dovette cominciare ad occuparsi seriamente delle cose del feudo.

Il canale del Secchia  portava l’acqua dal fiume alla città di Reggio, attraversando il territorio di Scandiano. I Reggiani erano da tempo in lite con i Carpigiani, appoggiati dal loro signore, Marco Pio, poiché costoro, per irrigare i loro campi, rompevano sotto Casalgrande gli argini del canale. La rottura, nell’estate del 1473, dovette essere molto più grave, giacché il Boiardo – che era coinvolto nella disputa in quanto conte di Casalgande – si presentò al Consiglio degli Anziani di Reggio per essere autorizzato ad usare le armi anche in loro nome contro i violatori, e i Reggiani acconsentirono. Da tutto ciò derivò un contrasto familiare con la zia Taddea, vedova di Giulio Ascanio Boiardo sorella di Marco Pio, signore di Carpi, la quale era già in attrito col nipote per gli interessi dei propri figli.

Nel 1474 Simone Boioni, cancelliere di Giovanni Boiardo, pensò di risolvere la questione organizzando un veneficio ai danni di Matteo Maria. Ma un servo del Boiardo, invitato a far parte del misfatto, svelò la congiura al padrone, il quale lo indusse a secondare il disegno, e quando ebbe in mano tutte le prove, compreso il veleno procurato all’uopo da Carpi, imprigionò il cancelliere denunciando il fattaccio al duca Ercole d’Este. Il duca, però, non poteva mettersi in urto con un vassallo della potenza di Marco Pio; così la colpa, fu rovesciata tutta sul Boioni, che fu condannato prima all’esilio, e poi graziato l’anno successivo.

Le cause e le sentenze dei magistrati non accontentarono Boiardo dato che, di fatto, la zia Taddea e il cugino Giovanni la ebbero vinta. Per risolvere qualsiasi futura questione si decise di scindere in due parti tutto quanto alla sua morte aveva lasciato indiviso Feltrino, lasciando a Matteo Maria la distinzione delle terre in due parti equivalenti, e a Giovanni la scelta; questi preferì la zona orientale comprendente Arceto, più vicina a Carpi e agli interessi di Taddea Pio; e così al Boiardo rimasero Scandiano e le sue pertinenze.

Il Boiardo, comunque, non restò a lungo nel suo feudo. Nel 1476, a trentacinque anni, assunse servizio stabile presso la corte di Ferrara con la qualifica piuttosto vaga di “compagno”, che doveva lasciargli una certa libertà. Ed è proprio alla corte estense che egli visse tre anni decisivi per quello che riguarda l’ispirazione e l’inizio di composizione dell’Orlando Innamorato. Qui, infatti, in una vita di corte splendida di consuetudini e usi; in un ambiente in cui l’erudizione ed il gusto attingevano ampiamente dalla cultura francese; a contatto della biblioteca estense, ricca di quei romanzi francesi che narravano le avventure di Merlino, di Tristano, di Lancillotto e di Ginevra, il Boiardo prese ad appassionarsi sempre più per quel mondo di armi e di amori che costituiva la sostanza fantastica del Ciclo Bretone. Nel 1482 i primi due libri del capolavoro boiardesco erano compiuti, l’anno seguente venivano stampati e il 23 febbraio del 1483 le prime copie poterono essere offerte solennemente in dono al duca Ercole d’Este.

Nel frattempo, poco dopo il marzo 1479, a trentott’anni, Matteo Maria aveva sposato una bella e giovane fanciulla dell’illustre casa Gonzaga: fu un matrimonio felice, anche se dettato probabilmente da convenienze cortigiane più che da una vera passione. Sta di fatto, comunque, che Ercole d’Este, di ritorno dal campo, l’11 dicembre 1478, convocò pressantemente a corte il Boiardo, e che questi, dieci giorni dopo, nominava il cugino Niccolò da Correggio procuratore speciale a richiedere come sua sposa Taddea, figlia di Giorgio Gonzaga. I contemporanei dicono di lei ch’era bella e virtuosa, e Matteo Maria, che pure non ne parlò mai nella sua opera poetica,  ebbe comunque per la donna che gli fu devota compagna per quindici anni teneri accenti d’affetto nelle sue lettere, nonché larghe e fiduciose disposizioni nel testamento.

Nel luglio del 1480 Ercole d’Este nominò il Boiardo capitano di Modena: il governo non fu facile sia per le violenze, gli omicidi, i soprusi che turbavano la sicurezza pubblica della città, sia per le guerre che agitavano l’Italia centrosettentrionale. Matteo Maria, già allora afflitto da quella malattia (probabilmente la gotta) che doveva più tardi portarlo alla tomba, rimase a Modena due anni, venendo più di una volta esortato dal duca ad adottare provvedimenti crudeli per mantenere l’ordine pubblico e di impiccare senza esitazione chi gli cadeva nelle mani. La situazione si fece ancora più difficile allorché, agli inizi del 1482, su istigazione di Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, la Repubblica di Venezia dichiarò guerra a Ferrara: dalla parte dei veneziani si schierano Genova, lo Stato pontificio e Bonifacio III Marchese del Monferrato; dalla parte degli Estensi si schierarono invece il re di Napoli, Federico I Gonzaga marchese di Mantova, il signore di Bologna Giovanni II Bentivoglio e per ultimo Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Correvano tempi difficili per il ducato estense: nel novembre del 1482 Ferrara rischiò di cadere in mano alle milizie veneziane e Modena, dove vennero a rifugiarsi i figli del duca, divenne il più saldo punto d’appoggio dello Stato; inoltre, i Veneziani e i loro alleati attaccavano il ducato anche da occidente: Reggio e Scandiano erano quindi minacciate. Il Boiardo chiese quindi più volte di essere esonerato dalla carica non solo perché divenuta ormai troppo gravosa per la sua salute, ma anche per provvedere ai pericoli del feudo, e alla fine fu accontentato.

Il distacco di Sisto IV dall’alleanza coi Veneziani, e il suo riavvicinamento a Ferdinando I, consentì a al sovrano napoletano di inviare un esercito in aiuto del genero Ercole, e di scongiurare il peggio, anche se il Polesine fu perduto dagli Estensi. Il Boiardo poté così portare a compimento la seconda parte dell’Orlando Innamorato e dare alle stampe i primi due libri, di sessanta canti complessivi.

Ma la tranquillità non doveva durare a lungo: con decreto del gennaio 1487 il duca Ercole richiamò di nuovo il poeta da Scandiano per nominarlo capitano di Reggio; la carica questa volta durò fino alla morte e fu piena di preoccupazioni e dolori. Nell’estate del 1494 le truppe di Carlo VIII, scendendo in Italia, attraversarono il territorio reggiano: il Boiardo si adoperò anima e corpo per evitare, come meglio poté, i funesti effetti di simili passaggi di milizie straniere. Ma la fatica e la malattia ne stremarono le forze e lo condussero a morire nel dicembre di quello stesso anno.


Le opere minori

I primi componimenti letterari di Matteo Maria sono da una parte il frutto della formazione umanistica impartitagli dal nonno Feltrino, e dall’altra dell’influenza che nella cultura ferrarese dell’epoca ebbe lo zio Tito Vespasiano Strozzi.

Attorno al 1463-1464, il Boiardo scrissee i Carmina de laudibus Estensium, quindici componimenti di metro vario, dedicati alla casa d’Este e, in particolare, alle lodi di Borso e del fratello Ercole. «Dopo un rapido esordio, il giovane dichiara, in una breve saffica, la sua inettitudine a cantar la gloria guerriera di Ercole (I); tenta invece uno scorcio di storia della casa d’Este dalle origini mitiche a Niccolò III (II). Accennata la gloria di Borso, canta l’adolescenza di Ercole alla corte di Alfonso il Magnanimo (IV), poi la sua giovinezza e le sue gesta durante la guerra degli Angioni contro Ferdinando (VI), e da ultimo il suo ritorno in patria (VIII). Esalta poi la lungimirante generosità di Borso, che affida ad Ercole e Sigismondo Modena e Reggio, le grandi città dello Stato (X), e le virtù che fanno di Ercole un perfetto principe (XII)»[3]. I Carmina sono – come abbiamo testé detto – componimenti in metro vario, ma accanto al distico elegiaco, che è prevalente, troviamo anche componimenti in metri lirici oraziani e catulliani: tutto ciò, che all’epoca era tutt’altro che usuale, unitamente all’ampio sfoggio di conoscenze mitologiche, non riesce però a salvare l’opera, che rimane, come scrive il Ponte, niente di più che un’esercitazione scolastica.

Contemporanei ai Carmina, ai quali si riconnettono anche tematicamente, sono i Pastoralia, dieci egloghe di cento versi l’una, di impianto allegorico e di aperta imitazione virgiliana: cinque sono di argomento amoroso, mentre le altre affrontano temi storici ed encomiastici. «Per comune consenso i tratti più felici si ritrovano nei canti amorosi: nell’egloga V, quando Licanore rievoca la sua bella che si immerge nella acque, inserendo con grazia nel suo latino qualche accento petrarchesco (V, 67-74), e nell’ottava, allorché Meri attende impaziente l’alba (VIII, 47-53) e Bargo ricorda il dono dell’amata (VIII, 87-93). Simili tratti, che preannunciano luoghi famosi del canzoniere, suggerirono il troppo benevolo giudizio del Carducci: “si riattaccano [le egloghe] a quelle del Petrarca e del Boccaccio e splendono a luoghi di forse più elegante imitazione virgiliana”»[4]. Chiaramente l’opera tutta obbedisce ai dettami degli autori di egloghe latine che ruotavano attorno alla corte ferrarese (Battista Guarino, Tito Vespasiano Strozzi e il Tribraco[5]), ma l’opera del Nostro differisce e si distingue per una più scrupolosa fedeltà al modello virgiliano.

Di ancora minore valore e interesse sono gli «Epigrammata in distici, gli ultimi versi latini del Boiardo, scritti in occasione della congiura ordita nell’anno 1476 da Niccolò d’Este, figlio di Leonello, per impadronirsi di Ferrara. Il Boiardo mostrò sempre una particolare devozione per la linea legittima di Este, tacendo di Leonello nelle sue glorificazioni degli Estensi e accennando all’invio d’Ercole a Napoli da parte di Borso come a una spoliazione (Orlando Innamorato, II, XXV, 54): certo si compiacque sinceramente che il disegno fosse fallito; tuttavia le fredde arguzie allegoriche sui seguaci del “diamante” e della “vela”, imprese rispettivamente di Ercole e di Niccolò, non valgono a distinguere la sua voce nel coro cortigiano che salutò la vittoria del duca»[6].

La produzione latina del Boiardo risulta, insomma, meramente circoscritta all’età giovanile e ai suoi esordi letterari, e persino la sua esperienza umanistica risulta qualitativamente piuttosto ristretta[7] e limitata ad un ambito “cortigiano”. In pratica, l’attività del Boiardo “latino” si esaurisce tutta nell’esercizio di una poesia celebrativa e d’occasione, che nulla ha a che spartire con questioni etiche, linguistiche o filosofiche, né – tanto meno – con coinvolgimenti di carattere filologico ed erudito. «L’angustia dell’umanesimo boiardesco è d’altra parte testimoniata anche dalle sue scarse relazioni con letterati e umanisti non ferraresi, e soprattutto dal suo epistolario (193 lettere, che vanno dal 1460 al 1494) che, scritto interamente — con una sola eccezione — nel colorito volgare della koinè padana, è dedicato in buona parte alla trattazione di argomenti tecnici inerenti alle funzioni amministrative dello scrivente e non ospita neppure una di quelle “epistole umanistiche” di cui nel Quattrocento i dotti si servono di norma per i loro commerci culturali»[8].

Il Boiardo si dedicò anche ad alcune traduzioni: le Vite di Cornelio Nepote, la Ciropedia di Senofonte, l’Asino d’oro di Apuleio, le Storie di Erodoto e le Storie di Riccobaldo da Ferrara: per ciò che riguarda la Ciropedia, si sforzò di ricalcare con massima fedeltà la versione di Poggio Bracciolini, per le Storie di Erodoto si servì della versione del Valla, mentre per l’Asino d’oro è assai probabile ch’egli si valesse della traduzione o perifrasi già composta dal nonno Feltrino. Compose infine i Capitoli del giuoco dei tarocchi, per illustrare le ottanta carte di un mazzo i cui semi rappresentavo le passioni preminenti dell’animo umano (amore, speranza, glosia, timore), e una rappresentazione teatrale, il Timone (rimaneggiamento di un dialogo di Luciano), che nella vasta attività, promossa da Ercole I d’Este, di traduzione di commedie classiche per essere rappresentate alla corte, costituisce, come scrive il Getto, una delle prove più libere ed indipendenti, dando in tal modo l’avvio al successivo teatro dell’Ariosto.

 


Il Canzoniere

Il capolavoro giovanile del Boiardo sono gli Amorum libri tres, titolo ispirato ad Ovidio, comunemente chiamati Canzoniere, che, come abbiamo già avuto modo di dire, narrano la storia d’amore del poeta con Antonia Caprara. L’opera, come si evince dal titolo stesso, è suddivisa in tre libri, perfettamente simmetrici, di sessanta componimenti ciascuno[9]: nel primo libro si celebra il nascere della passione amorosa felicemente corrisposta; nel secondo viene espressa la delusione del poeta per l’abbandono dell’amata; mentre nel terzo vengono rievocati nostalgicamente i felici momenti di questo amore, che pare improvvisamente aprirsi a qualche nuova speranza, che si rivela però vana, tanto che il libro si conclude con dei componimenti di meditazione religiosa.

Se si considera la struttura degli Amorum libri e il periodo della loro composizione, non si può fare a meno di ammettere che molto probabilmente il poeta deve avere ordinato, riveduto e accresciuto (anche dopo il 1472) le sue poesie. «Chi potrà mai credere che sia uscito spontaneo dalla penna del poeta un insieme di componimenti che si è poi potuto prestare così docilmente e perfettamente alla divisione in tre libri, d’un ugual numero di componimenti ciascuno; un insieme che risultò composto di centocinquanta sonetti e di trenta componimenti di metro vario, cosicché si poterono avere, per ogni libro, precisamente cinquanta sonetti e dieci liriche varie; e che permise all’autore di chiudere il primo libro con sonetti che preludono alla materia del secondo, e questo con altri che lasciano presagire la materia del terzo? Se non si vuol quindi ammettere, ed è infatti supposizione poco fondata, che Boiardo si valesse per questo di poesie scritte prima del 1469, conviene ritenere assai probabile (e per tre componimenti mi pare che si possa dimostrarlo) che, dopo il ’72, egli scrivesse alcune altre poesie, che gli permettessero di conseguire quel numero, e quella simmetria, che abbiamo visto»[10]

Modello di tutta l’opera, così come avviene per tutti i poeti amorosi del Quattrocento, è ovviamente il Canzoniere del Petrarca, contaminato – però – dalla memoria dei poeti latini, dei lirici stilnovisti e di Dante. Ma ciò che rende il Boiardo diverso da tutti gli imitatori quattrocenteschi del Petrarca è un sentimento poetico‑amoroso che fa della spontaneità il suo inconfondibile tono, cioè «una gioiosa sintonia con la natura, chiamata a partecipare del suo felice amore: chieda a piene mani rose e gigli per festeggiare il suo gaudio, o cerchi nel balcone il lume della donna che lo fa leggiadro, Boiardo concilia un naturalismo schietto insieme e stilizzato che richiama le artificiose, lussureggianti verzure che incorniciano i volti perlati di dame e madonne nella magnifica pittura della sua Ferrara»[11].

I caratteri degli Amorum libri sono molteplici ed eterogenei: il lessico, non privo di latinismi, nonché il ricorso a spunti e motivi di derivazione classica, uniti ai richiami letterari di stampo cortese, stilnovistico, trobadorico e popolare, conferiscono alla raccolta una fisionomia del tutto peculiare nel panorama della lirica volgare quattrocentesca, che le ha valso la definizione di poesia “tardogotica”, ossia arcaica e tipicamente “medievale”.

Temi essenziali del canzoniere boiardesco sono l’esaltazione della bellezza femminile unitamente al senso di una delicata e fresca natura primaverile: temi che si uniscono e si fondono, perché la donna non viene psicologicamente costruita per se stessa, bensì oggettivata spontaneamente nella natura, contemplata ed adorata tutta in termini di fiorita e sorridente primavera. L’amore, dunque, non è più  introspezione psicologica di petrarchesca memoria e neppure un sentimento stilnovisticamente angelicato: è il candore vitale dell’animo, l’esplosione gioiosa e immediata del sentimento che, nei momenti di felicità, vibra all’unisono con una natura primaverile delicata e vigorosamente sbocciata, e che anche nei momenti di tristezza non coinvolge e sconvolge mai l’anima intera, perché il dolore per la passione non corrisposta tende, nei momenti poetici migliori, a smorzarsi in uno stato sereno di adesione al ritmo della natura vitale.

Scriveva il Rossi: «II Boiardo spicca alto il volo ad un’opera di possente originalità, II suo Canzoniere è una meraviglia; il suo petrarchismo non va oltre la scorza, e spesso si rinnovella di fronde non meno vivide delle primitive; l’ispirazione e i concetti vengono dai moti di un cuore che ama davvero e che si dibatte nello strazio della gelosia, che non sa rinunciare all’ideale lungamente vagheggiato. E la storia di quell’amore noi la riviviamo commossi come alla lettura d’un poeta moderno»[12]. Questa sincerità del Boiardo va comunque inquadrata entro i termini in cui il poeta si pone rispetto alla propria opera d’arte, che è comunque prodotto della sua immaginazione, anche se sono autentici i sentimenti da cui essa scaturisce.

«Se si vuol dire infatti con quella lode che il Boiardo non è un poeta compassato, un sapiente costruttore di poesie ben levigate e ben connesse, e impeccabili in tutto, salvo che nel non aver un’anima, che val quanto dire una loro ragione di essere, la lode di sincero, gli spetta interamente. Tutto quello che egli dice in questo suo Canzoniere, è stato da lui sinceramente sentito e pensato come oggetto dell’arte sua; egli ama la sua arte, ama la materia che le affida, e poiché gli riesce di trasfondere nella sua poesia un calore che gli scaldava veramente l’anima, e delle visioni che fiorirono veramente nella sua immaginazione egli è poeta schiettissimo, almeno nella maggior parte delle sue poesie.

Ma se si dovesse per sincerità intendere un trapasso ne’ suoi versi della realtà immediata, nella quale il poeta viveva, cosicché il suo Canzoniere, oltre che uno specchio della sua immaginazione di poeta innamorato, dovesse essere anche una ingenua riproduzione del paesaggio nel quale quell’amore si è svolto, e dei sentimenti che lo hanno veramente accompagnato, e della donna quale essa era veramente, e delle circostanze di tempo e di luogo che vi si riferiscono, quella lode andrebbe temperata assai»[13].

Il paesaggio stesso all’interno del quale questo amore si svolge, viene dipinto in modo assai generico, potremmo dire sempre solo e soltanto come colore e mai come forma, e quel colore il Boiardo lo deriva dai poeti latini, e particolarmente da Lucrezio, Virgilio, Tibullo, Ovidio e Claudiano. Egli non si guarda attorno, ma fruga nella memoria, incastonando nei propri versi perle di un fiorito decorativismo (fiori, selve ombrose, rivi correnti, alti poggi, ecc.) che, pur nella loro indeterminatezza, dovevano impreziosire e rendere più fulgido quel serto che voleva posare sul biondo capo di Antonia Caprara.

In campo metrico il Boiardo, oltre al frequente ricorso all’acrostico[14] per indicare il nome dell’amata (ricavabile anche dalle prime lettere iniziali delle prime quattordici liriche), predilige i ritmi spiegati, per versi con gli accenti ravvicinati e fortemente ribattuti, per anafore[15], ritornelli[16] e rime al mezzo[17] al fine di ottenere un effetto musicale più sonoro.

«Ma è nella costruzione di complesse strutture metriche che si manifesta più chiaramente il gusto arcaizzante, tardogotico e “nordico” del Boiardo lirico: il suo Canzoniere ospita, infatti, tra le rime di vario metro, componimenti di fattura estremamente ricercata, nei quali la disposizione dei versi e delle rime nelle strofe obbedisce alle esigenze strutturanti di gusto tipicamente medievale piuttosto che alla richiesta di armoniosa musicalità; in altri casi, invece, ci troviamo di fronte a forme con ritornello che si avvicinano a metri di grande diffusione nel Quattrocento come la barzelletta e il canto carnascialesco. L’originalità di simili esperimenti è talvolta sottolineata esplicitamente dall’autore (che parla di “rime ascose e crude” e di “rime inaudite e disusati versi”), ma per alcuni di essi si deve ricordare il precedente della metrica francese e provenzale, cui in un caso il Boiardo fa diretto riferimento, intitolando un componimento Rodundelus integer ad imitacionem Ranibaldi Franti (quest’ultimo è probabilmente un trovatore di cui non si hanno notizie; la parola “rodondelus” rinvia comunque al “rondel” o “rondeau” francese)»[18].

Il nuovo corso culturale voluto dal duca Ercole I, spinse il Boiardo ad aderire letterariamente agli indirizzi e ai gusti della corte ferrarese, per dedicarsi a generi meno impegnativi e più adatti ad una fruizione cortigiana, abbandonando definitivamente la poesia lirica, che gli aveva consentito di esprimere, con originale colorita rapidità, l’invito, «ch’egli mano mano allarga al mondo, a partecipare i suoi sentimenti»[19].


L’Orlando innamorato

L’opera a cui resta indissolubilmente legata la fama del Boiardo è l’Orlando innamorato, un poema cavalleresco in ottave, diviso in tre libri e rimasto incompiuto. Il conte di Scandiano lavorò più alacremente alla sua stesura dal 1476 al 1482, tanto che nel 1483 usciva a Reggio un’edizione, che a noi non è pervenuta, dei primi sessanta canti.

L’Orlando innamorato si presenta innanzi tutto come un “poema cortigiano”, come un’opera che trova la sua iniziale ragione pratica nell’esigenza di soddisfare i gusti di quella elegante e un poco fatua società ferrarese, tutta immersa nella passione fantastica delle armi e degli amori, nel sentimento primitivo della forza e della prodezza, nell’ideale mondano e raffinato della cortesia e della nobiltà cavalleresca, nella dilettazione gioiosa dell’amore come evasione e fuga da un impegno vitale più drammaticamente vissuto. In questa intenzionalità cosciente di rappresentare, sia pure con qualche sfumatura di sorriso, il mondo delle armi e degli amori si attua appunto la funzione dell’Innamorato come poema di corte, come libro di divertimento e di passatempo per quei cortigiani che amavano ritrovare nei poemi cavallereschi la rappresentazione “filmata” delle loro più o meno fantastiche idealizzazioni. Ma in questo ambito contingente e pratico il Boiardo inserisce un suo più genuino sentimento poetico.

Alla base della struttura del poema ci sono due temi essenziali che provocano il continuo scatto dinamico dell’azione: l’amore e il meraviglioso, due elementi, irrazionali per definizione, che sembrano spesso convergere l’uno verso l’altro e volersi collocare come il simbolo trionfante di una forza mobile e continuamente sfuggente. Del resto, già nel sonetto introduttivo agli Amores Libri il conte di Scandiano aveva esplicitato la sua convinzione che, come scrive il Contini, «l’inerzia del cuore» giustifichi la sua «morale amorosa […] (che, per sé, dal rimorso petrarchesco parrebbe invece declinare verso mondi epicurei): natura davvero lieta, felice ottimismo. Non dunque polemica antipetrarchesca, ma convinzione appartenente ad un sistema ben compatto è il programma del sonetto introduttivo: “Ma, certo, chi nel fior de’ soi primi anni / sanza caldo de amore il tempo passa, /se in vista è vivo, vivo è sanza core”. Che sarà poi esattamente, portavoce Agricane, la sentenza fondamentale dell’Innamorato (I, XVIII, 46): “Perché ogni cavallier che è senza amore, / se in vista è vivo, vivo è senza core”»[20]. La vicenda dei paladini è, insomma, un’avventura errante e una lotta continua contro forze misteriose per conquistare l’amore: sfida avventurosa e inesausta che, in realtà, sembra non avere una meta precisa, sempre ritornando al punto di partenza per ricominciare daccapo. L’amore diviene così quasi l’espressione di una forza magica, il simbolo di una fortuna irraggiungibile, che, come tale, non è mai veramente possedibile.

Più che di amore, infatti, bisognerebbe parlare per l’Innamorato di una ricerca continua, di un’aspirazione, quasi di una tensione verso l’amore. La felicità, si direbbe, non consiste nel possesso dell’amore, ma in questa avventurosa ricerca di esso (la presenza femminile, ad esempio, non è quasi mai possesso, non è contemplazione, non è analisi interiore: è molla esclusiva che dà lo scatto al dinamismo magico dell’avventura). Senonché questa aspirazione, questa tensione, questa lotta non provoca mai (neppure per un istante) tormento, dolore, angoscia (come avviene, ad esempio, nel Tasso) perché tutta si cala e risolve nella gioia stessa dell’azione, dell’avventura che diviene fine a se stessa, ragione esclusiva dell’esistenza umana.

Di qui nasce nell’opera quel senso di mobilità continua senza un ordine e una direzione precisa, per cui qualche critico ha parlato di mondo “orizzontale” anziché “verticale”: perché manca un vero e proprio ordine di valori “verticalmente” collocato: le armi del ciclo carolingio hanno perduto ogni loro epica forza religiosa (e costituiscono ormai solo il sottofondo un po’ uniforme e monotono su cui è tramato questo gusto dell’avventura inesauribile) e gli amori non si reggono tanto per se stessi, ma vivono come molla dell’azione, come espressione di una “fortuna mobile ed incerta” che agita la vicenda degli uomini. Ecco perché leggendo questo poema non solo si ha l’impressione che le avventure non finiscano mai, ma che non ci sia nessuna ragione perché debbano avere un termine: poiché altrimenti mancherebbe la ragione stessa dell’esistenza umana.

Nell’Innamorato anche i comuni oggetti del mondo cavalleresco hanno una loro funzione d’avventura, sono strumenti magici del movimento, feticci del dinamismo vitale, che si attua in questa specie di corsa inebriata e inesausta dei paladini verso una sorte arcana: l’anello di Angelica; la lancia d’oro di Astolfo; la spada di Orlando, Durindana; il cavallo di Ranaldo, Baiardo; il castello di Albracca; la fonte di Merlino. Nell’oggettivazione avventurosa della narrazione, scandita attraverso la molla dinamica e irrazionale degli elementi magici, si esorcizzano spontaneamente i fantasmi e le inquietudini dell’anima e si celebra una vita sostanzialmente gioiosa come movimento, ritmo, dinamismo. La tensione si scioglie in felicità, perché i fantasmi interiori si liberano oggettivandosi in mostri, serpenti, draghi, giganti, forze antagonistiche di paladini e di eserciti, magari ponti, fiumi, laghi misteriosi e giardini incantati. Gli stessi personaggi più ancora che creature vive e individuate sono oggetti dell’animazione, strumenti dell’azione inesauribile.

La coerenza psicologica dei personaggi ha una relativa importanza nell’Innamorato: non costituisce il centro dell’interesse del poeta. Così se prendiamo in esame una delle figure più riuscite di tutto il poema, Brunello, vediamo che ciò che conta non è il personaggio con la sua psicologia di ladro, ma il suo dinamismo sfrenato e irresistibile che mette a soqquadro il mondo un po’ stereotipato dei paladini, e si fa molla scattante di soluzioni impreviste. Il suo carattere precipuo è l’inafferrabilità magica ed evanescente che provoca nuove linee e nuovi ritmi. È il simbolo di un’avventura fattasi paradossalmente astratta e irreale: come limpido movimento, semplice ritmo, azione pura. Brunello è quasi il dinamismo magico e sfuggente dell’avventura divenuto personaggio; in lui l’elemento magico, come pura forza dinamica, degrada il mondo cavalleresco sul piano del comico e si risolve in chiave di ironia e di scherzo fantastico.

Nell’Innamorato i personaggi, gli episodi, le scene, i racconti sono sempre frammentari, eppure il tono dell’opera è fortemente unitario, e quei frammenti, ora più ora meno riusciti, non valgono veramente per se stessi: sono infiniti momenti della narrazione varia e mutevole, in cui si dispiega il senso di una vita come avventura continua, come tensione dinamica risolta in azione immediata e istintiva, sollevata in un regno di liberazione fantastica. Così Astolfo, millantatore e galante, è il rovescio del paladino: la forza delle armi in lui vive come pura millanteria, l’amore si degrada a cortesia galante e un po’ buffonesca; e tuttavia proprio l’intervento di un elemento magico, la lancia d’oro che abbatte ogni nemico, sarà ciò che varrà a riscattarlo dalla sua vanità pomposa e millantatoria; diverrà in qualche modo eroico suo malgrado attraverso la mediazione dell’elemento magico: è la grande intuizione poetica che solo l’Ariosto saprà sfruttare e condurre ai limiti di un’as­soluta coerenza fantastica, celebrando nella figura di Astolfo l’epopea del meravi­glioso. Agricane, personaggio più complesso, è l’unico eroe tragico del poema: è la vittima inconsapevole di questa dualistica tensione fra armi e amore: la sua primi­tiva immediatezza di guerriero ignora la problematicità e l’incertezza dell’amore, e cade vittima di questa antitesi non risolta. Ranaldo, che odia Angelica dopo averla amata, e che poi di nuovo la riama per incanto magico, è la figura in cui s’incentra la mutevolezza contraddittoria e paradossale dell’amore. Ma il vero pro­tagonista ideale del poema è Orlando, appunto innamorato: l’antico eroe per eccel­lenza della forza epica e guerriera, che ora insegue vanamente (pur sfiorandolo di continuo) un sogno d’amore sfuggente e impossibile; colui che spazia inesausto attraverso mille vicende, sfidando e vincendo le forze del meraviglioso per conqui­stare l’amore di Angelica (entra nel regno di Dragontina; distrugge il regno della Fata Morgana; vince gli incanti di Falerina).

La controprova di quanto abbiamo cercato di illustrare è costituita dal personaggio di Rodamonte, il quale non è mosso nella sua azione né dall’amore né dal gusto del meraviglioso; ma qui ciò che è significativo è appunto l’assenza di questi due elementi strutturali del poema. Rodamonte è l’immagine iperbolica e sfrontata di questo gusto dell’azione e della forza come sfida, vanto, orgoglio e vittoria. Egli è perciò figura ambigua e inquietante (sia pur sfumata in chiave di paradosso e di ironia). Dove la tensione del sentimento non esorcizza la propria carica irrazionale calandosi nell’oggettivazione degli elementi magici, quando cioè si rinchiude in se stessa e non si libera mediante l’amore e il meraviglioso, ecco che l’irrazionalità tende a esplodere in forme di pura e scatenata violenza, e crea perciò, secondo precisi schemi psicologici, un personaggio che è simbolo esasperato di una concezione della vita come azione impetuosa, come vitalismo straripante e minaccioso.

Questo tono unitario dell’Innamorato lo si vede anche nella cura che l’autore ha dal punto di vista metrico, dando vita ad un’ottava che, diversamente da quella armoniosa del Poliziano, assume una conformazione spiccatamente narrativa, adeguando la propria struttura (con pause e suddivisioni interne) agli accadimenti, ai tempi e agli spazi in cui si dipana l’azione dei personaggi. Nonostante l’impetuosa vivacità della narrazione, insomma, la struttura del poema, dal punto di vista retorico e stilistico, è in molti casi assai più raffinata ed attenta di quanto a prima vista potrebbe si potrebbe pensare: oltre al frequente impiego dell’allitterazione[21] va notato anche «il ricorso del Boiardo alla tecnica (non rara nei componimenti in ottave) del collegamento tra un’ottava e l’altra, effettuato tramite la ripresa di lemmi o di sintagmi identici (o poco variati) in due ottave consecutive. Tale collegamento è particolarmente evidente quando questi lemmi o sintagmi compaiono nei versi finali di un’ottava e in quelli iniziali della successiva»[22].

L’Innamorato è il poema che descrive ed esalta il senso dell’irrazionale intravisto sotto il profilo dell’amore e dell’elemento magico. Ciò che nella vita umana è mobile e incostante è l’amore, il quale a sua volta è il simbolo di una fortuna sfuggente e inafferrabile. Ma la virtù umana, simboleggiata nella forza e nella prodezza dei paladini, è un dato di fatto certo e inoppugnabile, che sempre trionfa mediante la lotta. Il valore dell’uomo è in questo suo coraggio che non si arrende, in questo senso di sfida gioioso e costante, che si volge come a sua irrinunciabile meta verso le forze dell’irrazionale, che quasi automaticamente lo attraggono nel loro vortice incessante e che chiedono ogni volta di essere sfidate e vinte per riprendere subito il loro eterno processo dinamico.

In questo senso dinamico dell’avventura come unica e gioiosa esperienza vitale in cui si realizza la “virtù” individuale dell’uomo, si esprime l’umanistica fede del Boiardo nella vita come azione e lotta inesauribile, o, come è stato scritto, il senso della spontaneità amorosa ed energica.

Ci sono stati pochi autori nella nostra letteratura che hanno espresso con tanto spontaneo candore la fede nelle forze più immediate e primigenie della vita umana: l’amore e il desiderio dell’azione sono le molle dell’esistenza; la lotta è ricerca vana e inesausta; l’amore non è possedibile; la vita sembra avventura in un regno di favole arcane: eppure la fede vitale del Boiardo non si arrende un attimo e ritorna sempre a credere nella possibilità umana di attuare un’esistenza che è ricca di fascino, proprio perché è ricerca senza meta, avventura incessante, sfida sicura e felice contro le magiche forze dell’irrazionale.

Questa è la nuova fede che l’uomo nato dall’Umanesimo ha ritrovato attraverso un più genuino contatto col riscoperto mondo della Natura: l’uomo ha in sé le sue possibilità di lotta contro la fortuna e il sereno e gioioso equilibrio morale che gli consente di non soccombere mai.

 

Fortuna del Boiardo

Sono passati più di cinquant’anni da quando Carlo Dionisotti pronunciò in un lontano convegno quella sferzante e ironica apostrofe destinata ancora oggi a rimanere impressa nella mente di ogni boiardista: «Se la storia fosse maestra della vita, ci sarebbero buoni motivi perché la breve e squallida storia della fortuna e sfortuna del Boiardo, dal Quattrocento all’età nostra, fosse prescritta alla meditazione di ogni italianista in erba e periodicamente riproposta, come gli esercizi spirituali della Compagnia di Gesù, a ogni membro della confraternita degli italianisti. Perché sarebbe difficile trovare un altro poeta, così genuino, secondo che oggi a noi sembra, così sano, semplice e vigoroso, ai danni del quale si siano più lungamente e apertamente dispiegate l’ignoranza e la noncuranza, la prepotenza e l’insolenza dei presunti lettori e critici, insomma di noi stessi, membri della confraternita, che non possiamo certo illuderci di essere costituzionalmente migliori dei nostri predecessori, e che pertanto, sebbene innocenti, senza che ci costi fatica, nei confronti del Boiardo, certo dobbiamo ritenerci potenzialmente colpevoli, in modo analogo, nei confronti di altri»[23].

Correva l’anno 1969, e, da allora, sicuramente, molto è cambiato grazie ai nuovi contributi critici; ma, ancora oggi, si ha l’impressione, come scriveva Italo Calvino che: «La sua fortuna fu anche la sua sfortuna; l’amore che altri poeti gli tributarono fu tanto carico di sollecitudine a portargli aiuto, come a creatura inadatta a vivere con le sue forze, che finì per farlo eclissare e scomparire dalla circolazione. Nel Cinquecento, ristabilitosi il primato dell’uso toscano nella lingua letteraria, il Berni riscrisse tutto l’Orlando innamorato in “buona lingua” e per tre secoli il poema non fu ristampato se non in questo rifacimento, finché nell’Ottocento non fu riscoperto il testo autentico, il cui valore per noi sta proprio in ciò che i puristi censuravano: l’essere un monumento dell’italiano diverso che nasceva dai dialetti della pianura padana.

Ma soprattutto l’Innamorato fu oscurato dal Furioso, cioè dalla continuazione che Ludovico Ariosto intraprese a scrivere una decina d’anni dopo la morte del Boiardo, una continuazione che fu subito tutt’altra cosa: dalla ruvida scorza quattrocentesca il Cinquecento esplode come una lussureggiante vegetazione carica di fiori e di frutti.

Questa fortuna-sfortuna continua: eccoci qui a parlare dell’Innamorato solo come d’un “antefatto” al Furioso, a sbrigarcene come in un “riassunto delle puntate precedenti”. Sappiamo di fare cosa sbagliata e ingiusta: i due poemi sono due mondi indipendenti; eppure non possiamo farne a meno»[24].

In estrema sintesi Boiardo viene spodestato dal continuatore del suo capolavoro: la   lotta per il canone, essendo la letteratura una sorta di mattatoio cartaceo, ha messo   l’autore del Furioso sul podio, e il povero conte di Scandiano, «un autore simpatico» lo   aveva definito Gianfranco Contini[25], in un angolo a leccarsi miseramente le ferite.

Già il Foscolo, ad esempio, aveva notato la superiorità dell’Ariosto poiché aveva nobilitato i personaggi del suo predecessore, impedendone la caduta in una dialettalità indiscriminata, non depurata dalle scorie di una certa affettazione.

Allo stesso modo il De Sanctis, che non fu certo tenero con l’Ariosto per via della sua inconsistente vena civile, nei riguardi del Boiardo scrisse: «Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sé un immenso materiale agglomerato da’ secoli; ma quella materia la fa sua, scegliendo, scegliendo, combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanità, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de’ suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell’artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo: l’immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell’alta immaginazione artistica che si chiama “fantasia”. Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto perciò, in un mondo così fantastico, rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più desiderabile, la magia dello stile»[26].

Ma con la critica più recente il conte di Scandiano recupera il posto che merita nella storia della letteratura italiana; e, tra i tanti autori che hanno contribuito a ciò, ci piace ricordare Gesualdo Bufalino, che nella sua scintillante ed acutissima introduzione ad un’antologia delle opere del Boiardo[27], illustra la velocità ed il dinamismo del poema, una volontà di dire che deborda dalle labbra e cresce impetuosamente su se stessa, per la quale il poema diviene un corpo in movimento, un universo gonfiabile ad libitum, giungendo a paragonare l’Innamorato a «una nostrana Mille e una Notte, in cui Matteo‑Shahrazad incatena, non due orecchie di sultano soltanto, ma un’intera brigata di baroni e dame sedotti».

*** NOTE ***

[1] Tito Vespasiano Strozzi (Ferrara 1424 – 1500 ca), discendente da un ramo di esiliati della famiglia fiorentina, fu educato alla cultura umanistica e allo studio dei classici. Poeta umanista di grande valore, scrisse una serie di raffinate elegie in latino e alcuni sonetti in volgare. Fu poeta di corte di Borso ed Ercole d’Este. Tra le sue opere più importanti vanno ricordati i libri dell’Eroticon – dove, cantando l’amore prima per Anzia, poi per Filliroe, si manifesta la fusione dei classici latini con l’ispirazione petrarchesca – e il poema epico intitolato Borsiade, dedicato a Borso d’Este. Fu anche autore di un volgarizzamento del De vita solitaria di Francesco Petrarca.

[2] (Verona, 1374 – Ferrara, 4 dicembre 1460) fu avviato allo studio dei classici latini dal giurista e umanista Giovanni Conversini e proprio studiando la letteratura latina si incuriosì a proposito degli autori greci tanto decise di cominciare a studiare la lingua greca. Per tale motivo nel 1388 si trasferì nella capitale bizantina dove fu presentato ad Emanuele Crisolora, che decise di fargli da maestro. Tuttavia nel 1393, quando i turchi presero d’assedio Costantinopoli, Guarino, che aveva ormai raggiunto la piena fluenza in greco, fece ritorno in Italia. Dapprima insegnò privatamente greco a Venezia, poi fu a firenze sulla cattedra che era stata di Crisolora, e infine nuovamente a Venezia per aprire una scuola di lingua greca che, a pochi giorni dall’inaugurazione, fu letteralmente presa d’assalto da quanti volevano iscriversi. Nel 1420 accettò la cattedra di lingua e letteratura greca a Verona anche se lo stipendio era di appena 150 scudi. Nel 1430  Niccolò III d’Este lo chiamò a Ferrara per affidargli l’educazione del figlio Leonello, erede al trono. E quando nel 1441 Leonello divenne marchese fece in modo che Guarino venisse eletto alla cattedra di eloquenza e di lettere latine e greche presso l’Università di Ferrara con un contratto rinnovabile ogni cinque anni.

[3] Fiorenzo Forti, BOIARDO, Matteo Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 11 (1969); da http://www.treccani.it/enciclopedia/matteo-maria-boiardo_%28Dizionario-Biografico%29/

[4] Fiorenzo Forti, op.cit.

[5] Trìbraco, soprannome di Gaspare de’ Tirimbócchi (Reggio Emilia 1439 – 1493 circa), fu umanista e scrittore latino. Dopo aver compiuto a Modena i suoi studi, si trasferì a Ferrara verso il 1458, dove seguì le lezioni di Guarino Veronese, e dove visse alla corte di Borso d’Este. Fu amico di  Tito Vespasiano Strozzi e di suo nipote Matteo Maria Boiardo. Nel 1464 fu a Modena come maestro di grammatica, successivamente a Venezia e poi a Mantova, alla corte di Federico Gonzaga, del cui figlio Francesco fu precettore. In lingua latina lasciò poemetti, elegie, epigrammi, egloghe e satire.

[6] Fiorenzo Forti, op.cit.

[7] Non va dimenticato che il Boiardo non conosceva il greco, e che – per i volgarizzamenti di testi greci commissionatigli dalla corte – egli si servì di versioni latine.

[8] Mario Martelli,  Quattrocento latino e volgare – Centri minori, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 238-239.

[9] Cinquanta componimenti sono sonetti e dieci sono poesie in altro metro.

[10] Carlo Steiner, Il Canzoniere del Boiardo, in: Matteo Maria Boiardo – Il Canzoniere – UTET, Torino, 1927, pag. XIV.

[11] P. Gibellini, P. Oliva, G.Tesio – Lo spazio letterario, storia e geografia della letteratura italiana – La Scuola, Brescia, 1989, pag. 148.

[12] Vittorio Rossi, Giornale storico della letteratura italiana, vol. XXV, pag. 405.

[13] Carlo Steiner, op. cit., pag. XXX, XXXI.

[14] Componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi, lette in sequenza, formano una parola o una frase.

[15] L’anafora è una figura retorica che consiste nel ripetere una o più parole all’inizio di frasi o di versi successivi, per sottolineare un’immagine o un concetto.

[16] Il ritornello è una strofa poetica o un brano musicale che si ripetono identici nel corso di una composizione.

[17] La rima al mezzo (o rimalmezzo) è una rima tra l’ultima parola di un verso e una parola nel mezzo di un verso successivo o dello stesso verso; è detta anche rima interna.

[18] Mario Martelli, op. cit., pag. 239-240.

[19] Gianfranco Contini, Breve allegato al canzoniere del Boiardo, in Esercizi di lettura, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1974, pag. 228.

[20] Gianfranco Contini, op. cit., pag. 229.

[21] «È una figura retorica di tipo morfologico che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi sia all’inizio di due o più parole sia all’interno di esse. L’effetto di parallelismo fonico che deriva dall’allitterazione si riflette sui significato, ad esempio sottolineando i rapporti fra le parole». in Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano, 1978, pag. 18.

[22] Mario Martelli, op. cit., pag. 244.

[23] C. Dionisotti, Fortuna e sfortuna del Boiardo nel Cinquecento, in Il Boiardo e la critica contemporanea (Atti del Convegno di Studi su Matteo Maria Boiardo (Scandiano-Reggio Emilia, 25-27 aprile 1969), Olschki, Firenze, 1970, pag. 221; poi anche in C. Dionisotti, Boiardo e altri studi cavallereschi, a cura di Giuseppe Anceschi e Antonia Tissoni, Benvenuti, Interlinea, Novara, 2003.

[24] L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1970.

[25] Gianfranco Contini, op. cit.

[26] Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, III Dal Petrarca al Boiardo, a cura di Luigi Russo, Universale Economica, Milano, 1950, pag. 140.

[27] Matteo Maria Boiardo, Opere, scelta e introduzione di Gesualdo Bufalino, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1995.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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