Linea Biografica
Nato a Firenze nel 1432, secondo di cinque fratelli, da Francesco Pulci e Brigida de’ Bardi (i Pulci erano una famiglia antica e nobile, ma ormai in netto declino sul piano economico e sociale), alla morte del padre (1452) Luigi dovette provvedere, con il fratello maggiore Luca, al mantenimento della famiglia, giacché l’eredità paterna si limitava ad una modesta casa e ad un mulino in Mugello.
Entrò allora al servizio, come scrivano e contabile, di un ricco signore fiorentino che lo trattò amichevolmente e che forse lo introdusse alla corte medicea (1461), dove incontrò la simpatia e la protezione di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, allora appena dodicenne, al quale Luigi si legò (nonostante il divario d’età) con un intenso sentimento di amicizia affettuosa, tra il paterno e il fraterno, ma sempre rispettoso del distacco sociale ed intellettuale che lo separava dal futuro signore di Firenze. Negli anni seguenti le condizioni di vita di Luigi si fecero ancora più gravi a causa del fallimento del fratello Luca (1465), che aveva aperto un banco in Firenze ed era rimasto coinvolto in pericolose speculazioni bancarie. Coinvolto però ingiustamente egli stesso nel fallimento e perseguitato dai creditori dovette fuggire da Firenze, con il fratello Bernardo, a Vernia e nel suo podere in Mugello. Poté tornare in città nel 1466 con l’aiuto di Lorenzo de’ Medici, il quale gli affidò alcune missioni diplomatiche a Camerino, Napoli – presso gli Aragonesi – mentre ferveva l’agitazione per una impresa contro i Turchi e Roma, senza tuttavia avere mai nella corte medicea uno stabile impiego. Nel 1469 Luca fu rinchiuso alle Stinche[1], dove morì l’anno seguente; così Luigi dovette provvedere anche alla famiglia del fratello. Ma per colmo della disgrazia, anche il fratello Bernardo, a cui Luigi aveva affidato la cura degli interessi comuni, lasciò andare in rovina ogni cosa.
Lorenzo de’ Medici ebbe carissimo Luigi Pulci almeno sino al 1473, quando il mutato clima culturale alla corte medicea, con l’avvicinamento del Magnifico all’Accademia Platonica di Marsilio Ficino e alla letteratura impegnata di Angelo Poliziano, fecero sì che il Pulci – in questo nuovo contesto – divenisse persona, se non propriamente scomoda, di certo non del tutto gradita, sia per i sonetti ingiuriosi che fin dal 1465 aveva scambiato con Bartolomeo Scala[2] e per la grave contesa con il prete‑poeta Matteo Franco[3], con il quale scambiò una serie di violenti sonetti in cui entrambi si scagliarono reciprocamente ingiurie, allusioni maligne e turpi insinuazioni; ma, soprattutto, per l’ancora più grave contrasto con il Ficino sull’immortalità dell’anima: le posizioni religiose di Luigi Pulci, ironiche e dissacranti, le sue idee anticonformiste su molti aspetti della dottrina, che sfioravano in qualche caso l’eresia, nonché il fatto che egli si fosse dedicato da tempo alla magia, unitamente ai sonetti scagliati contro l’austero filosofo, destarono una forte reazione in quest’ultimo, che lo tacciò apertamente di irreligiosità, tanto che un frate agostiniano giunse ad accusarlo apertamente dal pulpito. È forse per questi motivi che Luigi si allontanò dalla corte medicea per passare al servizio del condottiero Roberto di Sanseverino[4] (1473), che seguì in tutti i suoi viaggi, rimanendo peraltro devoto a Lorenzo, al quale lo legarono per tutta la vita amicizia e riconoscenza profonde.
Tra il 1473 e il 1474 Luigi sposò, col favore di Lorenzo, Lucrezia degli Albizzi e mise su casa con cento fiorini prestatigli dal Magnifico. Nel marzo del 1481 fu nominato dal Sanseverino capitano di Val di Lugana, ch’era un suo feudo che aveva avuto con altri dal duca di Milano, ma egli amava di starsene quando poteva in Firenze, e rifiutò per questo tale ufficio. Negli ultimi anni il Sanseverino pensò di nominare Luigi suo procuratore fisso a Firenze con un discreto stipendio, in quanto, per l’amicizia con Lorenzo, egli serviva benissimo a mantenere attivi i rapporti fra i due: sarebbe stata quella serenità e sicurezza economica cui tanto aspirava il poeta. Ma durante il servizio del Sanseverino al soldo dei Veneziani, avvenne che il Pulci nel 1484 si ammalò lungo il viaggio e morì a Padova, tra l’ottobre e il novembre. Pare che non fosse sepolto in terra consacrata a causa della fama di empietà che anche a nella città veneta doveva essere arrivata, probabilmente con molte esagerazioni.
La rivolta del Pulci
Il Pulci è raffigurato in un ritratto della cappella Brancacci come un uomo sgraziato e malinconico; e, d’altronde, egli stesso, come risulta da qualche lettera, si considerava non bello. Il suo fisico travagliato da frequenti malattie, le condizioni economiche piuttosto misere, il suo carattere estremamente eccitabile e la sua cultura non giunta a perfetta maturazione gli resero difficile l’esistenza in quella Firenze medicea ricca di denaro, di raffinatezza, di arti e di studi.
Tuttavia egli si mantenne sempre uomo cordiale e simpatico, espansivo e affettuoso verso gli amici sinceri, e soprattutto non perse mai quella sua personalissima capacità di guardare con libertà e spregiudicatezza alla vita degli uomini, da lui stesso definita « uno zibaldone mescolato di dolce ed amaro e mille sapori vari ». Se in lui vi fu come una sorta di aspirazione alla protesta e alla rivolta, questa stemprò tutta in un’allegria di immagini e di colori in cui realtà e sogno si confondevano sul piano fantastico di una beffarda e bizzarra irrealtà. Nasce così quel ridere caratteristico del Pulci, sorta di inconscia protesta, quasi fisiologica, nei confronti della vita e del mondo; mezzo per esorcizzare i contenuti di una realtà costrittiva, e al tempo stesso per renderli accettabili, ma su un piano diverso, non più di serietà autentica, bensì di evasione e liberazione psicologica.
Tutto quanto si è appena detto appare chiaramente nelle pagine del Morgante (l’opera per la quale il nome del Pulci permane nella storia della nostra letteratura), un poema di argomento cavalleresco in ventotto canti, scritto forse su suggerimento di Lucrezia Tornabuoni (madre del Magnifico), di cui i primi ventitré furono composti fra il 1460 e il 1470, con lo scopo di dare una forma meno rozza e più signorile all’anonimo cantare quattrocentesco Orlando, mentre gli ultimi cinque, composti fra il 1470 e il 1480, attingono la materia da un altro poemetto intitolato La Spagna in rima. Il pulci, quindi, non aveva all’epoca, «né molto probabilmente ebbe in seguito, una concezione organica e unitaria dell’opera; la quale venne via via maturando, ampliandosi e arricchendosi con gli anni, e diventando a poco a poco lo specchio dei mutevoli umori e delle bizzarre fantasie, dei sogni e dei pensieri dello scrittore»[5]. Il Morgante nasce perciò sulla base di una letteratura popolare e, malgrado i suoi intenti di nobilitazione stilistica, si attiene ai toni prevalenti di quella poesia realistico‑borghese che (oltre a comprendere i cantari trecenteschi) va da un Rustico di Filippo a un Angiolieri, da un Folgore di San Giminiano (per non parlare del Boccaccio e del Sacchetti) sino al Burchiello (e proseguirà fino a un Berni e a un Folengo).
Orlando, sdegnato per le calunnie di Gano di Maganza, lascia la corte di Carlo Magno, ormai vecchio e rimbambito, e va alla ventura nelle terre di Paganìa, giungendo presso un conventoi cui monaci sono soggetti alle vessazioni di tre giganti: Orlando ne uccide due e risparmia il terzo (Morgante), che si converte al Cristianesimo e che, armato del batacchio di una campana, diventa il suo umile e fedele scudiero. Intanto altri tre paladini franchi (Rinaldo, Ulivieri e Dodone) hanno lasciato Parigi per cercare Orlando e da questo momento la narrazione procede lungo due filoni paralleli, raccontando i viaggi e le imprese di Orlando e quelle degli altri guerrieri. Morgante incontra per strada il “mezzogigante” Margutte, di cui diventa amico e insieme al quale compie una serie di imprese eroicomiche (inclusa una gara di beffe ai danni di un povero oste. I due si improvvisano cavalieri di ventura e salvano la giovane Florinetta prigioniera di due giganti, per riconsegnarla al padre. Margutte muore per un attacco di risa provocato da una beffa ordita dal compagno Morgante, il quale muore a sua volta per la puntura di un granchio mentre porta in salvo una nave con i paladini di Francia. Negli ultimi cinque cantari la Francia è invasa dai mori di Spagna guidati dal re Marsilio, d’accordo con il traditore Gano: quest’ultimo attira Orlando e la retroguardia cristiana in un agguato a Roncisvalle, sui Pirenei, dove il paladino si batte strenuamente e muore dopo un’eroica resistenza. Carlo Magno, giunto tardi per salvare Orlando, ma in tempo per annientare le armate dei mori, scopre e riconosce il tradimento di gano, per cui giudica e punisce il ribaldo facendolo squartare.
Il Pulci scrive un poema cavalleresco non tanto perché lo interessi la materia cavalleresca in se stessa (la quale si riduce, in realtà, ad una semplice ed esteriore coreografia), né per una vera capacità narrativa, di cui, anzi, è sostanzialmente privo, né ancora per un interesse a costruire dei veri e propri tipi psicologici, bensì perché nessun altro genere letterario poteva offrire – come ha notato giustamente il Getto – una così vasta gamma di possibilità espressive a quel suo bisogno d’avventura e a quella sua ansia di esplorazione che tende a risolversi in una sorta di anarchia dell’immaginazione incalzata da un bisogno avventuroso di inaudito e di strano.
Ora in questo ambito di eroi e di paladini, codificati nei loro atteggiamenti da un’antica Tradizione cavalleresca, ma già degradata a un medio livello borghese e plebeo dalla visione popolaresca dei canterini[6], il Pulci immette violentemente la sua simpatia per un mondo deformato non solo in senso borghese e plebeo, ma addirittura canagliesco ed eversore: Margutte diviene così il simbolo rovesciato dell’epico eroe della cavalleria, in cui alle virtù e all’eroismo si sostituiscono i vizi e ogni sorta di atteggiamento bricconesco; Morgante è un motivo puro di bassa e violenta istintività fisica; Rinaldo, al di là di certi suoi toni nobili e patetici di cavaliere, acquista sovente l’aspetto di un allegro e scanzonato furfante; e se il solo Orlando mantiene una sua serietà esteriore di paladino, pur si colora qua e là di toni più borghesi, realistici, bassi, plebei; Gano diventa il simbolo negativo e l’esponente sintomatico di un mondo morale consapevolmente tradito, in cui gli eventi sono guidati da una irrazionale e perversa volontà.
Nel Morgante infatti le avventure sembra che non possano giustificarsi per se stesse, ma richiedano la molla di questo elemento meccanico che è il “motivo di Gano”: non l’eroismo cavalleresco dà lo scatto dinamico alla struttura del poema, bensì il tradimento: l’ideale cioè rovesciato della civiltà cavalleresca. Quel peccato del tradimento che Dante collocava nel suo Inferno al culmine della disumanità spirituale, qui diviene un tema essenziale verso cui il Pulci sembra appuntare i suoi strali, e che tuttavia lo interessa e lo stimola, in una sua segreta e diabolica simpatia, al punto da indurlo a concentrare in esso i suoi sforzi di analisi e rappresentazione psicologica (d’altronde lo stesso rapporto che si stabilisce tra la forza leonina di Morgante e l’astuzia volpina di Margutte – rapporto tutto basato su reciproci scherzi e inganni – ha qualcosa di ambiguo e precario e porta con sé quasi come una “tensione di tradimento” – e proprio per questo motivo la sua durata è breve). Astarotte, colui che sembra quasi tradire la sua funzione di diavolo autentico, si fa maestro di teologia e di fede; e diviene così anch’egli il simbolo rovesciato di un mondo intellettuale religioso, che pur nella sua sostanziale serietà, si rifugia sotto l’insegna di una figura diabolica e potenzialmente eversiva.
Ma nella gran varietà di temi e motivi del Morgante, due vi emergono nettamente in forma esplosiva conferendo all’opera il suo più inconfondibile tono: il gusto del canagliesco e il tema della gola.
Il mondo morale viene così deformato nella direzione del canagliesco e del picaresco (preludendo in tal modo a quella che sarà la grande poesia di Rabelais[7]), e la vita fisica è degradata addirittura a una sorta di bassa materialità divorabile. Tuttavia non solo quella fisica, se è vero che nella celebre professione di fede di Margutte il tema della gola si fonde con quello della religione in una delle più felici sintesi espressive: il problema trinitario diviene così un gioco di sacrilega e inebriante gastronomia; allo stesso modo in cui la tragedia dei paladini che muoiono a Roncisvalle si muta in una visione gastronomica allegra ed atroce.
Non si tratta di un sentimento del diabolico, perché manca da parte del Pulci una consapevolezza e intenzione in tal senso, e soprattutto perché questo processo di deformazione e degradazione si attua attraverso il gusto di un riso iperbolico e smascellato che mira non propriamente a sostituire una realtà nuova, ma semplicemente ad abbattere e distruggere un preesistente mondo di ordine e di armonia, nella letteratura come nella vita, nella morale come nella quotidianità del mondo cavalleresco, nella religione come nel campo dell’intellettualità medioevale. E mira appunto a celebrare questa realtà degradandola (sia pure attraverso la maschera del ridere) fino ai limiti dell’inverosimile e del parossistico, non solo nella prospettiva psicologico-morale del canagliesco, ma addirittura sul piano fisiologico di una bruta materialità divorabile.
Quel peccato, così medioevale, della gola, che Dante collocava sul piano iniziale della più animalesca e triviale umanità, qui diviene un tema quasi epico, per una sorta di rovesciamento ideale in cui le forze istintive dei sensi celebrano la loro più esaltante e primordiale avventura fisiologica e si collocano al vertice simbolico di una rinnovata visione del mondo, in direzione naturalisticamente degradata. Un senso di rivolta felice e inebriato serpeggia infatti per tutto il poema e sembra voler rovesciare idoli e schemi di una realtà costrittiva e oppressiva, investendo anche i problemi intellettuali e morali, i quali interessano il Pulci non tanto per se stessi, quanto per la possibilità che gli offrono di venir collocati in una prospettiva di anarchica libertà che sfiori le punte estreme di un’eversione irridente e sacrilega.
Così possiamo osservare (schematizzando) che l’atteggiamento del Pulci di fronte alla religione si attua in una triplice gradazione di momenti che procede, idealmente, dall’alto verso il basso con un continuo gusto di rovesciamento e di riduzione: dalle discussioni teologiche di Astarotte svolte in un clima di spregiudicatezza, ma con relativa partecipazione poetica, tutto risolvendosi, in definitiva, nell’esemplare situazione di fatto del diavolo che insegna teologia; al secondo momento costituito da un’adesione sentimentale partecipata e ironica ai toni ingenui della religiosità popolaresca (come accade nelle un poco esteriori ottave introduttive di ogni canto e, a livello poetico, nella scena tra epica e fiabesca della morte di Orlando); fino alla degradazione della religione e della morale a livello gastronomico (e qui appunto il Pulci tocca il suo vertice) sul piano più basso e plebeo e attraverso lo schermo fisico e concettuale di un ridere iperbolico di fronte a quella paradossale situazione in cui la bruta materialità viene a coincidere col più alto momento dello spirito.
Ora questo atteggiamento, che non è propriamente di irrisione della religione, bensì di degradazione al livello di una natura ricuperata e ricuperabile in tutte le sue pieghe più basse, è senza dubbio il segno più incisivo e sintomatico della rivolta del Pulci, il quale, nell’atmosfera del rinnovato clima umanistico, così carico di tensioni e inquietudini, tenta, quasi inconsciamente, di riconquistare il senso di una natura manomessa e perduta, e osa per primo sul piano poetico, con libertà inaudita, assumere a oggetto del suo atteggiamento eversivo i simboli più tipici della civiltà medioevale (cavalleria, religione, letteratura aulica), non tanto per una consapevole volontà di distruggerli o satireggiarli, quanto per rovesciarli e riportali a contatto di una natura più concreta e violenta che ne dilati le dimensioni e ne consenta il rinnovamento (anche se poi è ovvio che una simile degradazione dei contenuti non poteva non tradursi, implicitamente, in una distruzione dei medesimi). E se tale rivolta non acquista mai tono drammatico è appunto perché il Pulci si colloca in una prospettiva di responsabilità essenzialmente estetica ed elude ogni più vero e consapevole impegno intellettuale attraverso un gioco parossistico di iperboliche risate, per cui tutto pare infine risolversi nel chiasso assordante di un linguaggio che straripa e travolge ogni limite emergendo quasi in posizione autonoma, come tendesse a prescindere da ogni più vera significazione concettuale.
Su tutto infatti predomina, in ultima analisi, un gusto del linguaggio e della parola considerata in se stessa che dà un’impronta inconfondibile al Morgante. Il Pulci compose questo suo personalissimo impasto letterario attingendo la materia lessicale e linguistica dalle più svariate fonti (reminescenze dantesche e petrarchesche, indizi di cultura mitologica e storica, termini eruditi e di derivazione latina, su cui prevale comunque lo stile della letteratura popolare) e rielaborandola in maniera originale. Dunque, «il linguaggio rispecchia così, nei suoi elementi esteriori, la varietà d’intonazioni di questo poema, dove, come afferma l’autore stesso, “materia c’è da camera e da piazza” (XXVIII, 142): facili storie e lazzi grossolani per la plebe ma anche arguzie riflessioni invenzioni pitture adattate al gusto più fine della società colta della Firenze medicea. L’arte e il linguaggio del Pulci per altro non s’adeguano affatto ai modi dei cantastorie popolari, né d’altro canto si fondono con le maniere della tradizione aulica; piuttosto per certi aspetti si ricollegano allo stile dei rimatori realistici burleschi e burchielleschi; ma ciò che distingue soprattutto quel linguaggio e costituisce appieno la sua singolarissima fisionomia è la mobilissima e straordinaria inventività del poeta, quel suo pronto valersi di tutte le più indiavolate vivezze della parlata fiorentina per tratteggiare con una parola un carattere, per incidere con un motto o un proverbio il grottesco o il comico di una situazione, per insinuare nel racconto commosso con un aggettivo malizioso la luce improvvisa di un sorriso ironico e motteggiatore. Anche in questa mobilità e prontezza di una lingua ricchissima e piena d’arguzia si scoprono le qualità singolari del Pulci, quella sua fantasia estrosa e quella vivace attitudine a rappresentare e colorire con mano rapida ma sicura, che fanno del suo Morgante uno dei libri più geniali e più vivi della nostra storia letteraria»[8].
Pare inevitabile a questo punto concludere che una rivolta così intellettualmente degradata da ridurre tutti i contenuti al livello più basso non poteva tradursi, in ultima analisi, altro che in un fatto essenzialmente linguistico, lasciando appunto sussistere solamente ciò che del sentimento e del concetto costituisce la struttura fisica e materiale: e cioè la sostanza linguistico‑verbale. Per cui il significato più vero e ultimo del Pulci è quello appunto di una rivolta che si colloca sul piano linguistico.
Le opere minori
La prima produzione poetica di Pulci fu di carattere giocoso e in questa fase influenzò molto le opere dello stesso Lorenzo de’ Medici; rientra in questo filone poetico la Beca da Dicomano, un poemetto in ottave di argomento rusticano che Pulci scrisse per rispondere in modo satirico alla Nencia di Lorenzo e rispetto alla quale presenta numerose analogie. Nel 1469, in onore del signore di Firenze, aveva composto la Giostra di Lorenzo de’ Medici per celebrare la vittoria di Lorenzo in un torneo, un testo alquanto povero di stile e ben lontano dalle Stanze di Poliziano: esso ha il solo pregio del brio e della vivacità della descrizione, che attenua la monotonia della lunga enumerazione degli intervenuti. Altro poemetto è il Ciriffo Calvaneo (iniziato dal fratello Luca, al quale è pure attribuito il Driadeo d’amore, che invece è probabile opera di Luigi). Scrisse anche frottole, strambotti e sonetti in tenzone con Matteo Franco (dei quali abbiamo già detto). Compose anche un sonetto (Costor, che fan sì gran disputazione) in cui irrideva in modo blasfemo la Theologia platonica sull’immortalità dell’anima di Marsilio Ficino, testo che gli attirò molte critiche e che contribuì non poco ad alimentare la sua fama di eretico, corroborata anche da posizioni analoghe contenute in altri testi e in special modo nel Morgante.
Piccolo capolavoro, invece, per immediatezza e spontaneità, è l’Epistolario (senza dubbio uno dei più vivaci ed estrosi di tutta la nostra letteratura), contenente lettere indirizzate a vari interlocutori (molte hanno per destinatario l’amico Lorenzo, prima e dopo la rottura con l’ambiente mediceo) che rivelano molto del carattere ironico e pungente del Pulci, nonché della sua amicizia e fedeltà nei confronti del signore di Firenze. Nel 1476 fu a sua volta destinatario di quattro epistole in latino di Marsilio Ficino, con le quali l’umanista rispondeva alle polemiche a distanza sulle sue dottrine teologiche.
Infine, proprio per scrollarsi di dosso la fama di eretico, nel 1484 Pulci compose una Confessione a Maria Vergine in terza rima, con la quale faceva ammenda dei passati errori e chiedeva perdono per i suoi peccati, non dissipando tuttavia i dubbi di chi vi volle vedere un intento dissacrante. Si suppone che tale opera sia stata composta dal Pulci dietro suggerimento e consiglio del predicatore agostiniano, vicino alla cerchia dei Medici, Mariano da Genazzano[9], nonché per rispondere alle critiche religiose ricevute da Girolamo Savonarola che bruciò pubblicamente il Morgante nei suoi falò della vanità.
*** NOTE ***
[1] Le Stinche erano il carcere ove venivano rinchiusi i debitori.
[2] Bartolommeo Scala (Colle Val d’Elsa, 17 maggio 1430 – Firenze, 24 luglio 1497), storico e letterato, grazie protezione di Cosimo e Piero de’ Medici e alla loro amicizia poté giungere alle più alte cariche della Repubblica fiorentina. Fu infatti Segretario dei Dieci della Guerra, incarico precedentemente ricoperto da Pietro Aretino, e che egli disbrigò con merito tale, che fu ammesso tra i Cittadini nel 1457. Fu Priore nel 1472, gonfaloniere di giustizia nel 1486, Cancelliere, Segretario della Repubblica nel 1464 e Gonfaloniere nel 1486. Tra le sue opere si ricordano un’incompiuta Storia di Firenze, l’Orazione inaugurale al Pontefice Innocenzo VIII, la Concione al Popolo fiorentino nella consegna delle bandiere militari della Repubblica Fiorentina al Capitano Costanzo Sforza, i Cento Apologhi morali, i Quattro libri delle Istorie Fiorentine, la Vita di Vitaliano Borromeo e l’Apologia contra vituperatores Civitatis Florentiae.
[3] Matteo di Franco di Brando Della Badessa (Firenze, 1448 – Pisa, 6 settemmbre 1494) nacque da famiglia modesta ma di origini assai antiche, al cui cognome rinunciò optando secondo l’uso per il patronimico, poi semplificato in Matteo Franco. Era un religioso, ma non si conosce la data della sua ordinazione sacerdotale. La svolta decisiva nella vita del Franco è rappresentata dall’ingresso nella familia dei Medici, avvenuto nei primi anni Settanta. Resta oscuro in quale modo e comunque le sue mansioni furono assai basse: fedele ai suoi signori per tutta la vita, egli li servì essenzialmente come provveditore alle spese e maestro di casa. Per quanto basse fossero le sue mansioni nella familia medicea, la generosa protezione dei signori consentì al Franco, spirito intraprendente e traffichino, di accumulare un numero invidiabile di benefici nella città e nel contado. La serie di atti rogati tra il 1482 e il 1494 dal notaio Domenico Guiducci testimonia la progressione nell’accumulo delle prebende. L’occasione più importante in cui il Franco servì i suoi signori fu nella primavera del 1488 quando in qualità di spenditore accompagnò Clarice Orsini a Roma, dove la moglie del Magnifico si recava per celebrare le nozze della figlia Maddalena con il figlio di Innocenzo VIII, Francesco, detto Franceschetto, Cibo (già contratte per procura il 25 febbraio), e concludere il matrimonio del figlio Piero con Alfonsina Orsini. La fama del Franco come poeta è legata alla tenzone con Luigi Pulci con il quale scambiò una settantina di sonetti di acre invettiva. Il resto della produzione del Franco è giocato più convenzionalmente entro i termini della rimeria comico-realistica da cui vengono attinte senza troppo variare situazioni topiche, contribuendo perciò a ridimensionare il valore documentario che si è voluto attribuire ad alcuni passi.
[4] Roberto Sanseverino d’Aragona (maggio 1418 – Calliano, 10 agosto 1487), conte di Colorno (dal 1458 al 1477, anno in cui rinunciò al titolo a favore del figlio, Gianfrancesco) e I conte di Caiazzo (dal 1460), era figlio di Leonetto Sanseverino e di Elisa Sforza, sorella di Francesco, Duca di Milano. Assunse il cognome d’Aragona per concessione del Re di Napoli, Ferdinando I. Fu capitano di ventura (uno tra i più richiesti nelle numerose guerre che sconvolgevano allora la penisola italiana) dapprima dello zio Francesco Sforza, poi dei fiorentini contro Venezia e nel luglio 1467 partecipò alla battaglia di Molinella dove si segnalò per il suo valore. Nel 1471 stipulò nuovamente una condotta quadriennale con Galeazzo Maria Sforza e, dopo l’assassinio di questi, divenne capitano generale della Repubblica di Genova che difese dall’attacco dei milanesi (1478). L’anno seguente fu sotto il servizio di papa Sisto IV nella guerra contro Firenze. Convinto da Ludovico il Moro ad appoggiarlo nella conquista della corona ducale, dopo la conquista di Tortona e l’espugnazione di vari castelli e piazzeforti entrò a Milano nel settembre 1479. Nel 1482 venne assoldato da Venezia: tra la primavera e l’estate di quell’anno fu impegnato nella lunga ed estenuante guerra contro Ferrara istigata da Girolamo Riario, signore di Forlì. Con la pace di Bagnolo, del 7 agosto 1484, Venezia mantenne quasi tutti i possedimenti conquistati; il Sanseverino fu eletto capitano generale della Lega italiana per nove anni; gli furono dati una condotta di 600 lance ed uno stipendio annuo di 120000 ducati. Nell’ottobre 1485 Roberto ottenne il permesso dai veneziani di passare al soldo del papa Innocenzo VIII per combattere gli aragonesi e gli Orsini loro alleati. La campagna militare però si rivelò una disfatta e il papa licenziò Sanseverino che fuggì rocambolescamente, inseguito dalle truppe del nemico, verso i confini di Venezia e poi riparò nei suoi possedimenti vicino a Cittadella. Ritornò al comandò delle truppe veneziane nella guerra sorta per ragioni di dazi contro Sigismondo d’Asburgo nel 1487 ma il 10 agosto in un’imboscata nella battaglia di Calliano il Sanseverino venne travolto nella rotta e, ferito nel combattimento, cadde nel fiume morendovi annegato.
[5] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. I, Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 291.
[6] Coloro che, soprattutto nei sec. XIV e XV, componevano e recitavano cantàri.
[7] François Rabelais (Chinon, Tours, 1494 circa – Parigi 1553) è lo scrittore che meglio interpreta il Cinquecento francese nei suoi aspetti più inventivi e fecondi, ma anche più complessi e inquietanti. Erudito, medico, monaco prima francescano e poi benedettino, professore di anatomia, legò la sua fama all’opera Gargantua e Pantagruel articolata in due parti che uscirono nel 1532 e nel 1534. Altri tre libri del Pantagruel apparvero tra il 1546 e il 1564. La storia dei due giganti, padre e figlio, è il mero pretesto per narrare facezie allegre e scurrili, che si intrecciano ad un’acuta critica della società e a prese di posizione religiose ed ideologiche. La sua arte contraddittoria e per certi versi enigmatica non cessa di affascinare per la densità linguistica e metaforica delle sue immagini, la forza creativa dei suoi paradossi, la vertigine parodica di una visione del mondo nella quale il travestimento comico non va mai disgiunto da quello simbolico.
[8] Natalino Sapegno, op. cit., pag. 296.
[9] Mariano Da Genazzano (Genazzano, 1412 – Sessa, 1498), monaco appartenente all’ordine degli Agostiniani, insieme al confratello Aurelio Brandolini, era considerato tra i più brillanti predicatori del tempo, e, per eloquenza ed erudizione, ammirato anche dal Poliziano. Legato alla congregazione del Lecceto a partire del 1482, fu un esponente della riforma degli osservanti che in seno all’ordine preconizzava un ritorno alla rigorosa osservanza della regola ed alla devozione al bene comune, fuggendo l’ambizione e la distinzione individuale attraverso la preghiera, la pratica liturgica e la predicazione. In quanto vicario generale dell’ordine, all’epoca del Savonarola, si schierò a Firenze dalla parte medicea ed operò quale avversario del frate domenicano. Si pensa che per ricompensare l’ordine, Lorenzo il Magnifico abbia fatto costruire il monastero attinente alla Chiesa di San Gallo. Nel maggio del 1497 il capitolo generale dell’ordine lo nominò priore generale ed egli preparò un coraggioso programma di riforme che verrà però stroncato prima dall’opposizione della congregazione lombarda poi dalla sua morte.
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