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Marco M. G. Michelini | 7 Aprile 2018

Linea biografica

Nato a Firenze il 1 gennaio 1449 da Piero di Cosimo il Vecchio e da Lucrezia Tornabuoni, Lorenzo ricevette un’educazione umanistica che lo spinse – ancora dodicenne – a partecipare alle dotte disquisizioni del Ficino nella Villa di Careggi. Al tempo stesso ricevette anche un’adeguata preparazione politica tanto che, ancor prima di assumere il governo della famiglia, portò a compimento per conto del padre alcune missioni diplomatiche e affari economici a Venezia e a Milano, e – successivamente – a Roma e Napoli.

Nel giugno del 1469, come stabilito dal padre Piero, sposò Clarice Orsini, appartenente ad una delle più importanti famiglie romane, ma Lorenzo, nonostante l’adempimento dei suoi doveri coniugali, non mostrò mai per la moglie un particolare affetto; del resto erano troppo diversi: lui era un gaudente, intriso di cultura neoplatonica e amante della vita, lei era di educazione rigida e austera, profondamente religiosa e poco edotta di letteratura e cultura umanistica.

Nel dicembre dello stesso anno il padre Piero, detto il Gottoso[1], ormai distrutto dalla malattia, venne a morte per una emorragia cerebrale e Lorenzo, appena ventenne, che già nel 1466 era entrato a far parte della balìa e del Consiglio dei Cento (per conto del padre), assunse assieme al fratello Giuliano (Firenze, 28 ottobre 1453 – Firenze, 26 Aprile 1478), seguendo le orme del nonno e del padre, assume il governo della famiglia e della città di Firenze, ricevendo la fiducia da parte dei politici legati ai Medici.  Pur restando ufficialmente un privato cittadino, egli, comprendendo con chiarezza che la vecchia libertà repubblicana era ormai al tramonto in un’epoca che volgeva sempre più decisamente all’assolutismo delle signorie, si dedicò con intelligente realismo ed estrema abilità a modificare in parte gli ordinamenti di Firenze, per acquistare più saldo e legale potere. Così, nel periodo dal 1469 al 1472, Lorenzo placò tutte le rivalità tra le famiglie fiorentine in modo da diventare supremo arbitro in ogni questione. Contemporaneamente, a livello istituzionale, il consolidamento del potere della famiglia Medici fu ottenuto con la costituzione del Consiglio maggiore (luglio 1471) e dal rafforzamento del Consiglio dei Cento, quest’ultimo in mano a esponenti filomedicei, al quale fu conferita l’autorità di promulgare leggi senza l’interferenza degli organi popolari.

Nel 1472 Lorenzo de’ Medici decise, sia per motivi economici che per motivi politici[2], di muovere guerra contro Volterra. La guerra fu rapida e terminò con il sacco della città da parte delle truppe guidate da Federico da Montefeltro, che agì con una tale violenza verso i volterrani da suscitare disdegno nell’animo dell’opinione pubblica fiorentina. Per affermare il dominio fiorentino su Volterra, Lorenzo decise di costruire una imponente rocca che sfoggiava le più moderne soluzioni difensive dell’epoca.

I cordiali rapporti tra il Papa Sisto IV[3] e la famiglia Medici, banchieri dello Stato Vaticano, entrarono però in rotta di collisione allorché il Pontefice, per le mire del nipote Girolamo Riario[4], decise di occupare le piazzaforti strategiche di Imola e Faenza, due città assai vicine al confine settentrionale della Repubblica Fiorentina (1473-1474). La tensione si acuì ulteriormente di fronte al rifiuto da parte di Lorenzo di versare al papa la somma di 40.000 fiorini, che era necessaria per acquisire Imola dagli Sforza[5]. Tale rifiuto provocò un inasprimento nei rapporti tra Firenze e lo Stato della Chiesa, tanto che Sisto IV, sempre istigato dal Riario, cominciò a tessere una fitta ragnatela di intrighi contro i Medici che sfociò nel 1478 nella congiura dei Pazzi, antica famiglia magnatizia fiorentina: il 26 aprile, in Santa Maria del Fiore, durante la messa per la celebrazione della Pasqua, Giuliano venne assassinato, mentre Lorenzo, ferito in modo lieve, riuscì a salvarsi riparandosi in sagrestia, aiutato da alcuni amici tra cui il Poliziano.

Il non aver saputo prevedere tale congiura rappresentò forse il più grave errore politico di Lorenzo; ma da questo errore egli seppe trarre la forza per reagire e approfittarne anzi per consolidare il proprio potere in forma sempre più assolutistica, sostenuto anche da un’onda crescente di entusiasmo popolare. La vendetta contro i Pazzi e i loro alleati fu terribile: Jacopo de’ Pazzi e il figlio Francesco, catturati mentre tentavano la fuga da Firenze, vennero messi a morte in Piazza della Signoria e altri congiurati seguirono la loro sorte. Tra di loro vi fu anche l’arcivescovo Francesco Salviati[6], impiccato ad una finestra di Palazzo Vecchio.

La reazione di Sisto IV non si fece attendere: egli scomunicò Lorenzo e i maggiorenti della Repubblica; chiuse il banco mediceo romano e ne arrestò tutti i membri; si alleò con Ferdinando I di Napoli, con Siena, Lucca e Urbino e dichiarò guerra a Firenze. Dopo mesi di lotte estenuanti, Lorenzo, sostenuto più dai cittadini e dal clero toscano, che non dagli scarsi aiuti dei suoi alleati (Milano e Venezia), vide la defezione di alcuni generali di ventura e, nel 1479, dopo un lungo assedio, la presa di Colle Val d’Elsa da parte della coalizione antifiorentina. Pertanto, consapevole della difficoltà della situazione, su consiglio di Ludovico il Moro[7], e col consenso della Signoria, lasciò di nascosto Firenze e si recò coraggiosamente a Napoli per convincere il re Ferdinando I d’Aragona a staccarsi dall’alleanza con il Papa. Questi, trattenne per tre mesi l’illustre ospite, sperando che Firenze, a seguito di tale prolungata assenza, si ribellasse e passasse dalla parte del Pontefice; ma, vista la fedeltà dei fiorentini al loro signore, il re napoletano accondiscese a ritirare le proprie truppe dalla Toscana. Questo fatto, oltre alla presa di Otranto da parte dei Turchi, costrinse Sisto IV ad offrire la pace a Lorenzo e a scioglierlo dalla scomunica (3 dicembre 1480).

Il prestigio che Lorenzo ricavò in politica dal suo viaggio a Napoli fu immenso, tanto da essere definito, dal 1480 in avanti, «l’ago della bilancia italiana». Egli iniziò allora in Italia una politica di alleanze, di accordi, di equilibrio, rafforzando la sua posizione col rendersi amiche Lucca, Siena, Perugia e Bologna, acquistando Pietrasanta (1484), Sarzana (1487) e Piancaldoli (1488), ristabilendo una normalità di rapporti con Forlì e Faenza, dopo che ne erano stati uccisi i signori Girolamo Riario e Galeotto Manfredi, e soprattutto coltivando l’amicizia con Napoli. Durante la guerra di Ferrara (1482-84) si alleò con Ercole d’Este, il duca di Milano e il re Ferdinando per frenare le mire espansionistiche del Papa e dei Veneziani, partecipando anche, come oratore ufficiale di Firenze, alla dieta di Cremona (1483).

Principe, poeta e mecenate, umanista nel senso lato del termine, scaltro uomo politico, esperto conoscitore degli uomini, generoso con gli amici e implacabile e crudele con gli avversari, Lorenzo riuscì ad attuare in Firenze un solido ed efficiente governo e ad assurgere ad arbitro della situazione storica italiana, imponendo sempre più il prestigio della sua personalità, forte ed intelligente, e il fascino di una corte che divenne, grazie alla sua opera, uno dei centri più luminosi della vita culturale italiana in campo artistico, letterario e filosofico. Il titolo di “Magnifico”, che gli diedero i contemporanei, riassumeva appunto il senso di questa sua straordinaria figura.

Ma già dalla seconda metà degli anni ’80 la salute di Lorenzo, ch’era rimasto vedovo nel 1488, aveva cominciato a declinare per via della gotta che, pur non essendo grave quanto quella del padre Piero, lo costringeva a cercare, con scarso successo, sollievo nelle acque delle terme toscane. Così, a soli quarantatré anni (1492), egli morì nella villa di Careggi a causa della cancrena procurata da un’ulcera che i medici avevano sottovalutato; conservando tuttavia sino all’ultimo, come racconta il Poliziano, quel supremo dominio di sé e quell’atteggiamento di cordiale ironia e distacco che avevano sempre contraddistinto il suo carattere


L’ambiente culturale

Per comprendere la personalità e il significato dell’opera di Lorenzo de’ Medici bisogna anzitutto ricordare quello che era l’ambiente culturale della Firenze di fine Quattrocento, nella quale si riassume un momento ben preciso della civiltà storica italiana, e in cui appunto la figura complessa e in certo qual modo contraddittoria del Magnifico si colloca all’insegna dell’uomo che è, al tempo stesso, politico e umanista.

In questa civiltà fiorentina si mescolano tendenze varie e contrastanti: gli interessi pratici e politici della casa medicea, il raffinato gusto pittorico del Pollaiolo o di Botticelli, le spinte della letteratura realistico‑popolare del Pulci, il venerazione umanistica per le letterature classiche del Poliziano, le nuove ricerche filosofiche e spirituali del Ficino, l’appassionato fervore religioso del Savonarola. Lo sviluppo e la formazione artistico‑intellettuale di Lorenzo si formano appunto in questo crogiuolo, dal quale comunque emergono nitidamente due elementi distintivi: il gusto per le forme della letteratura realistico‑popolare e la disposizione verso soluzioni o atteggiamenti idealistici, sia di carattere letterario che filosofico. Tuttavia, l’arte e la cultura non divengono mai nel Magnifico i tratti preponderanti della sua personalità, che si esprime compiutamente solo nell’attività pratica e nell’esercizio della politica, che egli svolse con non comune abilità diplomatica per mantenere un clima di pacificazione generale della penisola italiana, finalizzata a mantenere vivo il sogno di suo nonno Cosimo con la creazione della Lega Italica. Rispetto a tutto ciò la sua opera di letterato mantiene sempre un aspetto per così dire secondario, quasi un qualcosa di evasivo e disgiunto, tanto da far nascere l’impressione che nel rapporto tra impegno esistenziale e politico ed interesse culturale vi sia una sorta di frattura.

Nonostante tutto, comunque, questi due aspetti così diversi tra loro convivono e convergono nella sua figura d’uomo, e si manifestano sia nel realismo intelligente dei suoi atti politici, frutto del suo senso critico, della sua lucidità di visione e di comprensione dei problemi, sia nella sua opera di poeta, che mescola elementi popolareschi alle eleganti raffinatezze della cultura classica, sia nel suo mecenatismo munifico e perspicace.

Si può intendere, tuttavia, la posizione di Lorenzo come l’arduo sforzo intellettuale di un uomo che porta con sé un forte ardore vitale, che egli attua concretamente nella quotidianità della politica, che vuole altresì recuperare nella sfera della cultura e della letteratura, mediante la reminiscenza e la celebrazione di un mondo di felicità primigenio, nell’elegiaca sensazione di una vitalità piena e gioiosa. Questo stato d’animo, in cui la percettibilità politica diviene più amara e più disincantata, acquisendo una maggiore consapevolezza critica, parallelamente ad una maggiore acquisizione di esercitata concretezza, che spinge l’uomo alla ricerca equilibratrice di un mondo di mitica pace, è caratteristica distintiva della cultura e della situazione storica dell’ultimo Quattrocento; caratteristica ben presente nel Magnifico e che si attua compiutamente nelle forme letterarie realistico-popolari.

Osserva giustamente il Sapegno: «La varietà degli spunti e degli atteggiamenti sentimentali, quella non minore delle derivazioni letterarie e degli intendimenti artistici, che caratterizzano la lunga serie degli scritti del Magnifico, giustificano la perplessità e i discordi giudizi dei critici; i quali hanno finito col considerare Lorenzo come un dilettante che si diverte ad esplicare la sua multiforme bravura nelle più disparate materie, senza aderire col cuore a nessuna; ovvero hanno isolato e posto in risalto uno fra i molti aspetti della sua produzione, ad es., la sensualità o il realismo, e quello solo hanno accolto come espressione sincera del suo spirito; o ancora, di recente, hanno attribuito al dilettantismo del Medici un valore positivo, trattandolo come un segno dell’indole fantastica di questo scrittore istintivamente ricca e fervida, antiletteraria e antiumanistica in un secolo di umanisti e in un ambiente di letterati. Soluzione quest’ultima evidentemente paradossale; ché il Magnifico era proprio – come appare dalla moltitudine stessa delle sue scritture, cosí diversamente orientate negli spiriti e nelle forme, ma pur tutte legate a una o ad un’altra maniera di espressione artistica – anzitutto un letterato. Che non vuol dire però, si badi bene, un dilettante, né tanto meno un retore; perché nei suoi esercizi letterari egli poneva una passione intellettuale cosí intensa, un interesse critico cosí acuto e vivace, da riuscire a dare ai suoi scritti un’impronta di novità e di genialità, che basta a distinguerli nettamente dalle opere in ogni tempo abbondanti dei puri imitatori»[8]. Allo stesso modo, «il realismo del Medici, spesso lodato dai critici, è per lo più incapacità di trasfigurare liricamente il contenuto della realtà e di raccogliere in una visione unica la somma infinita dei particolari, collegata con un’attitudine straordinariamente intensa a cogliere e rappresentare appunto il particolare preso per sé: in altre parole, predominio dell’intelligenza analitica sulle facoltà immediatamente intuitive e sintetiche»[9]. Ma tutto questo non toglie che in Lorenzo si possa trovare un tono sentimentale che, nella disparità dei generi e dei comportamenti stilistici, pur con difficoltà, riesce a farsi strada e a risplendere di vera luce. Tale tono sentimentale può essere individuato nella nostalgia per una felicità originaria concretamente attuabile sul piano dell’esistenza, nell’amara consapevolezza di una precaria armonia tra l’uomo e la natura, nella disincantata nostalgia per un mondo di passioni primigenie ed elementari, in cui il momento allegorico definitivo viene rappresentato dalla giovinezza e dall’amore.

Questa aspirazione di Lorenzo, però, non si identifica con l’eterna adolescenza del Poliziano che si appaga felicemente nella reminiscenza di una mitica età dell’oro esaurendosi nel ritmo di un limpido sogno; ma è piuttosto la ricerca idillica di un uomo maturo che conosce le difficoltà e le insicurezze dell’esistenza, e che stenta a superare il limite della propria aristocratica concezione di vita per immedesimarsi con totale abbandono nel suo sogno originario di felicità, e conseguentemente stenta a riassorbire la propria raffinata cultura, che vorrebbe essere strumento espressivo proprio di quel mondo poetico, in funzione trasformatrice della stessa realtà sul piano di una maggiore consapevolezza critica.

Il suo realismo è quindi meno robusto e caloroso di quello, ad esempio, che viene maturato dal Pulci, ma si traduce in un più complessa considerazione della molteplicità del reale e dei sentimenti umani, poiché il suo atteggiamento intellettuale gli consente una sorta di distacco critico da cui osservare (talvolta in maniera frammentaria e non sempre definita) quel suo mondo poetico che ha alla base il rimpianto di una vitale adesione al sentimento del reale, e che riesce talora a sfumare nel sorriso caricaturale, ma solo per una nostalgica forma di simpatia evocativa.


Le opere

Per quanto provvisto di un’altissima istruzione classica (non a caso era allievo del Ficino e amico del Poliziano) Lorenzo De’ Medici scrive le sue opere esclusivamente in volgare, rifuggendo da una parte gli eccessi dialettali di un Pulci, ma anche le nobilitazioni latineggianti: il suo, insomma, è un toscano medio, corroborato da una “classica tradizione” che spazia da Dante e Petrarca fino ai contemporanei. E non è certo un caso che i traguardi più persuasivi della sua poesia il Magnifico li tocchi proprio nelle moderazione, cioè quando meglio riesce a conciliare il gusto popolaresco con quello del dotto.

Nel 1476 raccolse delle antiche rime italiane, in special modo stilnovistiche, e le inviò a Federico d’Aragona[10] con una lettera critica, che il Barbi sostenne essere opera del Poliziano, ma che fu, comunque, quasi certamente ispirata dal magnifico e che, come ha giustamente notato il Flamini, rappresenta – dopo il De Vulgari Eloquentia – il più antico documento di storia critica della nostra poesia. Successivamente, con ogni probabilità tra il 1482 e il 1484, raccolse 41 dei suoi sonetti, estrapolati dalle Rime (di ispirazione petrarchesca e stilnovistica), legandoli insieme con un Comento in prosa, alla maniera della Vita Nuova dantesca; in questo Comento egli narra come alla vista di una bellissima donna morta (Simonetta Cattaneo[11]) gli si accendesse in cuore il desiderio di un altissimo amore e come dopo qualche tempo si innamorasse di una donna ancor più bella e gentile dell’altra (Lucrezia Donati[12]). I sonetti esprimono una nostalgica aspirazione ad un amore non turbato da desideri e speranze, mentre nel commento, ispirato alle idee dell’amor platonico filtrate attraverso Petrarca, Landino, Ficino, ma non mancano motivi poetici originali e notazioni psicologiche, che scandagliano con maggiore senso di concretezza la sensibilità amorosa.

Idillio rusticano è la Nencia da Barberino, scritta quasi sicuramente prima del 1470, la cui paternità è stata da alcuni negata: qui, però, il modello non è più letterario e classico, ma popolaresco: l’atteggiamento che vi emerge è di simpatia sorridente e al tempo stesso di distacco quasi malinconico. Ricca di scenette e figure dal vero (per quanto lo stile sia un poco debole e approssimativo) è l’Uccellagione di starne, più nota col titolo di Caccia col falcone e composta essa pure nella prima giovinezza, nella quale viene rievocata una giornata di caccia della corte medicea, con ironica e divertita partecipazione all’attività venatoria. Opera giovanile è anche il Simposio, una rassegna dei più famosi bevitori fiorentini del tempo (il titolo I beoni, o più esattamente Capitoli d’una historia di beoni, sembra dovuto a un copista), fatta in forma decisamente grottesca e caricaturale – ma in cui predomina la simpatia per la passione del vino – e con un’arguzia ch’è in generale riuscita.

Minore valore hanno le opere a sfondo religioso, dovute forse al peggioramento delle sue condizioni di salute, per quanto già nel 1473-74 avesse scritto l’Altercazione, opera in forma di dialogo in terzine (mutuate da Dante) nella quale egli espone in forma di dialogo la teoria ficiana sul sommo bene: dal dialogo fra il pastore e il cittadino, che invidiano l’uno all’altro la vita urbana e campestre, emerge l’dea che la vera felicità non è nel mondo. Nei Capitoli, sempre in terzine, viene fatta una parafrasi di testi ermetici e del Ficino, mentre nelle Laudi si svolgono argomenti popolari tipici della lauda quattrocentesca. Ultima opera di carattere religioso è la Rappresentazione dei santi Giovanni e Paolo, sacra rappresentazione recitata nel 1491, nella quale acquistano rilievo talune riflessioni sulla vita politica.

Migliore ispirazione e artisticamente più riusciti sono alcuni poemetti di argomento pastorale e mitologico, come l’incompiuto Apollo e Pan (in terzine) e, soprattutto, l’egloga Corinto, anch’essa in terzine e scritta forse intorno al 1486, che è incentrata sull’infelice amore del protagonista per la bella ninfa Galatea, con chiari riferimenti alla poesia latina di Teocrito e di Virgilio nonché al Ninfale d’Ameto e al Ninfale fiesolano di Boccaccio; in quest’opera l’antica simpatia di Lorenzo per un sogno di vita semplice e rude, immerso in un mondo di idillica primavera, si colora nel finale di una più pensosa malinconia. L’Ambra è invece un poemetto in ottave (e pure qui non mancano riferimenti a Ovidio e al Ninfale fiesolano del Boccaccio), composto dopo il 1486, in cui si narra come la ninfa Ambra, amata dal pastore Lauro, inseguita dal dio fluviale Ombrone sullo sfondo mitologico di un primitivo paesaggio silvestre, quando è sul punto d’essere raggiunta, viene trasformata in una rupe, quella su cui sorgeva la villa medicea di Poggio a Caiano.

Sempre un concetto platonico dell’amore, ma molto più elaborato, è alla base anche delle due vivaci Selve d’amore (il cui modello sono le Silvae di Stazio) anch’esse composte, con ogni probabilità, dopo il 1486, che rappresentano la “summa” di tutta la varietà tematica e stilistica del Magnifico. In questa operetta i toni petrarcheschi, stilnovistici, classicisti e popolareschi si alternano in un complesso impasto lirico, purtroppo non sempre armonioso, che dà luogo al vivo sentimento della descrizione dell’estate animantesi alla presenza luminosa della donna amata, o che sfocia nella rievocazione di una mitica età dell’oro libera da tormenti amorosi, o che ancora sfuma in delicati quadri di più concreti motivi umani vagheggiati con animo idillico e rivissuti con la dolorosa consapevolezza dei limiti dell’esistenza.

Da ultime, infine, ricordiamo le Canzoni a ballo e i Canti Carnascialeschi, che divennero una moda in cui si cimentarono vari autori, e la cui notorietà è dovuta alla natura – che ne rappresenta anche il limite – dell’occasione festosa: si tratta infatti di canti per musica, e dunque improntati a facile cantabilità, per feste mascherate e carri allegorici del carnevale. In essi si coglie tutto «il carattere impersonale e corale della poesia di Lorenzo […] e soprattutto in quel capolavoro che è il Trionfo di Bacco e Arianna, dove egli assume addirittura i sentimenti e i gusti di una folla e parla per bocca di tutto un popolo, sí che, come è stato detto non a torto, non si riesce a vedere dietro a quei versi un uomo solo, un poeta, e non si sa immaginarli se non cantati da un coro festante. La quale considerazione potrebbe ripetersi per tutti quei passi, nell’opera del Medici, dove si leva il canto ebbro e trepidante della sensualità e della giovinezza bellissima e fuggevole: nei quali passi il poeta si fa portavoce del sentimento di tutta un’età, cantore di un’ebbrezza vasta e diffusa quanto indeterminata e povera di rilievo individuale»[13].

***NOTE***

[1] Piero di Cosimo de’ Medici (Firenze, 14 giugno 1416 – Firenze, 2 dicembre 1469) era particolarmente debole di salute (soffriva in prevalenza di gotta, di cui i membri della famiglia Medici erano portatori).

[2] I motivi economici erano quelli di acquisire le ricche risorse di allume appena scoperte, mentre i motivi politici erano quelli di rafforzare il prestigio interno ed estero dello Stato (ma anche della sua famiglia) sottomettendo una importante città della Toscana.

[3] Sisto IV, nato Francesco della Rovere (Pecorile, 21 luglio 1414 – Roma, 12 agosto 1484), venne eletto Papa nel 1471, dopo la morte di Paolo II. La sua elezione, caldeggiata dal duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e dai cardinali Latino Orsini, Rodrigo Borgia e Francesco Gonzaga, fu quasi all’insegna della simonia, visto che il nipote, Pietro Riario, assistente del conclave, mercanteggiava con i cardinali affinché i voti convergessero sullo zio.

[4] Girolamo Riario (Savona, 1443 – Forlì, 14 aprile 1488), ex mercante di stoffe, fu dal 1473 Signore di Imola, dal 1480 di Forlì e capitano generale della Chiesa sotto papa Sisto IV, suo zio. Nel 1477 sposò Caterina Sforza, figlia di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Alla morte dello zio, il generale malcontento delle varie famiglie nobili della città di Forlì si trasformò in una serie di intrighi e congiure contro di lui. Finché la sera del 14 aprile 1488 i due fratelli Ludovico e Cecco della nobile famiglia forlivese degli Orsi si intrufolarono nel Palazzo della Signoria di Forlì e, con l’aiuto di due guardie, assassinarono Girolamo Riario con varie pugnalate.

[5] L’opposizione di Lorenzo era tutt’altro che immotivata: l’obiettivo di Sisto IV era infatti quello di mettere Firenze nelle mani dell’ambizioso nipote Girolamo Riario, estendendo la sfera d’influenza dello stato pontificio e determinare in tal modo la sottomissione dell’intera Italia centrale alla politica vaticana.

[6] Francesco Salviati (Firenze, 1443 – Firenze, 26 aprile 1478) divenne arcivescovo di Pisa nel 1474 grazie alla nomina da parte di papa Sisto IV.

[7] Ludovico Sforza, detto il Moro (Vigevano 1452 – Loches 1508) era il quarto figlio di Francesco Sforza. Dopo la morte del fratello Galeazzo Maria, assunse nel 1480 il governo del ducato in nome del nipote Gian Galeazzo Maria, allora undicenne. Alla morte di questi (1494) divenne Duca di Milano e appoggiò l’impresa italiana del re di Francia Carlo VIII. Successivamente, però (1495), si unì alla lega antifrancese, cche costrinse Carlo VIII a ritirarsi. Cacciato da Milano dal nuovo re di Francia Luigi XII (1499), tentò di recuperare il ducato, ma fu sconfitto a Novara (1500) e deportato in Francia, dove morì in prigionia.

[8] Natalino Sapegno, Compendio di Storia della Letteratura italiana, vol. I, La nuova Italia Editrice, Firenze, 1981, pag. 304-305.

[9] Ibidem, pag. 306.

[10] Da ciò il nome di Raccolta Aragonese.

[11] Simonetta Vespucci, nata Cattaneo (Genova o Porto Venere, 28 gennaio 1453 – Firenze, 26 aprile 1476), chiamata la Sans Par per la sua straordinaria bellezza, fu una delle nobildonne italiane più note nel proprio tempo. Ritenuta dai contemporanei come la più bella donna vivente, venne amata da Giuliano de’ Medici, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico, e da Sandro Botticelli, che ne fece la sua Musa, rendendola eterna nei suoi più famosi dipinti.

[12] Lucrezia Donati (Firenze, 1447 – Firenze, 1501), figlia di Manno Donati e Caterina Bardi, era una gentildonna fiorentina appartenente ad una famiglia nobile decaduta e ultima figlia della coppia. Sin dall’età di circa sedici anni fu amata dal giovane Lorenzo il Magnifico di un amore platonico, assai in voga a quel tempo. Sposò il mercante fiorentino Niccolò Ardighelli, morto in esilio nel 1496.

[13] Ibidem, pag. 307.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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