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Marco M. G. Michelini | 24 Dicembre 2017

Linea Biografica

Agnolo (Angelo) Ambrogini, detto Poliziano dal nome del suo paese d’origine Mons Politianus, l’odierna Motepulciano, nacque nel 1454 da Benedetto, giurista legato all’importante famiglia fiorentina dei Medici, e da Antonia Salimbeni. Giunto all’età di dieci anni suo padre venne trucidato per vendetta da una famiglia rivale: questo episodio cruento, molto simile a quello che accade al Pascoli, condusse la famiglia (composta da altri quattro figli, oltre alla madre) ad una grave situazione economica, facendola passare da uno stato di agiatezze ad una sostanziale indigenza. Per tali ragioni, quattro anni dopo, Angelo fu costretto a trasferirsi a Firenze, dove giunse entro il 1469, presso la casa di alcuni parenti di estrazione sociale molto modesta.

Firenze viveva in quegli anni uno dei momenti più splendenti della sua storia: la prospera situazione economica e politica, i fasti e gli splendori della corte dei Medici, che trovava nella figura di Lorenzo il Magnifico l’ideale del principe umanista nonché del politico accorto, per l’oculatissima gestione del potere, contribuivano a dar vita ad un ambiente del tutto congeniale allo spirito del Poliziano che, nonostante le difficoltà economiche, cominciò ugualmente ad intraprendere gli studi universitari. Venne così a contatto con uomini di primaria importanza nel panorama culturale dell’epoca, come Marsilio Ficino, Cristoforo Landino[1], e i greci Giovanni Argiropulo[2] e Demetrio Calcondila[3].

Nel 1470, alla sola età di sedici anni, riprese la traduzione dal greco al latino dell’Iliade di Omero, lasciata in sospeso da Carlo Marsuppini[4]: l’opera non procedette oltre i quinto libro, ma il Poliziano rivelò in essa un rigore filologico e un uso raffinato della parola che diventeranno in seguito le più marcate caratteristiche della sua opera. Nel 1473, divenuto ormai precocemente famoso per la sua vasta cultura letteraria greca e latina nonché per le sue doti di fine poeta, venne accolto alla corte dei Medici dapprima come segretario di Lorenzo il Magnifico, poi come precettore del primogenito di Lorenzo, Piero. In virtù della protezione medicea, il Poliziano fu nominato nel 1477 Priore della chiesa di San Paolo Apostolo e fu ordinato sacerdote; successivamente divenne canonico nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Contemporaneamente egli si dedicò alla stesura delle Elegie latine e degli Epigrammi latini e greci, curando anche la Raccolta Aragonese di poesie in volgare, per la quale scrisse anche l’epistola proemiale, che fu poi inviata al re di Napoli; sempre in quegli anni iniziò la stesura delle Rime. Nel 1475 cominciò la composizione delle Stanze per la giostra, poemetto in ottave dedicato a Giuliano de’ Medici, opera che rimase però incompiuta a causa della morte dello stesso Giuliano, assassinato il 26 aprile 1478 durante la congiura dei Pazzi.

Nella seconda metà del 1478, mentre Firenze era colpita da un’epidemia di peste, Lorenzo il Magnifico decise di recarsi nella villa di Cafaggiolo, e il Poliziano seguì la famiglia Medici. Durante questo soggiorno egli entrò tuttavia in contrasto con Clarice Orsini, moglie del Magnifico, per delle divergenze di vedute circa l’educazione del figlio Piero. A causa di ciò, nel 1479, il Poliziano lasciò i Medici e Firenze e si recò a Mantova, ospite del cardinale Francesco Gonzaga: fu probabilmente qui che, nel giugno del 1480, scrisse la breve azione teatrale Fabula d’Orfeo. Sempre quello stesso anno, ottenuto il perdono di Lorenzo, ritornò a Firenze, ricevendo l’assegnazione della cattedra di eloquenza latina e greca presso lo studio fiorentino. A questo periodo appartengono le Prolusiones, relative alle lezioni di greco e latino; i saggi critici sui classici latini e greci Miscellanee; le Epistole, le Odae e le elegie, fra le quali il famoso Epicedio in morte di Albiera per la prematura dipartita della giovane nobildonna fiorentina Albiera degli Albizzi.

Angelo Poliziano morì nel 1494, all’età di quarant’anni, due soli anni dopo la scomparsa di Lorenzo il Magnifico.


Carattere e ideali del Poliziano

Fanciullesco talvolta nei suoi atteggiamenti, di carattere orgoglioso e superbo fino all’arroganza, ambizioso, violento e offensivo nelle dispute; sospeso tra un misticismo esteriore e una sensualità vibrante, talvolta poco convenzionale, si scontrò spesso con gli altri umanisti, a volte per giusti problemi letterari e a volte per meschine rivalità personali. Pur tuttavia, il suo scontro con Paolo Cortese[5], in cui difese con matura coscienza il principio che l’imitazione degli antichi deve saper cogliere il meglio di ciascun autore e rifondere il tutto in una nuova unità creativa, anziché limitarsi alla pedissequa imitazione di Cicerone (o comunque di un solo autore), rappresenta uno dei momenti più importanti nella storia della nostra cultura.

La sua vita fu semplice e sostanzialmente onesta, ma vuota di sentimenti e priva di un autentico impegno: lo studio, la cultura letteraria e l’amore per la poesia bastano comunque a riscattarlo. Il suo temperamento di eterno giovinetto non fu mai turbato dai tragici eventi che attraversarono la sua vita, chiusa in un idillico sogno adolescenziale. Egli non provò mai quel senso doloroso di inquietudine umana, né quel sentimento tragico e angoscioso dell’esistenza che rese grandi altri letterati. La sua anima si compiacque e si appagò semplicemente nel sogno di una vita voluttuosamente idillica, nel culto della bellezza letteraria e delle sue forme, nella contemplazione serena della giovine beltà femminile, nella visione dolce ed estatica di luci ed immagini di una primaverile natura, nel senso vago e malinconico di una mitica età dell’oro.

L’educazione e la cultura umanistica, con tutti i suoi pregi e difetti, fu per il Poliziano la sola ragione di vita, e sicuramente sul piano filologico, ancor più che su quello poetico, egli fu dell’Umanesimo uno dei più alti e autentici rappresentanti.


Le Stanze

Intorno al 1475 Poliziano progettò un poemetto mitologico in ottava rima (mirabile strumento strofico dell’arte polizianesca) intitolato Stanze cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici, dedicato a Giuliano, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico, che aveva vinto quell’anno un torneo d’armi; il poemetto, dunque, era destinato a celebrare in modo encomiastico la famiglia signorile di Firenze, nonché l’amore di Giuliano per Simonetta Vespucci Cattaneo, ma rimase incompiuto (alla stanza 46 del secondo libro) a causa della morte del protagonista nel 1478 durante la congiura dei Pazzi.

Le Stanze, che hanno trama, piuttosto debole complessivamente, ci mostrano un giovane Iulio (cioè Giuliano de’ Medici) tutto dedito alla caccia, chiuso nella sua passione per la natura e nel disprezzo verso le donne. Ma Cupido, per punire la sua riottosità, lo attira in un tranello: durante una battuta di caccia, un mattino di primavera, gli fa apparire quasi magicamente una candida cerva, che Iulio insegue allontanandosi dai compagni; quando finalmente riesce a raggiungerla l’animale si trasforma in una bellissima ninfa che si presenta col nome di Simonetta (Simonetta Vespucci Cattaneo, appunto). Iulio, colpito dall’estatica visione della ragazza e trafitto dalla freccia di Cupido, si innamora perdutamente si Simonetta, che però poi si allontana e costringe il giovane a tornare dai suoi compagni. Il poemetto prosegue narrando di Cupido che torna nel regno della madre, la dea Venere, per annunciarle la sua vittoria su Iulio, e qui c’è una lunga descrizione del giardino e del palazzo della dea che costituiscono il secondo nucleo più imponente del primo libro delle Stanze. Nel secondo libro, durante un sogno suscitato da Venere, Iulio vede Simonetta che si difende dall’amore con le armi di Minerva per poi cedere di fronte all’intervento della Poesia, della Gloria e della Storia: Iulio, al risveglio, comprende che per conquistare l’amore di Simonetta dovrà compiere imprese gloriose e promette di trionfare nella giostra. In questo punto l’opera del Poliziano si interrompe. Il libro non venne pubblicato da Poliziano mentre era in vita e fu poi stampato senza il suo consenso a Bologna nel 1495, l’anno seguente alla sua morte, non senza una certa manipolazione del testo da parte degli editori.

Nelle Stanze si potrebbero probabilmente individuare tre momenti fondamentali (che sono propri comunque a tutta la poesia del Poliziano): il sentimento della natura primaverile; il sentimento adolescenziale della femminilità, vissuto come estatica visione e rapita contemplazione; il vago e malinconico rimpianto dell’età dell’oro.

«Nella Giostra l’anima del Poliziano è leggera, nuova e fragrante come l’erba; la malinconia dolce delle cose troppo belle vela, tenuissimamente, il suo splendore e le infonde il sentimento vago della fine.

L’esortazione a cogliere l’ora che passa, motivo giovanile e malinconico della classicità umanista, suona nelle ballate ma è presupposta da tutta la grande lirica del poeta delle Stanze. L’incanto del suo mondo è troppo irreale perché la coscienza non ne avverta indefinitamente la fugacità inevitabile; il pensiero

Cosa bella e mortal passa e non dura

non gli si forma mai nella mente; ma nel cuore c’è una trepidazione non più che accennata, che non affiora mai, e dà alla visione la compostezza e la levità delle cose che non sono di questa terra. Simonetta è l’immagine di quella poesia: Simonetta che appare come una forma venuta da un regno fatato, e in un attimo conquide il giovane Iulio, e, pur parlandogli di questa terra, ha già nella voce come la risonanza di una musica che s’allontana»[6].

Il sentimento della femminilità, colta ai suoi albori nello sbocciare dell’animo adolescente, l’abbandono contemplativo all’estatica visione della donna nella sua prima e candida giovinezza, è lo stesso che anima gli spettacoli visivi della natura, con la fragranza e la concordia idillica di un animo che si immerge istintivamente nelle cose.

«In questo sfondo di cristallina serenità spirituale tutte le immagini dell’umanità e della terra si dipingono naturalmente con un’assoluta freschezza, con la linea semplice e senza esitazioni con cui si presenta la vita nelle ore più limpide della giovinezza. Allora l’anima e le cose sono come una sola sostanza, e una sola armonia. Di qui quella grazia del nucleo immortale delle Stanze, quei contorni chiari e appena segnati che si fondono con la temperata luminosità del quadro, e sono la caratteristica superiore della lirica del Poliziano. Di quel nitore che non è più astrattismo e non è nemmeno concretezza, quel senso di vita fluente e felice che scorre uguale dovunque e non culmina in nessun luogo, quel trasvolare della fantasia di cosa in cosa delibandole appena, come se dovunque fosse la medesima pace e la medesima bellezza»[7].

La contemplazione della donna e della natura esprimono simbolicamente l’inconsapevole rimpianto per la mitica età dell’oro, la vaga nostalgia di un mondo che, se pure vivacemente attinto dalla concreta realtà naturale, giace come smarrito in un indistinto regno dei sogni, come un qualcosa di irraggiungibile e di inattuabile, perché l’invito del Poliziano ad abbandonarsi gioiosamente entro le braccia della natura rimane vincolato all’immagine della visione, al puro aspetto descrittivo, come se il sentimento non potesse giungere ad una fruizione più piena ed autentica, accontentandosi di rinvenire nell’atmosfera della favola e nella trasfigurazione del mito le proprie giustificazioni e la propria sostanza.

C’è una vena malinconica, dunque, nelle Stanze del Poliziano, vena che rappresenta quasi un’eco sorda, un cupo rumore di passi in stanze lontane, che attraversa tutta la sua arte. E la malinconia di quest’eco voi sentite «che si ripercote nella tranquilla immensità della notte, e vedete nell’episodio che si chiude nelle ore che il mondo perde la luce e i colori, una mestizia suggestiva, il tramonto tristissimo d’un sogno. C’è nel principio, nello svolgimento, nella fine di quella giornata, un’armonia superiore che vi conquista la fantasia. Dall’operosità fresca e serena dell’alba, dall’ora d’oro in cui fra lo zeffiro l’ape erra di fiore in fiore, all’animazione fervida del pieno giorno, al dilungarsi di Iulio in mezzo alla foresta deserta, all’inseguimento della cerva vicina sempre e non raggiunta mai, dall’apparizione della ninfa al suo lento dileguarsi, da questo allo spegnersi del giorno e del suo variopinto splendore e al pianto solitario dell’usignuolo, mentre il giovane innamorato sospira sulle sue pene e il suo nome invocato dai compagni si perde lontano nell’immobilità della notte, voi sentite che un motivo solo si svolge, estatico, in una catena di note ora beate ora accorate, che sembra zampillare da quel giorno di primavera, percorrerlo tutto mormorando e morire melodiosamente con esso. Sale con la luce l’arco dei cieli, e lo discende con essa: perciò Iulio, i fiori, le erbe, l’azzurro, Simonetta le stelle e l’usignuolo sono una cosa sola: il sogno e la sua atmosfera. C’è, nelle persone e nelle cose, l’idillio del sogno che nasce e l’elegia del sogno che dilegua»[8].

Questa tonalità poetica in cui il senso della natura e della femminilità che sboccia divengono pura espressione di un mondo mitico e contemplativo, si attua quasi in una sorta di lucido e cosciente sogno, in cui anche le note più vivacemente realistiche si fondono e riassorbono nell’atmosfera favolosa del quadro, conferendole al tempo stesso dei contorni e delle linee visive nitide e precise, sì da poter essere accostate al contemporaneo gusto dell’arte pittorica, cioè di quella civiltà artistico‑culturale del Quattrocento che nel rinnovato sentimento dell’immagine, della realtà visiva, è riuscita ad esprimere forse il meglio di se stessa.


La Favola d’Orfeo e le rime in volgare

La Favola d’Orfeo fu composta a Mantova, su richiesta del cardinale Francesco Gonzaga, al cui servizio si trovava il Poliziano, nel 1480 («in tempo di dui giorni intra continui tumulti», come dice l’autore stesso), per essere rappresentata (fabula in latino vuol dire anche commedia) in occasione di un fidanzamento.

La narrazione è ripresa da Ovidio (Metamorfosi X) e da Virgilio (Bucoliche IV). Il pastore Aristeo si innamora di Euridice, sposa di Orfeo mitico poeta della Tracia che ammansisce le fiere e smuove le pietre col suo canto. Inseguita da Aristeo, Euridice fugge e calpesta senza accorgersene un serpente che la uccide col suo morso. Orfeo, disperato, si reca agli Inferi per invocare la restituzione della sposa. Commosso dalla poesia del mitico cantore, Plutone, dio degli Inferi, restituisce Euridice, a patto che Orfeo non si volti indietro a guardarla finché non saranno tornati entrambi sulla terra. Ma Orfeo, vinto dall’amore, trasgredisce il divieto; perciò Euridice ricade negli Inferi. Giunto sulla terra, Orfeo viene straziato dalle Baccanti che lo puniscono per aver maledetto l’amore e giurato odio a tutte le donne.

Grande è l’importanza di questa «favola» nella storia del teatro, perché è la prima «rappresentazione scenica di materia profana della nostra letteratura; anche se la tecnica, nella disposizione delle scene, nel metro, nel modo di trattare la storia, resti in sostanza quella stessa dei drammi sacri popolari con in più qualche elemento attinto all’egloga dialogata»[9].

Il motivo ispiratore è ancora quello delle Stanze: la fede e la celebrazione del canto, della poesia come strumento di liberazione e redenzione, e il sentimento dell’amore come impossibile attuazione nella concreta realtà oggettiva; ma mentre nelle Stanze il sentimento si appagava nell’estatica contemplazione della donna e si rifugiava nell’evasione mitica della primigenia felicità naturale, nell’Orfeo, invece, lo stato d’animo s’incupisce e volge al dramma rifugiandosi nel mito orfeo-narcisistico (la vita cioè come aspirazione alla legge del piacere e della libertà erotica) sentito come colpevole e illecito e nel conseguente rifiuto della realtà, sino alla perdita totale, alla morte, allo sbranamento finale.

Molte sono le Rime in volgare che il Poliziano ci ha lasciato: ballate, rispetti spicciolati (così detti perché conclusi nel giro di una sola ottava), rispetti continuati (perché l’argomento poetico è protratto per una serie più o meno lunga di stanze). Queste poesie si ispirano a motivi popolareschi, rielaborati dall’autore con eleganza di stile; si tratta di un atteggiamento letterario abbastanza frequente fra i poeti del Quattrocento. Hanno valore disuguale; tra i rispetti sono comunque migliori quelli spicciolati per la più incisiva brevità con cui sanno realizzare il loro tono ora sorridente e arguto ora vagamente malinconico. Nelle ballate, «che son tra le cose più vive e squisite della poesia Quattrocentesca»[10], predominano motivi amorosi che cantano la natura e la bellezza femminile, talvolta con delicate sfumature di tipo stilnovistico-petrarchesco, talvolta invece con accento decisamente sensuale ed erotico. Lo stile è vario, ricercato e prezioso. Non manca poi il tema della caducità della vita – cui s’accompagna una visione pagana e laica della vita stessa, caratteristica, come s’è già detto, di tutta la poesia del Poliziano – che  viene rappresentato attraverso il topos letterario della rosa[11], il tutto in un equilibrio di linguaggio e di forme che anticipa già il carattere di molta letteratura della successiva età rinascimentale. Tra i testi lirici più noti e celebrati di Poliziano si possono ricordare la cosiddetta “Ballata delle rose”, in cui una giovane fanciulla descrive alle compagne un meraviglioso giardino pieno di fiori, tra cui le rose che lei invita a cogliere come simbolo della bellezza femminile e della giovinezza. Altrettanto interessante è la ballata “Ben venga maggio” in cui la festività popolare di Calendimaggio diventa occasione per un nuovo invito a godere della giovinezza e dell’amore finché è possibile, per cui le ragazze debbono concedersi ai loro spasimanti nella primavera che è la stagione dell’amore per eccellenza.


L’opera latina e greca

Vastissima l’attività del Poliziano come traduttore, interprete e rifacitore di opere greche e latine (la traduzione di alcuni libri dell’Iliade, iniziata all’età di soli sedici anni, gli valse –come s’è detto – la protezione di Lorenzo il Magnifico). Scrisse inoltre epicedi, elegie amorose, odi e invettive, tutte variamente ispirate a diversi modelli latini classici e post-classici. In latino scrisse anche nel 1478 un Pactianae coniurationis commentarium (Commentario sulla congiura dei Pazzi), fedele resoconto della cospirazione avvenuta in quell’anno e in cui era stato ucciso Giuliano de’ Medici, ispirato alla storiografia dell’età di Cesare (specie al De Catilinae coniuratione di Sallustio) e contenente una celebrazione encomiastica della figura di Lorenzo, di cui viene esaltato l’equilibrio e la fermezza di uomo di Stato.

Importantissima è, soprattutto, la sua attività di filologo, che si concentra nel periodo che va dal 1480 al 1494 (anni in cui il Poliziano occupò la cattedra di Eloquenza greca e latina nello Studio fiorentino), in cui la nuova filologia umanistica raggiunge la più alta maturità, perché lo studio della parola antica diviene vera e propria indagine critica e storia della cultura in senso lato; capolavoro in tal senso sono i Miscellanea, in cui son discusse con spregiudicatezza e vastità di orizzonti culturali cento questioni di filologia classica, di grammatica, ortografia, critica testuale.

Le quattro Sylvae (così intitolate sull’esempio di Stazio) sono delle prolusioni (in esametri latini) agli autori sui quali il Poliziano intendeva svolgere i suoi corsi universitari allo Studio fiorentino (intitolate: Manto, Rusticus, Ambra, Nutricia, e rievocanti le prime tre, rispettivamente, la poesia di Virgilio, Esiodo, Omero; mentre l’ultima è una specie di storia della poesia da Orfeo sino al Magnifico). Motivo ispiratore comune delle Selve è il gusto rievocativo delle belle forme delle letterature classiche; e di dotta e raffinata letteratura si tratta appunto, più che non di poesia. Numerosi gli epigrammi del Poliziano in lingua greca e latina, le odi e le elegie latine; le elegie costituiscono, anzi, il suo capolavoro poetico in lingua latina: tre di esse in particolare (In violas, In Albieram, In Lalagen) risplen­dono per un delicato sentimento della bellezza femminile e della sua caducità.

*** NOTE ***

[1] Cristoforo Landino (Firenze, 8 febbraio 1424 – Pratovecchio, 24 settembre 1498) umanista, filosofo e scrittore italiano, iniziò la sua attività poetica con la raccolta di versi in latino detta Xandra, dedicata a Leon Battista Alberti. Socio dell’Accademia Fiorentina, scrisse l’opuscolo De vera nobilitate, i dialoghi De nobilitate animae e le Disputationes camaldulenses, di stampo neoplatonico. Insegnò gli autori classici e volgari e scrisse una biografia concisa che andava da Cimabue agli artisti a lui coevi.

[2] Giovanni Argiropulo, o solo Argiropulo, (Costantinopoli, 1416 circa – Roma, 26 giugno 1487), umanista e scrittore bizantino, fu tra i primi promotori della riscoperta degli antichi nel mondo occidentale. Tra i suoi lavori scritti si ricordano le traduzioni di alcune porzioni di opere aristoteliche.

[3] Demetrio Calcondila (Atene, agosto 1423 – Milano, 9 gennaio 1511), umanista greco, insegnò greco antico a Padova, Firenze e Milano, dove ebbe come allievo Gian Giorgio Trissino.

[4] Carlo Marsuppini (Genova?, 1398 – Firenze, 24 aprile 1453), celebre umanista e Cancelliere della Repubblica Fiorentina, scrisse tra le altre cose una traduzione della Batracomiomachia.

[5] Paolo Cortese (Roma, 1471 – 1510), fu discepolo dell’umanista Pomponio Leto (Teggiano, 1428 – Roma, 1498), e segretario apostolico di molti papi. Scrisse i dialoghi De hominubus doctis sugli intellettuali del 1300 e 1400, il trattato De cardinalatu che delinea l’immagine ideale del “principe della Chiesa”.

[6] Attilio Momigliano in Il motivo dominante della poesia del Poliziano, introduzione a Angelo Ambrogini Poliziano, LE STANZE – L’ORFEO E LE RIME, nella Collezione di Classici Italiani con note, fondata da Pietro Tommasini-Mattiucci, diretta da Gustavo Balsamo-Crivelli, Vol. LV, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1925, pag. 8-9.

[7] Attilio Momigliano in op. cit., pag. 10-11.

[8] Attilio Momigliano in op. cit., pag. 21-22.

[9] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Firenze, La Nuova Italia Editrice, pag. 313.

[10] ibidem, pag. 313.

[11] Il topos della rosa come emblema della bellezza destinata a sfiorire presto è ampiamente presente nella poesia dell’età umanistico-rinascimentale e ricorre sia nelle Stanze dello stesso Poliziano, sia nell’Orlando furioso di Ariosto (nel Canto I, nel lamento di Sacripante sulla fedeltà di Angelica), sia ancora nel discorso del pappagallo sulle Isole Fortunate, nella Gerusalemme liberata di Tasso. Alcune delle liriche di Poliziano erano destinate all’accompagnamento musicale, aspetto interessante della compresenza di arti diverse nella produzione umanistica (lo stesso Lorenzo de’ Medici si dilettava nel suonare alcuni strumenti, mentre la musica avrebbe avuto grande importanza nella società del Cinquecento).


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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