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Marco M. G. Michelini | 30 Giugno 2017

L’anello del pescatore, il cappello del gaucho e l’abito del gobbo

 

Se c’è una cosa per la quale bisogna fare tanto di cappello a Santo Subito è quella di avere sempre tenuto nettamente distinto il suo “ministero pastorale”, troppo incentrato sulla mediaticità, sulla comunicazione, dalla dottrina e dalla teologia. Perché quello che io ho chiamato “papa cantante”, “papa ballerimo”, “papa peripatetico”, aveva fatto in modo che il timone della Chiesa fosse saldamente nelle mani di chi (il Cardinale Ratzingher, ad esempio) seguiva la scia tracciata da Giovanni XXIII e da Paolo VI. Faccio due esempi (ma ve ne sarebbero tanti altri) per spiegare ciò che intendo:

  1. quando alcune pie suorine gli chiesero di aprire la porta al sacerdozio femminile, lui la chiuse energicamente (anzi la sbatté letteralmente) dicendo che il ruolo delle donne nella Chiesa, per quanto importante, non era assolutamente compatibile con il sacerdozio;
  2. quando gli sottoposero  il problema di dare la comunione ai divorziati rispostati, lui rispose con la Familiaris Consortio che negava questa possibilità.

Riguardo al secondo punto, il motivo della negazione di Santo Subito è (o almeno dovrebbe essere) lapalissiano anche per coloro che non si intendono di teologia: se il matrimonio è indivisibile colui che divorzia, per non cadere nel peccato ha una sola strada da percorrere, cioè vivere in castità. Chi si risposa  e vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, vive nel peccato e quindi non può ricevere l’eucaristia.

Ebbene, il nostro Francis, quando si è trovato di fronte agli stessi quesiti, ha invece risposto al primo che era possibile e al secondo… be’ al secondo ha risposto pubblicando la Amoris laetitia, un documento che è frutto dei due sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015 (quest’ultimo tenutosi a Malta). Ciò che va comunque detto è che in tale documento la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all’eucaristia non trova esplicitamente spazio, ma, a giudizio di molti, è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un’evoluzione rispetto al n. 84 dell’esortazione Familiaris consortio.

Come ha detto S.E. il Cardinale Carlo Cafarra in un intervista al Foglio : «Il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all’ignoranza o all’errore a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l’imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote ha il dovere di illuminare l’ignorante e correggere l’errante».

Ma il Nostro Francis si è tolto l’«anello del pescatore» che indossavano i suoi predecessori – anzi no, lo indossa ancora, ma se l’è fatto fare d’argento invece che d’oro per dare l’immagine di una Chiesa più umile, più sobria e meno spendacciona: roba da scompisciarsi dalle risate; comunque, dicevo che Francis si è tolto l’«anello del pescatore» e ha indossato il cappello del gaucho. Infatti, quello che giornali e televisioni chiamano lo “stile Francesco” non è altro – in realtà – che un’accozzaglia di “gesti teatrali”, di “boutade”, che hanno alle spalle soltanto il nulla. Francis sembra avere dimenticato la durissima profezia di Paolo VI: «la vita cristiana (…) domanderà a noi cristiani moderni non minori, anzi forse maggiori energie morali che non ai cristiani di ieri». I gesti da soli non bastano. Servono testi che non neghino, ma che aiutino a riconoscere e portare nella giusta prospettiva la confusione e il dubbio che accompagnano il credere reale, condizione che oggi è di tanti e non di pochi. Anche qui la lezione da non dimenticare è sempre quella di Paolo VI, il papa della Dignitatis humanae (decreto sulla libertà religiosa) e della Humanae vitae (e delle catechesi sulla coscienza che le dedicò). Testi non semplici, certo, ma oggi pappette e slogan non nutrono più. Serve un pasto solido e concreto. Che intorno ai pontefici sorgano corti è inevitabile, ma è un dovere combatterle e disperderle. Come la dottrina non basta, così il “bergoglismo” non serve. Altrimenti, quando i gesti saranno passato, i testi saranno ancora presente e la nostalgia della verità in forma di sola dottrina avrà la meglio. Chi vende al pubblico la presunta “dottrina‑Bergoglio del rompete le righe” è un pericolo letale.

Del resto, come ha detto S.E: il Cardinale Carlo Cafarra sempre nella suddetta intervista al Foglio: «Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante.» Credo che questa frase riassuma in maniera davvero molto efficace ciò che il cosiddetto “effetto Francesco” sta provocando nella Chiesa Cattolica.

A questo punto aggiungo anche, per coloro che non ne fossero a conoscenza, che S.E: il Cardinale Carlo Cafarra è stato uno dei quattro prelati (gli altri sono S.E. il Cardinale Raymond Leo Burke, S.E. il Cardinale Walter Brandmüller e S.E. il Cardinale Joachim Meisner) che il 19 settembre 2016  hanno presentato al Pontefice, sulla base di una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia riguardanti appunto la Amoris laetitia. E i dubia consistono in quesiti che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnavano in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere Sì o No. Poiché Francis non ha risposto, i quattro presuli, interpretando il silenzio come un’autorizzazione a proseguire il confronto teologico, hanno pubblicato la loro lettera, fino a quel momento rimasta privata.

I bandoleros del gaucho, naturalmente, si sono subito spinti sulla soglia parresia più spinta come poche altre volte si era visto nei tempi recenti della chiesa. Dopo la pubblicazione dei dubia e della lettera con richiesta di chiarimenti dei quattro cardinali, essi sono intervenuti nel dibattito, accusando di fatto i quattro cardinali di essere un manipolo di congiurati. Il titolare del dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, il neo cardinale Kevin Farrell, ha detto a mezzo stampa che il Pontefice non deve rispondere proprio a nessuno e che il testo di Amoris laetitia è chiarissimo, giungendo anche a rimproverare il connazionale Charles Chaput, arcivescovo di Philadelphia, di aver presentato ai fedeli della sua diocesi linee-guida non in sintonia con le “aperture” romane. Dalla Polonia, invece, Monsignor Jan Watroba, presidente del Consiglio per la famiglia della Conferenza episcopale polacca, ha definito «non riprovevole» la pubblicazione della missiva di Caffarra, Burke, Brandmüller e Meisner. Anzi, a suo parere, si è trattato «dell’espressione di una preoccupazione per la corretta comprensione della dottrina di Pietro». «Io, altri vescovi e parroci siamo sopraffatti da queste o simili domande», ha aggiunto Watroba, ed «è un peccato che non ci sia nessuna interpretazione generale» del documento e che passi un messaggio «non chiaro», al punto che bisogna «aggiungere interpretazioni». «Io, personalmente – ha chiosato Watroba – forse per abitudine ma anche con profonda convinzione, preferisco un’interpretazione tale (come era solito fare Giovanni Paolo II) dove non c’era bisogno di commenti o interpretazioni del magistero di Pietro».

Ma l’interpretazione è proprio ciò che Fracis non vuole dare. Dire Bianco o dire Nero, dire Sì o dire No, è troppo impegnativo e il mulo argentino si rifiuta, quasi che la Chiesa potesse sopravvivere solo in “50 sfumature di grigio”. E da questi suoi gesti senza una dottrina alle spalle nascono le sue contraddizioni e i suoi disastri.  Fa mettere quatto docce, quattro bagni e un barbiere sotto il portico di San Pietro per aiutare i senza tetto (???). Crede forse che i senza tetto a Roma siano un paio di centinaia? Perché in una giornata solo una cinquantina di persone potranno utilizzare una delle 4 docce, forse altre 50 il barbiere e duecento persone appunto i cessi: se non mi credete basta che pensiate a quanto state sotto la doccia, nel cesso o dal barbiere. Ma la cosa che conta, appunto, è il gesto! Credete che Francis non sappia che in due Paesi di tradizione cattolica, Belgio e Spagna, rispettivamente il 71% e il 61% dei matrimoni terminano con un divorzio, negli Stati Uniti il 53, in Italia il 48 (da noi, però, si divorzia di meno perché ci si sposa di meno e molti semplicemente convivono). E credete che non sappia che la più parte dei divorziati si risposa? Quindi, ciò che conta è il gesto: strizzare l’occhiolino ai divorziati che si risposano, senza però negare i princìpi: ma lasciandoli dove sono, in un angolo remoto del suo magistero dove nessuno possa scovarli, neppure come punti di riferimento. E in questo modo non si sbatte la porta in faccia a chi ha divorziato e si è risposato, a coloro – insomma – che potrebbero essere un bacino potenziale di fedeli.

Benedetto XVI disse che esistono dei “princìpi non negoziabili”, Francis dice – invece – che tutto è negoziabile, che con tutti si può dialogare, che non si deve dare per perso nessuno. E cosa è uscito dalla bocca del suo bandolero Monsignor Becciu, sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, dopo l’ultimo attentato jihadista: «il papa niente lo ferma, nel dialogo, nella speranza che prevalga il senso del bene, della pace e della collaborazione. Niente quindi ci blocca per continuare il dialogo interreligioso. Malgrado tutto si va avanti». Chissà che domani non chieda ai cattolici di diventare musulmani per abolire le diversità?!

Francis ha affermato ripetutamente che da lui non verranno mai un sì o un no validi per tutti i casi ma solo l’indicazione di un metodo che consenta al confessore di accostarsi con verità ma anche con misericordia, caso per caso, alle situazioni concrete che sono ognuna diversa da ogni altra. «Ma che belle parole!», avrebbe chiosato il mai dimenticato Luciano Rispoli. Peccato che queste siano parole senza discernimento, così come il gesto è senza dottrina. Mi spiego meglio. Poniamo il caso che io, divorziato, che vivo more uxorio con la mia compagna (o “moglie civile”) vada da don Carlo a confessarmi per poter fare la comunione. Don Carlo si rende conto che io non ho alcuna intenzione di “ravvedermi” e di praticare la continenza per cui mi dice che non mi dà l’assoluzione e che io – pertanto – non posso fare la comunione. Grazie alle “50 sfumature di grigio” volute da Francis sapete io cosa posso rispondergli? Pazienza, tanto vado a confessarmi da don Giuseppe della parrocchia qui a fianco che ha la manica più larga della sua e l’assoluzione lui me la dà! E voilà! Questo è quello che ha prodotto il “bergoglismo”: il cattolicesimo fai da te!

Tutto questo si vede riflesso nella attuale situazione politica italiana dove i cattocomunisti, senza essere maggioranza nel paese, e con una maggioranza di opportunisti in parlamento, cercano di imporre alla maggioranza degli italiani la loro “visione del mondo”, prima con la nuova costituzione e ora con lo jus soli.

Venendo al punto, Giolitti diceva: «un sarto, quando taglia un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito». Questa frase mi è ritornata alla mente in questi giorni vedendo che giornali e Tv intervistano bambini nati in Italia da genitori stranieri, cogliendo il lato umano e drammatico di quelle esperienze, per mostrarci quanto “umanitaria” sia l’approvazione della legge sullo ius soli. Perché, come al solito, i nostri politici “buonisti” cercano – appunto – di fare l’abito a un gobbo senza fargli la gobba, cioè di promulgare una legge senza curarsi minimamente degli effetti che essa produrrà o, peggio ancora, fingendo di non vederli.

Ora non voglio soffermarmi sulle questioni tecniche della legge e neppure addentrarmi nei paradossali labirinti degli articoli e dei commi; non voglio neppure negare che vi siano persone che hanno tutto il diritto di sentirsi “ufficialmente” italiani; ciò che però non posso fare a meno di sottolineare è che essere italiani non è solamente una questione di carte bollate, di timbri o ancor meno di esamini scolastici o temi ben fatti, e che se i nostri politici riducono una così complessa questione com’è la cittadinanza a semplici slogan di nazionalismo spicciolo e anacronistico, dimostrano soltanto che dietro questa legge non vi è una scelta politica (giusta o errata che sia) ma semplicemente una scelta ideologica. Perché, come scrive Shakespeare in Amleto: «c’è del metodo in questa follia».

La scelta ideologica è quella di destabilizzare ciò che è stabile, di precarizzare ciò che è solido, di sradicare ciò che è radicato. La politica, succube del capitalismo finanziario, non vuole cittadini, ma migranti apolidi senza radici e senza stabilità lavorativa, etica ed esistenziale, che siano disponibili per mano d’opera a basso costo. Vuole insomma degli esseri che siano riconoscibili e che valgano solo in quanto consumatori: il cittadino vale per i diritti che ha, il consumatore per quello che può comprarsi.

È in quest’ottica che deve essere letta la legge sullo ius soli: con essa diventeremo tutti cittadini. Che bellezza, si potrebbe pensare, è il culmine dell’uguaglianza. In realtà, purtroppo, è solo il culmine dell’irrilevanza, nel senso che saremo tutti ugualmente irrilevanti. I diritti che ha il cittadino diventeranno privilegi e, in nome della lotta ai privilegi, saranno distrutti. Del resto se saremo tutti “cittadini” (come quel detto spagnolo “todos caballeros”) è ovvio che nessuno sarà veramente “cittadino”.

Va detto inoltre che questa legge che ci viene “calata dall’alto”, senza alcuna considerazione per la palpabile contrarietà della stragrande maggioranza del popolo italiano, è quanto di più antidemocratico vi possa essere in un momento storico ed economico come il nostro. Con tutto il rispetto per coloro che si sperticano a giustificare questa legge iniqua, anzi – per dirla terra terra – questa vera e propria porcata, portando ad esempio gli altri Paesi, o l’Impero Romano, o regni e monarchie, o altre epoche della storia, faccio notare che scelte di questo tipo vanno fatte tenendo conto della specifica realtà sociale ed economica, nonché dell’interesse primario dei cittadini. È da scellerati, nelle attuali congiunture economiche del nostro Paese, incentivare l’ingresso di mano d’opera a basso costo e rendere così ancora più incerte le attuali condizioni occupazionali, facendo balenare davanti agli occhi dei migranti la possibilità di diventare, a breve o medio termine, cittadini italiani. Una volta che il Parlamento avrà approvato a colpi di maggioranza la porcata, quante saranno le donne che saliranno sui gommoni per partorire in Italia? E chi sarà a soffrire maggiormente per questo aumento di flussi migratori? Gli strati di popolazione più deboli, quelli che questa becera classe politica, che si definisce di sinistra, dovrebbe difendere, e che invece affossa portando avanti stupide battaglie di facciata che servono solo a nascondere il totale fallimento delle sue politiche sociali ed economiche. E quando le periferie delle nostre piccole e grandi città “strariperanno”, ancora più di oggi, di ex-migranti divenuti cittadini la guerra tra i poveri e le rivolte saranno all’ordine del giorno.

In Francia, così come in Gran Bretagna ed in Belgio, vi sono migliaia di giovani (di seconda o terza generazione) che sono francesi solo sulla carta, come hanno palesato gli atti terroristici compiuti in questi paesi (da giovani appunto che ne avevano la cittadinanza). Ciò dovrebbe essere sufficiente a dimostrare quanto fallimentari siano le politiche di integrazione “per legge” o di quell’accoglienza che il caro Francis ci sbandiera ogni giorno, dimenticandosi (???) di quello che dice S. Agostino (la citazione non è letterale): accogliere significa prendere in casa propria una persona per aiutarla a tornare a casa propria, e non per mantenerla vita natural durante. Senza contare che integrazione significa adeguarsi alle leggi del paese ospitante, non il contrario come sta succedendo da noi dove, per paura di essere tacciati di razzismo, si abbassa la soglia del lecito e del legittimo o si cerca di cancellare la nostra cultura e le nostre tradizioni per dare spazio a quelle altrui.

Ma la cosa davvero incredibile è che il caro Francis si sia tuffato a pesce nelle polemiche politiche e tutte italiane sullo jus soli ed abbia dimenticato anche una frasettina ben più importante delle tante dette da S. Agostino: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Se non fosse così, infatti, non si immischierebbe negli affari dello Stato Italiano attraverso le “esternazioni” di due dei suoi bandoleros (scemi, non stanchi), cioè Mosignor Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, e il già citato Monsignor Becciu. Il primo, a proposito dello ius soli ha dichiarato: «Siamo preoccupati per come si sta affrontando questo problema, persino con gazzarre ignobili in Aula. Sono temi molto importanti. Ci sta che qualcuno sia contrario. Ma vedo che c’è chi ha cambiato idea. E ora fa politica unicamente per rincorrere il proprio successo, perché vuol fare solo il proprio interesse … Tre italiani su quattro sono d’accordo ma c’è chi usa la polemica per paura di perdere voti. Fare politica per rincorrere il proprio successo, non è fare politica. E tutti sanno chi ha cambiato posizione, idea, qui non è questione di appiccicare l’etichetta di italiano, ma di dare un senso di appartenenza, non ci si deve prendere a botte per questo, ma discutere». Il secondo, invece, ha letteralmente benedetto lo ius soli dicendo: « il Vaticano non si è ancora espresso, aspettiamo la decisione del Parlamento italiano, ma è chiaro che vorremmo che si riconoscesse la dignità delle persone che arrivano nel nostro Paese e quindi a chi nasce qui in Italia venga riconosciuta la cittadinanza».

Ora io mi domando: se al caro Francis stanno tanto a cuore le persone che arrivano in Italia, essendo lui a capo di uno Stato Sovrano per quale motivo – invece di impicciarsi della politica italiana e di “mettere il naso negli affari di Cesare” – non gliela dà lui la cittadinanza a tutti quelli che arrivano sui gommoni? Se è tanto desideroso di dare accoglienza li accolga per rimandarli a casa propria o se li mantenga. Chi glielo impedisce? Se vuole trasformare il Vaticano in una sala parto (perché è questo che accadrà all’Italia se lo ius “sola” sarà approvato dal parlamento) dove ci si ferma per sgravarsi, avere la cittadinanza e poi andarsene da un’altra parte, faccia pure; ma lasci che siano gli italiani a decidere sulle leggi del proprio paese. Anche perché, con buona pace di quel demente di Monsignor Galantino, gli italiani che approvano lo ius soli non sono tre su quattro, come lui afferma, ma al contrario uno su quattro, e per rendersene conto basta fare un giro nelle periferie di una qualunque città italiana e parlare con gli italiani che le abitano. Chiaramente, Monsignor Galantino non frequenta le periferie, essendo troppo impegnato a fare il testimonial di libri su Francis nei “salotti buoni” delle televisioni e dei giornali; e Francis, dal canto proprio, è troppo impegnato a blaterare, nelle sue prediche quotidiane a Santa Marta, di argomenti tarlati che non interessano più a nessuno, visto che in Europa (e non solo) ormai non c’è più ascolto per la Chiesa Cattolica. Francis ha fatto del tema sociale il suo vangelo dimenticando completamente ciò che il Santo fondatore dell’ordine da cui proviene (alla cui appartenenza lui accenna sempre con grande orgoglio) desiderava: una Chiesa missionaria ed evangelizzatrice, e non certo una Chiesa che rincorre tematiche che sono di competenza statale e parlamentare.

Il solito S. Agostino diceva (anche qui la citazione non è letterale) che il diavolo veste elegantemente e parla in maniera accattivante. Oggi, forse, direbbe che il diavolo veste di bianco e parla con accento argentino. E chissà che non sia proprio questo il vero terzo segreto di Fatima?!

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