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Marco M. G. Michelini | 18 Aprile 2017

Linea biografica

Battista Alberti nacque a Genova nel 1404, figlio illegittimo di Lorenzo e di Bianca Fieschi, appartenente a una delle più nobili casate genovesi. Per sua natura incline alla malinconia e alla solitudine, ma bisognoso di affetti familiari e di amicizie, vagheggiava l’ideale di una vita equilibrata e concorde. I primi studi furono di tipo letterario, dapprima a Venezia e poi a Padova, alla scuola dell’umanista Gasparino Barzizza[1], dove apprese il latino e forse anche il greco. Si trasferì poi a Bologna ove studiò diritto, coltivando parallelamente il suo amore per molte altre discipline artistiche quali la musica, la pittura, la scultura, la matematica, la grammatica e la letteratura in generale. Sin da giovane si dedicò all’attività letteraria: a Bologna, infatti, già intorno ai vent’anni scrisse una commedia autobiografica in latino, la Philodoxeos fabula.

Nel 1421, alla morte del padre, fu colpito da una serie di difficoltà allorquando, a causa dell’invidia e dell’ostilità dei parenti che non volevano riconoscere i suoi diritti ereditari né favorire i suoi studi, venne a trovarsi in una grave situazione di disagio economico e spirituale. È probabile che l’Alberti abbia eccessivamente drammatizzato queste vicende familiari ma rimane il fatto impor­tantissimo che tali contrasti coi parenti provocarono in lui una grave crisi nervosa, che costituì, senza dubbio, il momento decisivo della sua generale impostazione psicologica.

Queste avversità, comunque, ne misero a prova le doti fisiche e intellettuali e lo resero esperto della complessità e del travaglio della concreta esistenza quotidiana, temprando ancor più quel suo carattere così tenace nel reagire agli eventi sul piano di un’energica volontà di affermazione personale e di una profonda fede nei valori della vita. In quegli anni coltivò soprattutto gli studi scientifici, astronomici e matematici, e benché di complessione esile e delicata riuscì a divenire, mediante un’attività intensa ed esemplare, un buon atleta nei più svariali sport; ginnastica, equitazione, alpinismo. Egli stesso si diede il nome «Leon.».

Nonostante le difficoltà economiche e di salute, intrecciò tra Padova e Bologna amicizie con molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo Toscanelli[2], Tommaso Parentuccelli, futuro papa Nicolò V. Nel 1428 si laureò in diritto canonico a Bologna, o forse a Ferrara. Alcuni biografi vogliono che l’Alberti, dopo la laurea, passasse al servizio del cardinale Aleman, legato in Bologna, e in seguito del cardinale Albergati, e che avrebbe seguito poi quest’ultimo attraverso Francia, Belgio e Germania, nella legazione affidatagli da Martino V per la pace tra Francia e Inghilterra, tornando per Basilea nel 1432. L’ipotesi, che si fonda, soprattutto, su accenni fatti dall’Alberti venti anni più tardi nel suo De re aedificatoria a fenomeni e costumanze di quei paesi come se li avesse visti coi propri occhi, colmerebbe così una lacuna nella biografia dell’Alberti tra il 1428 e il 1432. Ma l’Alberti non è nominato nel seguito dell’Albergati alla pace di Arras, né fu presente al concilio di Basilea. Comunque sia, nel 1432 egli era a Roma, come segretario del patriarca di Grado e reggente della cancelleria pontificia, Biagio Molin, che lo fece nominare abbreviatore apostolico[3] da papa Eugenio IV. Il Pontefice, che già aveva annullato con una bolla l’impedimento che vietava all’Alberti, figlio illegittimo, di assumere gli ordini sacri e di godere i benefici ecclesiastici, lo nominò anche titolare della pieve di San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, un beneficio di cui godette fino alla morte, e che gli assicurò quella posizione economica che gli consentì per sempre una serena e libera vita di studio, all’ombra degli ambienti ecclesiastici e accolto nell’amicizia dei grandi papi umanisti: Niccolo V e Pio II.

La residenza a Roma venne interrotta solamente da pochi viaggi a Bologna, Ferrara e Firenze, importantissimi per la vita culturale dell’Alberti perché gli consentirono di rinsaldare la sua amicizia coi grandi scultori e pittori del tempo: Brunelleschi, Donatello, Ghiberti, Luca della Robbia, Masaccio, e di approfondire nella discussione viva i problemi inerenti alle arti figurative.

Morì a Roma nel 1472, dopo avere condotto una vita indenne da quello spirito cortigiano che pur caratterizzò tanti umanisti del Quattrocento: a ciò contribuirono l’orgogliosa coscienza della sua grandezza familiare e la sua moralità inte­gerrima che non tollerava compromessi di sorta.

È curioso osservare che questo grande teorico dei problemi della famiglia non si sposò: certamente per dedicare tutta la sua vita a un’attività di studio energica e prodigiosa, e tuttavia quasi a esprimere simbolicamente in questo suo fondamentale atteggiamento psicologico il sentimento, così connaturato al suo spirito, della con­traddittorietà del reale, dell’antitesi drammatica tra posizione teorica e concreta scelta individuale.

Umanista innamorato della cultura antica (come sentimento di formazione spiri­tuale e disciplina interiore), scrittore in latino e in volgare, abile pittore e scultore, archeologo, architetto fra i più insigni del Quattrocento, teorico delle arti figurative, buon conoscitore di musica e di canto, scienziato esperto di fisica, matematica, ingegneria, egli non pose limiti al suo desiderio di conoscenza, simboleggiando, come poi Leonardo da Vinci, l’ideale dell’uomo nuovo che mira a una sorta di cultura universale: un universalismo, tuttavia, che non ha più nulla a che vedere con l’astratto e gene­rico enciclopedismo medioevale, perché ormai interamente calato nella meditazione sui problemi concreti e specifici della vita quotidiana alla ricerca di «ragioni e ordine delle cose».

Unico fra gli scrittori del primo Quattrocento a perseguire nello studio della lingua volgare un consapevole intento di alta elaborazione stilistica, impegnò tutta la sua vita in un’energica lotta per sostenere, con lucida coscienza, la diffu­sione del volgare; le sue stesse amicizie sono scelte fra quegli umanisti (Bruni, Poliziano, Landino) e quei principi (Piero e Lorenzo de’ Medici, Lionello d’Este) che erano particolarmente favorevoli all’uso della lingua nuova. A tal proposito orga­nizzò nel 1441 in S. Maria del Fiore (con l’aiuto di Piero de’ Medici) una gara tra scrittori in volgare: il Certame coronario (così detto dalla corona d’alloro ese­guita in argento che avrebbe dovuto premiare il vincitore – ma il premio non venne assegnato), attorno al terna dell’amicizia, per il quale compose egli stesso il IV libro del Della famiglia.

Il mito della famiglia

Gli Alberti erano un’antica e ricca famiglia fiorentina, da almeno due secoli famosa e potente per la vasta attività commerciale svolta in tutta Europa. Cacciati in esilio nel 1387 ad opera della rivale famiglia degli Albizzi, durante una delle tante lotte per il predominio politico-economico di Firenze, vi saranno riammessi nel 1428. Ora l’esser nato in una delle più illustri famiglie della civiltà mercantile condizionò in maniera decisiva l’orientamento psicologico e spirituale di Leon Bat­tista e contribuì a creare in lui appunto quel mito della famiglia, nel quale convergono componenti storico-sociali, elementi culturali e ragioni psicologiche, e su cui si fonderà tutta la sua visione politica della vita e la sua concezione morale dell’uomo. Convergono altresì nell’elaborazione di questo concetto il culto umanistico della tradizione latina che presentava l’istituto familiare come il fondamento della virtus e dello Stato romano, ma soprattutto l’esperienza politico-sociale delle Signorie italiane del Trecento e del Quattrocento: a questo proposito Cosimo il Vecchio forniva l’esempio contemporaneo più tipico di una famiglia che da privata si faceva istituzione pubblica in conseguenza di un prestigio sociale e morale spontaneamente affermatosi e mediante un’autorità conquistata per via della virtù.

Quel senso di crisi economico-sociale e di instabilità politica che pervade la civiltà italiana fra il Trecento e il Quattrocento (e che troverà la sua soluzione solo col deciso affermarsi delle signorie personali e con la politica dell’equilibrio) induce l’Alberti a vedere appunto nel consolidamento dell’istituto familiare la possibilità di porre un argine al decadere e al corrompersi della civiltà economico-borghese splendidamente fiorita due secoli prima. Egli tenta allora di fondare ed elaborare in una nuova sistemazione, per così dire filosofica, la morale di questa società in crisi, una morale individuale e familiare che, estendendosi al di là della famiglia stessa, venga a costituire il tessuto connettivo dei rapporti interumani di tutta la società. Famiglia infatti per l’Alberti vuol dire un insieme vastissimo di persone e parentele collegate tra loro da un vincolo fortemente affettivo e costituisce già di per sé l’esempio di uno stato in miniatura, microcosmo nel macrocosmo della più vasta società di tutti gli uomini.

Ma, detto questo, va tuttavia sottolineato che quello della famiglia è un mito estremamente ambiguo e per così dire bifronte: il motivo ossessionante della fami­glia e dei parenti nasce in realtà nello spirito albertiano da una forte tensione interiore, scatenata da un conflitto di due opposti stati d’animo. Il sentimento odio‑amore per la famiglia costituisce infatti la genesi psicologica del duplice atteg­giamento spirituale dell’Alberti, quale si manifesta e realizza nelle contrastanti e contraddittorie risultanze delle sue conquiste sul piano dell’arte: da una parte un sentimento quasi anarchico e di rivolta, dall’altra il tentativo di superare questa posizione psicologica mediante la ricerca di un equilibrio, di un’armonia e una vo­lontà di perfezione, che plachino la tensione interna in una visione della vita idillica e pacificata, e la ristrutturino in una sintesi intellettuale ottimistica e rassicurante. Negli scritti della giovinezza e nei grandi capolavori in latino (Intercoenales e Momus) vi è infatti un tono pessimistico, eversivo e dissacratore della vita e dei valori umani; nelle opere in volgare, al contrario, quel sentimento sconvolto tende a ricomporsi in un equilibrio imposto dalla volontà e accanitamente perseguito dalla ragione.

L’Alberti, uomo dell’ordine, non può in effetti tollerare sentimenti di rivolta, ma vuole fermare e inquadrare le sue conquiste ideologiche secondo schemi e imposta­zioni di carattere assoluto e universalmente valide. La volontà e la ragione divengono perciò gli strumenti basilari per la conquista di quell’ordine stabilito e rigorosa­mente organizzato, in cui l’Alberti trova la soluzione dei suoi conflitti spirituali, attraverso un’energica affermazione di dominio intellettuale e morale.

E tuttavia, al di là delle apparenze, il senso di una lacerazione interna permane come sostrato emotivo della spiritualità e dell’arte di Leon Battista Alberti, proprio perché quell’equilibrio faticosamente raggiunto nello sforzo di un’imposizione volitiva e razionalizzante cela dietro di sé un’estrema tensione implicita, quasi come un oscuro sentimento di paura nei confronti di un ordine precario e sconvolgibile, sia sotto l’aspetto psicologico, sia sotto il profilo politico sociale.

Nelle Intercoenales e nel Momus l’esplosione di quegli istinti di rivolta, repressi e compressi nello spirito dell’Alberti, si scatena liberamente oltre ogni argine fanta­stico e intellettuale; ma si tratta di una libertà di sentimenti e di pensieri che non è mai consapevolmente assunta come strumento ideologico di rivolta nei confronti della realtà, perché, pur rivelando una tonalità ambigua e sconcertante, si sprigiona unicamente sul piano della pura fantasia, quasi in un tentativo di liberazione e di esorcizzazione di quegli istinti medesimi.

È cioè una tensione che esplode inconsciamente nei due capolavori latini come in un’istintiva anarchia della ragione e del sentimento, ma che può divenire consa­pevolmente accettabile appunto solo sul piano elusivo e sfuggente del gioco fanta­stico e attraverso la mediazione dell’ironia. Ne è segno l’uso stesso del latino, vale a dire di un linguaggio mediato, che nel suo valore universalistico e col suo carattere intellettualistico e irreale al tempo stesso, frena l’eccesso del sentimento e smorza l’impegno concettuale nella sovrastruttura dell’esercizio linguistico. Perciò, in ultima analisi, la differenza tra latino e volgare, anche sotto il puro profilo linguistico, diviene l’indice esponenziale del contraddittorio mondo psicologico e artistico dell’Alberti.

«Intercoenales» e «Momus»

Nelle Intercoenales, definite dall’autore «brevi composizioni da leggersi comodamente cenando», questa sorta di tensione che oscilla fra ironia e amarezza talvolta si carica di più vasti significati intellettuali e morali, ora si fa cupa e disperata, ora più polemica e tagliente nel suo impeto satirico, ora più sorridente e scherzosa, fino a stornare nei cicli di una levità quasi ariostesca[4]; ma su tutto prevale un sentimento pessimistico della vanità e precarietà del reale, in un gioco ironico della passione sorvegliato da un’estrema lucidità razionale.

Il Momus, opera d’arte più che di pensiero (malgrado le tante digressioni filosofiche), è tutto pervaso da un suggestivo ritmo eversivo e demitizzante, da un gusto spregiudicato e fascinoso del paradosso che, oscillando ancora fra ironia e amarezza, s’infiltra di continuo nelle invenzioni fantastiche e nelle polemiche concettuali. Al centro di questa favola mitologica è il dio ribelle Momo, che mette in scompiglio uomini e dei, rivelando in specie l’incapacità e irresolutezza del sommo Giove. Nella grottesca e complicata esagerazione del racconto, gli strali della satira non risparmiano nessuno travolgendo l’ideale di ogni ordine costituito, in una sorta di dissacrazione di tutti i valori supremi dell’uomo: politica, religione, filosofia, morate; ne emerge solo il mendicante, felice per la mancanza di preoccupazioni e di responsabilità.

Tuttavia questo momento particolare dello spirito albertiano asociale, pessimistico, corrosivo, acqui­sta una sua rigorosa unità nel pungente sapore polemico o satirico‑moraleggiante, che, fortemente ispirandosi ai dialoghi di Luciano e al loro tono di grottesca comicità, si alleggerisce di ogni peso e pedanteria attraverso l’assoluta libertà di uno sfrenato gioco fantastico. E non è un caso che il Momus fu letto e ammirato da Erasmo da Rotterdam, sul cui Elogio della pazzia ebbe un qualche vago influsso.

Il trattato «Della famiglia» e le altre opere in volgare

Il trattato Della famiglia, scritto in quattro libri, è in forma di dialoghi, che si fingono avvenuti a Padova nel 1421, poco prima della morte del padre Lorenzo, tra diversi parenti: Adovardo, Ricciardo, Lionardo, Giannozzo, Carlo e Lorenzo stesso. Nel I libro si discute dell’educazione dei figli, nel II libro dell’amore e delle cose che rendono e mantengono felice una famiglia, nel III libro della masserizia, e nel IV libro dell’amicizia. La parte più vivace è contenuta nel III libro, in cui Giannozzo, vecchio carico di esperienza più che di studi letterari, dà sensati consigli sull’economia: e proprio per il suo stile spigliato e per l’argomento pratico, questo III libro ebbe una fortuna particolare tra la borghesia fiorentina del 1400.

Ed è proprio nei trattati Della famiglia, nel De re aedificatoria e nel De iciarchia che si ricompone quel senso di crisi che percorre i due capolavori latini, attraverso un pensiero ottimistico più costruttivo e sistematico, che riconquista la fede nell’operosità degli uomini, i quali, nella fondazione morale delle famiglie come nella volontà costruttrice delle opere architettoniche, sconfiggono i limiti della realtà contingente, manifestando tutta la misura e l’equilibrio della loro forza creatrice: attraverso la meditazione attenta e rigorosa sui problemi dell’etica, della scienza, dell’arte, l’intelligenza dell’uomo trionfa e soggioga l’incertezza labile e sfuggente di quella vita umana che par sottoposta all’irrazionale vicenda della fortuna,

Nel trattato Della famiglia, il padre di famiglia diviene il simbolo dell’uomo ideale, che mediante l’uso di ragione e prudenza guida la famiglia, e implicitamente lo Stato, verso una situazione di sicurezza e felicità. È l’uomo nuovo del Quattrocento che con l’eser­cizio attivo della virtù vince l’instabilità della contingenza e trionfa della fortuna. Perciò intorno al problema basilare della famiglia e della funzione pedagogica del padre si collegano e si fondono in una complessa e vivace sintesi i temi essenziali del pensiero albertiano: il grande motivo del contrasto virtù-fortuna; il problema del valore della ricchezza; il significato della natura umana; e tutta una vasta tematica etico‑politico‑filosofica: poli di attrazione intorno a cui si articola quella libera maniera di filosofare che è così caratteristica dell’Alberti. Tale atteggiamento asistema­tico non nasce già da debolezza intellettuale, bensì dal sentimento della com­plessità della vita, da un’esigenza di concretezza, dalla radicale sfiducia nei confronti di ogni astrattismo filosofico, impotente, nella sua unilateralità, a penetrare la problematicità del reale e a coglierne e descriverne la complessa fenomenologia.

Su questa linea si pongono altresì tutte le restanti opere in volgare. Il Teogenio fu scritta «per consolare se stessi nelle proprie avverse fortune», e nel suo cupo pessimismo pare riflettere non solo un rinnovarsi di difficoltà familiari, ma anche delusioni di carattere politico. In esso l’Alberti si chiede se una repubblica riceva maggiori danni dalla prospera o dall’avversa fortuna, dalle difficoltà dei tempi o dalla malvagità degli uomini. Il Profugium ab erumna (o Tranquillità dell’animo) in cui l’Alberti sostiene l’utilità di ritirarsi in se stessi cercando nel rifugio di pochi amici il rimedio ai travagli della vita, ma in cui, soprattutto, «la pazienza di Ulisse» diviene il mito fondamentale di quella virtù albertiana che si impara soffrendo e lottando con ragione e prudenza nella realtà concreta della vita, il simbolo ideale di quell’equilibrio armonico di doti umane che l’Alberti sintetizza nel concetto di mediocritas.

Ultimo capolavoro in volgare (1470) è il De iciarchia (cioè, il governo della casa), in cui l’Alberti riprende e sviluppa con maggior maturità gli ideali di moderata virtù, già espressi nei suoi precedenti lavori. L’immagine ideale dell’uomo saggio si delinea attraverso la figura dell’iciarco, dall’Alberti definito «supremo uomo e primario principe della famiglia», nella consueta tematica moralistica di equilibrio tra passioni e meditazione, tra culto degli studi e operosità civile.

I trattati sulle arti figurative

Durante i soggiorni fiorentini l’Alberti scrisse (in due versioni, latina e volgare) il De statua, e il De pictura, (quest’ultimo trattato influenzerà decisamente Leonardo); opere scritte con il duplice scopo di rendere consapevoli delle teorie sulle arti figu­rative gli artisti delle botteghe artigiane, ma soprattutto di ricuperare e giustificare sul piano della cultura il valore di quelle arti di carattere manuale, come pittura, scultura, architettura, che erano considerate servili, o comunque inferiori alla lette­ratura, e di inserirle in un più vasto e integrale programma di formazione spiri­tuale dell’uomo.

Il periodo della maturità e della vecchiaia è caratterizzato dagli studi scientifici, soprattutto di matematica (scritti in gran parte perduti) e da un’intensa attività di architetto (Tempio malatestiano a Rimini; Palazzo e Loggia Rucellai, facciata di S. Maria del Fiore a Firenze; progetti per le chiese di S. Sebastiano e di S. Andrea a Mantova). Sotto la spinta di questa nuova attività compose attorno al 1450 in latino un fonda­mentale trattato in quattordici libri sull’architettura, De re aedificatoria, che è considerato il trattato architettonico più significativo della cultura umanista,  e che trasporta  in una prospettiva scientifico-estetica la propria visione filosofica del mondo e della vita.

L’Alberti fonda la sua morale e la sua estetica rispettivamente sui due concetti base della mediocritàs e della concinnitas: quella legge della vita morale che nel Della famiglia si esprimeva attraverso l’ideale della mediocritas, supremo equilibrio e armonia di atteggiamenti del mondo interiore ed esteriore dell’individuo, diviene ora concinnitas: simbolo estremo di quella bellezza e armonia di rapporti che è sentimento di perfezione innato nell’uomo e, cosmicamente, vera e propria perfe­zione strutturale intrinseca ad ogni organismo naturale, cui nulla può essere tolto o aggiunto senza che ne venga distratta la sua unità organica. Si tratta, comunque, nel campo morale, di un equilibrio non già spontaneo e immediato, bensì frutto di uno sforzo vigile che mira a conciliare tra di loro i vari e contrastanti aspetti della realtà umana e che conosce il rischio della sconfitta; e, nel campo estetico, di un’armonia che l’artista faticosamente realizza con un’ope­rosità calcolata e tenace nell’intento di ritrarre quella perfezione di natura che è modello ideale per l’uomo.

***NOTE***

[1] Gasparino Barzizza (Bergamo?, 1360 – Milano, 1431) fu un umanista, pedagogista, filologo e lessicografo. Tenne il suo primo insegnamento di grammatica, in forma privata a Bergamo. Nel 1402 si trasferì e fu professore di grammatica e di retorica all’università di Pavia; nel 1407 si trasferì a Venezia dove fu precettore privato dei Barbaro. Nel 1408 ottenne l’incarico di retorica e filosofia morale all’università di Padova. Rimase allo studio padovano fino al 1421, esponendo la dottrina dell’imitazione ciceroniana sia nelle lezioni che negli scritti. Nello stesso periodo tenne anche una scuola privata, organizzando nella sua abitazione un convitto per giovani facoltosi secondo nuovi criteri educativi e con uno spirito di cordialità che favorì il nascerei di iniziative pedagogiche analoghe. Durante la sua permanenza a Padova fu nominato segretario apostolico dall’antipapa Giovanni XXIII (13 agosto 1414) e nel 1417 fu per qualche tempo al concilio di Costanza come segretario di papa Martino V. Nel 1416 ottenne la cittadinanza padovana e l’anno successivo quella veneziana. Nel 1421 si trasferì a Milano, su invito di Filippo Maria Visconti. Nel 1428 tornò ad insegnare a Pavia; ma era ormai molto anziano e ammalato e morì pochi anni dopo.

[2] Paolo dal Pozzo Toscanelli nacque a Firenze nel 1397. Dopo aver compiuto i primi studi superiori presso lo Studio fiorentino, si recò all’Università di Padova dove studiò matematica e si laureò in medicina. Fu amico di Leon Battista Alberti e di Filippo Brunelleschi, al quale insegnò nozioni di matematica. Si è supposto che lo abbia anche aiutato con i calcoli per la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore. Proprio in questa chiesa, oggi possiamo osservare lo gnomone che Toscanelli realizzò, che all’epoca era il più alto mai costruito. Le sue osservazioni di comete sono le prime di cui abbiamo notizia: determinò molte posizioni delle comete, tracciandone le orbite su mappe stellari da lui preparate. Come cartografo, sulla base della Geografia di Tolomeo, che da poco era stata ritrovata e tradotta, disegnò un planisfero, purtroppo perduto, che mostrava come si potessero raggiungere le Indie attraverso l’Oceano Atlantico. Il suo calcolo, riproducendo gli errori commessi da Tolomeo, sottostimava la distanza da percorrere a questo scopo, riducendola a circa la metà di quella reale. È famosa una sua lettera ad Alfonso V del Portogallo, nella quale sosteneva che la via più breve per raggiungere l’Oriente dell’Asia fosse quella attraverso l’Atlantico. Morì nel 1482.

[3] L’abbreviatore era colui che redigeva appunto i brevi, documenti pontifici (litterae apostolicae), meno solenni della bolla, che erano usati per regolamentare gli affari di minore importanza della Santa Sede. Dato che i singoli generi di documenti possono essere distinti per mezzo di aggiunte, nel linguaggio ufficiale latino della Curia Romana, vengono identificati con l’etimo di litterae in forma brevis. L’espressione breve per i documenti anteriori al 1400 è anacronistica, poiché in epoca precedente ci si riferiva sempre alla bolla.

[4] Non caso in esse viene raccontato anche di un curioso viaggio sulla luna, vista come «Alius et idem», un luogo uguale al nostro mondo dove si raccolgono le cose perse sulla Terra. Immagine simile alla Luna descritta appunto da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, dove Astolfo si reca per cercare il senno perso di Orlando.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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