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Marco M. G. Michelini | 6 Aprile 2017

Linea biografica

Giovanni Pontano nacque a Cerreto nell’Umbria probabilmente nel 1426. Perduto il padre durante una sommossa civile andò a Perugia, ancora fanciullo, a studiare sotto le cure della madre. A ventuno anni, costretto dalle necessità a cercarsi una sistemazione, si presentò ad Alfonso d’Aragona (allora in Umbria per combattere i fiorentini), e fu assunto al suo servizio, forse anche per intercessione del Panormita, famoso letterato e uomo di mondo. Nella corte di Napoli trovò un ambiente culturale aperto alle idee nuove dell’Umanesimo: il Panormita vi aveva, anzi, fondato, all’ombra mecenatesca di Alfonso, una brillante Accademia che raccoglieva intorno a sé letterati già famosi e giovani promettenti. Nella ricca biblioteca aragonese il nostro Gioviano (così il Pontano volle chiamarsi) completò la sua formazione spirituale, imparando il greco sotto valenti maestri e appassionandosi allo studio dell’astrologia. Si rivelò per la prima volta uomo dotato di senso pratico e attento alle vicende umane, quando ebbe occasione di seguire il Panormita in un viaggio politico attraverso l’Italia; Alfonso lo nominò infatti suo consigliere e “protomagistro camerario”[1]. Dal nuovo re Ferdinando I il Pontano ricevette in dono una villa  a Napoli e fu  nominato precettore  del futuro re Alfonso II; quando questi si sposò divenne segretario della bella e colta moglie Ippolita Sforza (la stessa a cui Masuccio dedicherà il Novellino); ma soprattutto iniziò una vita ricca di vicende politiche e militari:  seguì il sovrano nella guerra contro gli Angioini, combattendo a Troia (1464); partecipò nel 1481 alla riconquista di Otranto[2] e alla guerra di Ferrara, che vide il regno di Napoli (assieme a Firenze e al papa Sisto IV) contrapporsi a Venezia, e che terminò con la pace di Bagnolo (1484) grazie anche all’abilità diplomatica del nostro poeta. Così pure le trattative con Innocenzo VIII, dopo la “congiura dei baroni”, furono  merito del Pontano,  che raggiunse il vertice della carriera politica nel 1487, allorquando Ferdinando I, nella repressione che seguì a questa congiura, fece uccidere il suo segretario di stato Antonello Petrucci[3], accusato di tradimento, e affidò la carica di segretario al Pontano. Gli impegni di Stato non gli avevano intanto impedito di comporre numerose opere letterarie e politiche, cosicché, cresciuta la sua fama anche in questo campo, assunse nel 1471, alla morte del Panormita, la guida dell’Accademia napoletana (che da lui prenderà appunto il nome di pontaniana).

Poco felici furono le sue vicende familiari: sposatosi nel 1462 con Adriana Sassone, perse nel 1478 la figlioletta tredicenne; nel 1490 moriva anche la moglie amatissima e otto anni dopo il caro figlio Lucio. Andò allora a vivere con una giovane donna.

Nel 1490 si dimetteva da segretario, insoddisfatto del trattamento economico e morale ricevuto (dopo la congiura del Petrucci gli Aragonesi erano divenuti sospettosi e avari): famosa la lettera di protesta che egli scrisse (pur in un rozzo volgare), mostrando tutta l’energia del suo carattere sprezzante di ogni servilismo, in un’epoca storica di letterati inclini alla bassa cortigianeria: «Vostra Maestà ha fatti Essa tutti li suoi ministri, e a tutti ha dato, me non ha fatto Essa, perché me son fatto io, da me medesimo… ma io ho ben dato ad Esso e al figliuolo, e Voi lo conoscete, e se non lo volete cognoscere, non è però ch’io non dica il vero. Li feudi, li castelli, le provisioni, le rendite, le donazioni, che aspettavano i miei servizi (non però che li spettassi io), son questi, che del sudore mio sia tributario al fisco de venti docati il mese… io non nacqui tributario ad alcuno… né crediate Voi, che sete savio, possente e vecchio, ch’io in quest’ultima jostra del vivere abbia ad essere tributario, né lo credano Vostri figlioli, né nepoti, e con giustizia, non dico con forza. Io non dubito andare a starme alla mia masseria [la villa di Antignano] sicuro senz’armi e senza guardia». Richiamato allora in servizio, si adoperò in ogni modo per impedire l’isolamento del regno di Napoli di fronte all’ormai imminente pericolo della spedizione di Carlo VIII. Ma vani furono i suoi ammonimenti, sin da quando, pochi giorni dopo la morte di Lorenzo de’ Medici, scriveva al re per indurlo all’alleanza con Innocenzo VIII (amico del poeta) contro Ludovico il Moro: «Lorenzo è morto, tanto più dovete studiarve a guadagnare el Papa per averlo solo. Lodovico [il Moro] si è dimostrato Vostro mimicissimo; e lo Papa da presente se mostra tale verso esso; e vedete che tacitamente lo ha interdillo. Non sapete cognoscere el tempo, perdonateme; non fate bene…».

Morto il Papa l’anno dopo e succedutogli Alessandro VI (incline al re francese) la partita fu persa: il Pontano tentò ancora di indurre i due successivi (e inetti) sovrani, Alfonso II e Ferdinando II, ad attuare con prontezza e decisione il piano politico-militare che egli stesso aveva studiato per fermare l’invasore francese. Mentre Ferdinando II fuggiva toccò al nostro poeta salvare il salvabile, conducendo trattative con Carlo VIII ormai entrato in Napoli (1495). Con il ritorno a Napoli degli Aragonesi, il Pontano preferì ritirarsi dalla vita politica mantenendo solo qualche incarico minore. Chiuso ormai nella cerchia degli amici dell’Accademia, dedicò l’indefessa energia degli ultimi anni a rielaborare e ordinare la sua vastissima opera letteraria. Moriva nel 1503, tutto raccolto nel culto dei suoi cari morti che aveva riunito in un tempietto di fronte alla sua casa: sentimenti familiari sinceri e profondi, anche se il nostro poeta spesso non aveva disdegnato vivere e cantare più facili e sensuali amori.

Le opere

Dagli scritti di un uomo che ebbe vita politica così concreta e impegnata ci si potrebbe aspettare un’immediatezza vibrante di temi umani e di toni stilistici, che fossero l’espressione diretta della sua esistenza tutta calata nel reale delle cose. In effetti il Pontano è scrittore ricco di interessi culturali vari e vivaci, ma piuttosto frammentari e, nel complesso, non veramente profondi. Questa sua aderenza ai problemi intellettuali del tempo, il suo culto dello stile elegante e raffinato, frutto di una conoscenza e di un dominio eccezionale della   lingua   latina,   il suo   gusto poetico, sensuale e sentimentale, la sua concezione edonistica della vita ne fanno, comunque, una delle figure più caratteristiche dell’Umanesimo di fine secolo (e soprattutto in quell’ambiente napoletano aragonese che stava operando un suo particolare recupero di elementi formali della cultura classica). Scrisse unicamente in latino (in volgare ci ha lasciato solo le lettere scritte a corrispondenti vari, ricche spesso di immediatezza e passione, ma composte nella più assoluta noncuranza stilistica); e questo fatto, in un’epoca in cui il volgare si andava ormai decisamente affermando, ci mostra quasi simbolicamente il divario che si crea nella concezione pontaniana fra il concreto impegno della vita politica e il tono un po’ evasivo, edonistico, formale di una letteratura avvertita quasi come otium, o anche come riflesso immediato della vita quotidiana, ma nell’ambito di una consolazione o compensazione poetico-fantastica da conseguirsi nell’esercizio di un supremo equilibrio formale: concezione d’altronde abbastanza tipica dell’intellettuale di fine Quattrocento.

Come scrive il De Robertis, «la vera natura» del Pontano, «più che voluttuosa è sensuale, è immaginativa e scenografica»; e atteggiamenti costanti del suo animo sono l’esaltazione dell’amore come vita dei sensi e come immaginazione, il culto delle bellezze naturali e della femminilità, un desiderio intenso di partecipare ai piaceri della vita e al tempo stesso una certa tenerezza sentimentale per gli affetti familiari. Quasi tutte le opere del Pontano (oltre 20.000 versi e numerosissimi scritti in prosa) furono dall’autore riprese e rielaborate negli ultimi quindici anni di vita. Nella raccolta in versi Amores già vediamo affiorare i fondamentali temi della natura, del paesaggio, dell’amore sensuale, che proseguono nei due poemetti Lepidina e Lyra: il primo di un più scoperto gusto idillico‑mitologico, il secondo di una fattura stilistica estremamente raffinata. Più vivaci gli Hendecasyllabi o Baiarum libri, colorita descrizione del paesaggio di Baia e della vita libertina che si svolgeva in questo centro balneare, a cui accorrevano gli esponenti della cultura e del “bel mondo” napoletano. Tutto rivolto agli intimi affetti familiari è invece il De amore coniugali, che ebbe vasto successo anche fuori d’Italia per via dell’argomento così insolito nella poesia di lingua latina. A questa raccolta di versi appartengono le famose dodici “nenie” per il figlioletto Lucio, che nella loro semplice brevità sono tra le cose migliori del nostro poeta per il sentimento di tenerezza verso il mondo dell’infanzia da cui sono pervase. Tuttavia sia i temi sensuali che quelli più teneri e familiari, o magari dolorosi e tragici, si smorzano spesso nella loro efficacia espressiva, proprio per l’insistenza stessa dei toni e delle immagini (talvolta anche solo verbali), che finiscono per conferire al componimento poetico un qualcosa di languido e di lezioso. Nei Versus jambici ritornano i temi dell’amore per la moglie Adriana e per il figlio Lucio (ora entrambi morti); motivi cari alla fantasia del Pontano, al punto da comparire persino mescolati con quelli sensuali in un poemetto come l’Eridanus, che rievoca un senile amore del poeta ormai ultracinquantenne per una certa Stella. Il tema doloroso della morte e dell’aldilà, congiunto al sentimento della separata felicità futura in un oltretomba idillicamente concepito con gusto paganeggiante, diviene dominante nei Tumuli, epitaffi per amici e protettori, oltre che per i familiari (ora è morta anche la figlioletta Lucia Marzia). Tra le altre opere ricordiamo l’Hortus Hesperidum, poemetto mitologico‑didascalico sulla coltivazione dei cedri, e il Meteororum liber, descrizione in versi dei fenomeni naturali e atmosferici. Più attinenti a una tematica cara alla fantasia e alla mente del Pontano le opere sull’astrologia: l’Urania, in cui troviamo, come scrive il Vasoli, «un senso panico e vitale della natura, un’idea lucida ed entusiastica dell’assoluto nesso che unisce ogni aspetto della realtà anima tutto il poema» e il De rebus coelestibus: scritti che rivelano una vastissima conoscenza della letteratura astrologica sia classica che medioevale (sul problema astrologico vi fu, come si è già detto, una polemica con Pico della Mirandola, preoccupato che la concezione pontaniana negasse il valore della libertà umana). Scrisse ancora delle egloghe, un libro di storia e numerosissimi trattati sui più svariati argomenti morali; inoltre un’operetta politica (De principe), che, come nota il Garin, «pur nel suo tono semplice di consigli a un giovane principe, manifesta già concetti e spunti cui Machiavelli darà un rigore ineguagliabile». Più interessanti per i loro aspetti bozzettistici i Dialogi. Il Charon, ispirandosi al tono dei dialoghi di Luciano, sferza con ironia la corruzione ecclesiastica e la superstizione religiosa (oltre che i letterati fanatici degli studi grammaticali). L’Antonius e l’Asinus presentano invece un aspetto quasi di commedia sia per la vivacità del dialogo, sia per la presenza di situazioni e personaggi più gustosamente comici. Non vi è alla base di tali dialoghi un vero e proprio argomento che sia oggetto di discussione: la fantasia spazia variamente e liberamente descrivendo e satireggiando ambienti, costumi, personaggi, situazioni. Di carattere più culturale e ragionativo sono invece l’Aegidius e l’Actius: il primo tratta problemi religiosi, filosofici, astrologici, il secondo (che trae il titolo dal nome accademico dell’amico Sannazaro) discute su questioni letterarie cercando di distinguere tra poesia e storia: secondo la tipica concezione umanistica, mentre la poesia deve imitare la natura con la fantasia, la storiografia è invece opera di carattere retorico, che si serve dell’eloquenza per ammaestrare.

***NOTE***

[1] Cioè ministro delle finanze.

[2] Otranto era caduta nelle mani dei turchi nel 1480, quando un esercito ottomano, in realtà diretto a Brindisi, ma dirottato più a sud da un forte vento di tramontana, aveva attaccato la cittadina salentina. Lo sbarco avvenne su una spiaggia a nord di Otranto che ancora oggi si chiama Baia dei turchi. La città fu posta sotto assedio per circa due settimane e i suoi abitanti si rifugiarono all’interno delle mura resistendo e respingendo con vigore le offese. Tuttavia, quando i turchi riuscirono ad aprire una breccia, gli otrantini (per la maggior parte disarmati) non riuscirono a contenere la furia degli invasori. I bambini più fortunati furono presi e portati in Turchia per fare da schiavi, altri furono violentati e uccisi con le donne, altri ancora dovettero subire tremende mutilazioni. Al termine della battaglia, il 14 agosto, furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i Santi Martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese. In seguito all’invasione degli ottomani, andò distrutto il monastero di San Nicola di Casole, che ospitava allora una delle biblioteche più ricche d’Europa.

[3] Antonello Petrucci era nato a Teano da un’umile famiglia contadina, fin da giovane mostrò una vivace intelligenza e venne perciò avviato alla carriera notarile presso il notaio Giovanni Ammirato di Aversa. L’abilità con cui mostrò di destreggiarsi nella giurisprudenza lo rese piuttosto noto, tanto da entrare nella cancelleria reale (la “scrivania regia”) di Alfonso V d’Aragona intorno alla metà del secolo. Dopo aver ricoperto molte alte cariche, divenne segretario di re Ferrante I, che gli conferì il titolo di barone ed altri privilegi feudali. Desideroso di approfondire i propri legami con la nobiltà del regno fece sposare suo figlio Giovanni Antonio a Sveva Sanseverino, finché non rimase coinvolto nella cosiddetta congiura dei baroni. Scoperto ed arrestato, Antonello Petrucci venne giustiziano alcuni anni dopo (1487).


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

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