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Marco M. G. Michelini | 7 Febbraio 2017

Il nuovo Papa, Sisto III, era romano di nascita[1] e la sua elezione avvenne quattro giorni dopo la morte del suo predecessore, e cioè il 31 luglio 432. Sisto era già membro attivo e influente del clero romano sotto papa Zosimo, dal momento che a lui sono indirizzate due lettere di Agostino del 418. La sua attività prima dell’elezione al soglio pontificio si estende quindi tra i pontificati di Zosimo, Bonifacio e Celestino. Agostino mostrava preoccupazione per l’atteggiamento del presbitero Sisto al momento in cui Papa Zosimo riammise nella comunione ecclesiale Pelagio e Celestio (autunno 417), e lasciava intendere che in Africa egli era considerato come simpatizzante della dottrina pelagiana. Quando poi Zosimo, come abbiamo già visto, promulgò nella lettera Tractoria la condanna aperta di Pelagio e Celestio, Sisto chiarì la sua posizione prendendo le distanze dai pelagiani. Egli scrisse ai due principali esponenti della lotta antipelagiana: Aurelio, Vescovo di Cartagine, e Agostino; quest’ultimo rispose con le due lettere citate, di cui la prima è una breve risposta per dire che aveva ricevuto la lettera di Sisto, mentre la seconda contiene invece una lunga trattazione sulla dottrina che bisognava opporre ai pelagiani e la richiesta a Sisto di prestare molta attenzione a Roma, affinché ogni persistenza pelagiana fosse smascherata e corretta.

Alla consacrazione episcopale di Sisto III furono presenti due vescovi inviati da Cirillo di Alessandria per informare Roma della difficile situazione in cui versava l’unità della Chiesa in Oriente, dopo il concilio di Efeso. Il Papa, attraverso i due vescovi legati, Ermogene e Lampezio, inviò a Cirillo due lettere, chiedendo che la prima venisse fatta conoscere ai vescovi d’Oriente. Nell’una e nell’altra il nuovo Pontefice si mostra in piena continuità con la linea del suo predecessore, secondo il principio che quanto già deciso non deve essere cambiato. Inoltre, l’indicazione specifica di Sisto, riguardo la riconciliazione, è di cercare la più larga apertura possibile sul fronte antiocheno, al fine di giungere al più presto ad una definitiva pacificazione. Solo Nestorio, insomma, doveva essere considerato “naufrago”; tutti coloro che volevano tornare sulla retta via, dovevano essere accolti nella comunione ecclesiale; quanto a Giovanni di Antiochia, egli sapeva bene, da quanto era stato stabilito per lui, come dimostrare di essere “sacerdote cattolico”. È chiaro che Sisto III allude all’epistola, inviata al concilio di Efeso, dopo la condanna di Nestorio, dal suo predecessore e, riprendendone le espressioni, ne parla come qualcosa in cui ha avuto parte.

Da una lettera di Acacio di Berea[2], si deduce che Sisto si rivolse a questo venerando rappresentante dell’episcopato orientale per chiedergli un’opera di mediazione. Lo stesso Imperatore si pose sulla stessa strada per favorire le trattative: su consiglio del Patriarca Massimiano e del clero di Costantinopoli, secondo i quali la pace sarebbe tornata se Giovanni di Antiochia e i vescovi a lui legati avessero cessato le loro proteste e avessero confermato la deposizione di Nestorio, Teodosio II scrisse ad Acacio di Berea e al venerato asceta Simeone lo Stilita[3], chiedendo il loro aiuto, e nominò il notaio di corte Aristolao perché agisse come suo rappresentante.

Aristolao si recò innanzitutto ad Antiochia dove, in seguito a questa visita, nell’aprile 432 si riunì un Sinodo locale presieduto dal Patriarca Giovanni, alla presenza Acacio di Berea. Nel Sinodo venne elaborato un documento contenente sei proposizioni, delle quali è conservata solo la prima: in essa i vescovi dichiaravano di aderire fermamente al Credo di Nicea, si richiamavano ad Atanasio, ma affermavano di rifiutare quanto fosse stato aggiunto successivamente. Ciò che si voleva significare con queste espressioni era che la via di una conciliazione consisteva, per loro, in un ritorno alle posizioni precedenti gli scritti antinestoriani di Cirillo di Alessandria. Aristolao portò ad Alessandria le proposizioni degli Orientali, insieme ad una lettera di Acacio, ma Cirillo rimase fermo nelle sue posizioni ritenendo, inoltre, che gli ordini imperiali esigessero in pratica un’esplicita condanna di Nestorio da parte degli Antiocheni e quindi un avvicinamento alla sede di Alessandria.

La risposta di Cirillo, sebbene non priva di qualche tono conciliante, ad Antiochia ebbe un’eco negativa. La posizione più intransigente era rappresentata da Alessandro di Gerapoli[4], il quale si espresse ampiamente in termini di rinnovata polemica contro Cirillo, dichiarando che le sue proposizioni erano totalmente insufficienti riguardo alle due nature di Cristo. I vescovi di cui rimangono testimonianze nella medesima direzione sono Andrea di Samosata[5], Elladio di Tarso, Imerio di Nicomedia[6], Euterio di Tiana[7]. In posizione più accomodante si pose Teodoreto di Cirro[8], in varie lettere inviate ai vescovi impegnati nella vicenda.

Per un certo periodo le trattative rimasero bloccate, ma a Costantinopoli non si era più disposti ad attendere. Cirillo appariva il meno disponibile a passi di riconciliazione, dal momento che non era disposto a venire a patti sui suoi anatematismi contro Nestorio. Così, il Patriarca di Costantinopoli, Massimiano, interpellato dall’Imperatore insieme ai vescovi che si trovavano nella capitale, suggerì che ad entrambe le parti fosse richiesto un passo concreto: Giovanni di Antiochia doveva accondiscendere alla condanna esplicita di Nestorio e Cirillo di Alessandria doveva ritrattare i suoi scritti antinestoriani; le due parti, poi, si sarebbero accordate su una formula di fede. Inoltre, Massimiano consigliava l’esilio per Giovanni e per Cirillo, nel caso di ulteriore resistenza. Giovanni di Antiochia, da parte sua, anche per le pressioni dei due mediatori Aristolao e Acacio di Berea, continuò nei tentativi di pacificazione: sottolineò presso i suoi vescovi che, negli scambi intercorsi, Cirillo offriva ormai sufficienti garanzie circa il superamento di ogni possibile confusione delle nature in Cristo, e riconosceva la loro dualità. Decise inoltre di rivolgersi personalmente a Cirillo senza insistere ulteriormente sul ritiro degli anatematismi e presentandogli una confessione di fede rappresentativa delle istanze antiochene. Se Cirillo avesse accettato di firmarla, non si sarebbe più tornati sulle polemiche del passato e la comunione ecclesiale sarebbe stata ristabilita.

Comunicata la decisione all’Imperatore, Giovanni inviò ad Alessandria il Vescovo Paolo di Emesa[9], persona di fiducia di Acacio di Berea, per consegnare a Cirillo una lettera improntata a toni di superamento del passato e di auspici per la rappacificazione e, insieme, la formula di fede che Cirillo avrebbe dovuto sottoscrivere. Si trattava della professione di fede formulata dagli Orientali a Efeso nell’agosto 431 e, ora, leggermente ampliata ad Antiochia. Dopo un paragrafo introduttivo, la parte centrale della formula antiochena proposta a Cirillo è la seguente: «Noi confessiamo Nostro Signore Gesù Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo, [composto] di un’anima razionale e di un corpo, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e, in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato dalla Vergine secondo l’umanità; egli è consustanziale [ὁμοούσιος] al Padre secondo la divinità e consustanziale [ὁμοούσιος] a noi secondo l’umanità. Poiché si è fatta l’unione [Ενωσις] di due nature, noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore. In base a questo modo di intendere l’unione senza confusione, noi confessiamo che la Santa Vergine è Madre di Dio [Θεοτόκος], perché il Dio Logos ha preso la carne e si è fatto uomo e, fin dall’istante del suo concepimento, ha unito a sé il tempio assunto dalla Vergine. Quanto alle espressioni evangeliche e apostoliche relative al Signore, noi sappiamo che i teologi ne usano alcune indistintamente, come riferentesi a una sola persona, e distinguono altre come riferentesi a due nature: quelle che sono degne di Dio, quando si tratta della divinità di Cristo; le meno elevate, quando si tratta della sua umanità».

Rispetto alla stesura efesina, l’ampliamento della nuova redazione consiste nell’ultimo paragrafo, ove si afferma la ripartizione dei termini scritturistici da riferire ora alla natura divina ora a quella umana: questa parte rappresenta una smentita del quarto anatema di Cirillo che appuntava proprio questo procedimento nel linguaggio cristologico. È da notare inoltre la presenza di un elemento tipico della teologia antiochena quale l’espressione tempio assunto per indicare l’umanità del Verbo incarnato. La concessione principale verso gli alessandrini è da riconoscere nell’affermazione la Santa Vergine è Madre di Dio.

Cirillo si mostrò esitante e le trattative si prolungarono ancora; ma da parte imperiale, attraverso Aristolao, le pressioni a concludere erano ormai giunte sul filo delle minacce. Così, il Vescovo di Alessandria dovette infine accontentarsi della dichiarazione di Giovanni di Antiochia di riconoscere la deposizione di Nestorio, e della condanna generica della sua dottrina. La risposta di Cirillo a Giovanni fu la famosa lettera Laetentur caeli et exultet terra, in cui l’Alessandrino si rallegra per l’unione finalmente ritrovata e inserisce integralmente la formula presentata da Antiochia, aggiungendo però ancora alcuni chiarimenti: la giustapposizione tra perfetto Dio e perfetto uomo, viene resa da Cirillo con l’attenta formulazione: «Il medesimo, perfetto nella divinità, perfetto nella umanità» che sottolinea l’unità del soggetto in Cristo.

Giovanni comunicò all’Imperatore, nei termini generici della lettera a Cirillo, l’assenso alla deposizione e alla condanna di Nestorio, aggiungendo la richiesta formale che tutti gli altri vescovi colpiti dalle precedenti sanzioni venissero ristabiliti nelle loro sedi. A Sisto III, Giovanni aveva scritto qualche mese prima, probabilmente subito dopo avere inviato Paolo di Emesa presso Cirillo con l’ultima lettera che precedette l’accettazione del Patriarca di Alessandria, e cioè negli ultimi mesi del 432 o all’inizio del 433[10]. Il Patriarca di Antiochia scriveva inoltre a nome anche degli altri vescovi che indica come “quelli che sono con me”, e si rivolge, oltre che a Sisto III, a Cirillo di Alessandria e a Massimiano di Costantinopoli. A mo’ di promemoria, Giovanni di Antiochia esponeva la sua visione dello svolgimento dei fatti: l’occasione del concilio determinata dalla dottrina di Nestorio, la parte avuta dai legati del papa Celestino nella rapida condanna e nella deposizione dell’allora Patriarca di Costantinopoli, l’essere giunti gli Antiocheni a cose già fatte. A tale situazione egli faceva risalire il dissidio rispetto alle decisioni del Concilio e la resistenza a sottoscrivere la deposizione di Nestorio. Nel rapido ma attento riferimento alle motivazioni della propria posizione, Giovanni non faceva alcun cenno ai temi dottrinali; passava invece, nella seconda parte della lettera, a porre in evidenza la ragione principale del suo addivenire a posizioni di accettazione: le gravi discordie che si erano venute a creare tra le Chiese avevano impegnato la responsabilità di tutti a rimuovere i motivi di dissenso per ricondurre gli animi alla concordia. In tal senso si era mosso l’Imperatore attraverso il suo legato Aristolao e, in vista della pace tra le Chiese, lo stesso Giovanni aveva deciso di accettare le decisioni prese dal concilio contro Nestorio, e cioè la deposizione e l’anatema sulle sue “dottrine blasfeme”; il Patriarca di Antiochia sottolineava inoltre che queste decisioni venivano prese in nome della retta fede sempre professata nella sua Chiesa e sempre annunciata al popolo. La lettera si chiudeva poi con il riconoscimento di Massimiano, divenuto Patriarca di Costantinopoli dopo la deposizione di Nestorio, e con la dichiarazione di comunione con tutti i vescovi dell’orbe che avevano e conservavano la fede ortodossa.

Non si hanno notizie dirette di interventi di Roma nelle trattative; solamente una lettera di Acacio di Berea lascia intendere che Sisto III aveva scritto a lui e più volte a Cirillo. Nell’aprile 433 il Patriarca di Alessandria annunciò ai suoi fedeli l’avvenuta conciliazione e, nello stesso periodo, Una lettera di Sisto III diretta a Giovanni in data 15 settembre 433 appare essere in risposta non a quella appena esaminata, ma a un’altra, inviata personalmente al Papa, esaltandone il ruolo. Il contesto di riferimento è comunque il medesimo: Sisto, nella sua risposta, si compiaceva con Giovanni per la scelta di comunione e alludeva ad ammonimenti da lui rivolti a Nestorio e rimasti inefficaci. Il tono era di rimpianto e, quanto all’ex Patriarca di Costantinopoli, veniva espresso un giudizio di superbia, paragonata a quella di Lucifero. Inoltre, il Papa dichiarava che quello non doveva più essere, in ogni caso, il tempo in cui ripensare alle battaglie, giacché ora ci si poteva rallegrare della vittoria, e usava espressioni di letizia per la ritrovata concordia. Elogiava poi Giovanni per il fatto che si era collocato dalla parte del successore di Pietro, e inseriva un brano sul primato della Sede di Roma: «S. Pietro ha tramandato ai suoi successori ciò che aveva ricevuto. Chi vorrà separarsi dalla dottrina di colui che, primo tra gli apostoli, fu istruito dallo stesso Maestro? Egli non ricevette l’insegnamento per sentito dire o per aver letto un discorso: dalla stessa fonte ha ricevuto la dottrina. Non si è dovuto porre domande su quanto è scritto e su autori di scritti; la fede che ha ricevuto è assoluta e semplice e priva di controversie. Su di essa occorre meditare sempre ed in essa dobbiamo perseverare, per meritare di essere, nel senso più autentico della parola, seguaci degli apostoli, tra coloro il cui fondamento sono gli apostoli. Il peso non è piccolo, né poco il lavoro che ci incombe, affinché la Chiesa sia senza macchia e senza ruga». Nella lettera Sisto III inseriva poi un paragrafo di lode agli imperatori, che si sono sempre dimostrati vigili e solleciti per le cose di Dio; e concludeva con l’esortazione a mantenersi nell’unica retta fede dei padri, guardandosi dalle novità, e con un particolare elogio al Patriarca di Costantinopoli, Massimiano, per la sua mitezza e per il senso di comunione con la Sede romana.

Nella stessa data, Sisto III scrisse anche a Cirillo in risposta alla lettera con cui il Patriarca di Alessandria comunicava da parte sua il raggiungimento dell’accordo, e che il Papa aveva fatto leggere davanti al Sinodo riunito nella data di anniversario dell’inizio del suo pontificato. Il Pontefice indicava i motivi di gioia per la ritrovata unione, specificandoli nel fatto che fossero state confermate le decisioni del Concilio, la cui dignità veniva ribadita alludendo alle riunioni degli apostoli per trattare di questioni inerenti alla fede. In questo contesto, Sisto III, per indicare i vescovi, usava la stesse espressioni utilizzate nella lettera a Giovanni sopra esposta, e poneva di nuovo in evidenza la centralità della Sede petrina. Cirillo veniva considerato il principale artefice della pace, e la lettera si concludeva con un appello ad accogliere tutti coloro che avessero voluto recuperare la comunione.

Dopo queste lettere Sisto III non ebbe più occasione di intervenire nella Chiesa orientale, sebbene l’atto di unione tra Antiochia e Alessandria fosse ben lungi dal riscuotere unanimi consensi. Cirillo, tuttavia, riuscì – pur con qualche fatica – a dominare gli oppositori sia dentro che fuori dell’Egitto. Giovanni, invece, incontrò la resistenza di parecchi vescovi, ai quali, l’aver sottoscritto Cirillo la formula proposta da Antiochia, non sembrava un convincente e reale mutamento riguardo alla questione dottrinale di fondo legata alla formula alessandrina, “unica è la natura del Verbo di Dio fatto uomo”, che gli Antiocheni non vedevano messa esplicitamente in discussione. Giovanni di Antiochia, scrivendo a Teodoreto, cercò in tutti i modi di mostrare che Cirillo aveva realmente sfumato le sue posizioni e la sua terminologia cristologica; ma Teodoreto, pur rallegrandosi per il riconoscimento delle due nature, si preoccupava di tutti i vescovi che erano stati colpiti dai provvedimenti antinestoriani e che, temeva, sarebbero stati abbandonati alla loro sorte. Le stesse motivazioni manifestava Andrea di Samosata. Una posizione assai più dura la espresse Alessandro di Gerapoli, coetaneo di Acacio di Berea, e che insieme a lui aveva fatto parte di quel Sinodo, in cui circa centocinquanta vescovi avevano sottoscritto le epistole decretali con cui Papa Damaso condannava sia l’apollinarismo che l’adozionismo. Agli occhi dell’anziano vescovo, l’accordo con Cirillo riproponeva i pericoli di un serpeggiante apollinarismo; perciò egli scrisse a tutti i colleghi e, duramente, a Teodoreto accusandolo di tradire la causa di Nestorio. Ancora più oltre si spinse Euterio di Tiana, che scrisse un lungo documento contro Cirillo, dimostrando che questi con le sue aggiunte aveva snaturato la confessione di fede propostagli da Antiochia. Si vennero così a formare due schieramenti: da una parte il gruppo guidato da Teodoreto, che riconobbe come accettabili i termini dell’accordo relativamente alla terminologia cristologica, ma che si rifiutava categoricamente di sottoscrivere la deposizione e la condanna di Nestorio; dall’altra parte il gruppo che si riconosceva in Alessandro di Gerapoli, i cui componenti dichiararono nullo l’accordo firmato da Giovanni di Antiochia e di non accogliere nella loro comunione Cirillo finché non avesse sconfessato tutto il suo operato contro Nestorio.

A Costantinopoli intanto, nell’aprile 434, era morto il Patriarca Massimiano, e i seguaci di Nestorio, ancora numerosi nella capitale, si erano messi in agitazione chiedendone il ritorno. L’Imperatore radunò in tutta fretta il cosiddetto Sinodo permanente (la riunione dei vescovi presenti nella capitale e perciò facilmente convocabili) e fece eleggere Proclo di Cizico[11]. Da Antiochia, intanto, Giovanni – che era stato messo in grave difficoltà, giacché un suo stesso diacono, un certo Massimo, aveva avviato una campagna denigratoria contro di lui – richiedeva l’intervento dell’Imperatore per piegare i vescovi recalcitranti all’accordo da lui stipulato con Cirillo. Una testimonianza significativa della drammatica situazione personale in cui si dibattevano personaggi sinceramente convinti delle proprie posizioni è la lettera che Elladio di Tarso ed Euterio di Tiana indirizzarono a Sisto III, dove il Papa è invocato come novello Mosè inviato da Dio a liberare il mondo dal nuovo Farone e dall’errore egiziano, cioè da Cirillo e dai suoi anatematismi. Non sappiamo se questa lettera fosse ricevuta a Roma; certo è che non è conservata alcuna risposta da parte di Sisto III.

Nel 435 Teodoreto si incontrò con Giovanni di Antiochia a Costantinopoli, dove il nuovo Patriarca Proclo stava dando prova di rinnovato impegno nella sua posizione di mediazione, dimostrata già negli anni precedenti, con la ricerca di termini cristologici accettabili dalle diverse sensibilità. Teodoreto ebbe l’assicurazione che non sarebbe gli stato richiesto di sottoscrivere la condanna di Nestorio, e così pure a nessun altro vescovo che avesse voluto rientrare nella comunione ecclesiale. Così Teodoreto aderì all’atto di unione e, alle stesse condizioni, lo seguirono numerosi altri vescovi. I recalcitranti – circa una quindicina, tra cui Euterio di Tiana – subirono le misure d’autorità messe in atto dall’Imperatore, attraverso il questore imperiale Domiziano, e vennero deposti ed esiliati. Il vecchio Alessandro di Gerapoli fu ancora più duramente colpito con la condanna “ad metalla” nelle miniere d’Egitto.

Per ben due volte, Sisto III intervenne con determinazione per difendere la giurisdizione della Sede romana sulle Chiese dell’Illirico, tramite il vicariato apostolico della Sede di Tessalonica. La prima occorrenza si determinò nel 435 dalla presa di posizione del Vescovo Perigene, che Papa Bonifacio – come s’è detto – aveva destinato da Patrasso a Corinto, il quale reclamava il diritto di esercitare funzioni di metropolita, consacrando i vescovi dell’Acaia. Tale pretesa urtava contro gli interessi di Anastasio, Vescovo di Tessalonica, il quale convocò un Sinodo e inviò a Roma uno dei vescovi della Macedonia, Luca, per chiedere sostegno. Sisto III scrisse a Perigene una lettera in cui, con il tono di un monito, faceva appello all’umiltà del destinatario, ma anche all’obbedienza in nome della tradizione dei suoi predecessori che avevano sempre riconosciuto la dignità di vicariato apostolico alla Sede di Tessalonica nei confronti delle Chiese dell’Illirico. Da questa lettera si sa anche dei rapporti intercorsi tra Sisto III e Anastasio, e del fatto che il Papa aveva inviato sul posto una legazione composta dal presbitero Marzianino e dal diacono Lolliano. Il Pontefice scrisse inoltre al Sinodo di Tessalonica per confermare l’autorità di Anastasio, e da tale lettera si comprende anche che la questione era in via di soluzione e che il vescovo di Corinto aveva accettato l’indirizzo di Roma.

Ma il problema dell’influsso sull’Illirico, teso tra Oriente e Occidente, emerse nuovamente nel 437, giacché alcuni esponenti del clero di quella penisola si erano rivolti a Costantinopoli, venendone accolti, per questioni che li riguardavano. Quando il Papa ne fu informato, reagì prontamente scrivendo due lettere: la prima ai vescovi, paterna e riguardosa, ma insieme ferma nell’esigere l’osservanza delle disposizioni prese dalla Sede romana e la dovuta soggezione verso il Vescovo di Tessalonica; la seconda, vero capolavoro di diplomazia, al Patriarca Proclo, nella quale senza fare nomi lasciava indovinare che era al corrente di ogni cosa, ricordava la documentata tradizione della giurisdizione del Vescovo di Tessalonica e gli ingiungeva, in forma cortese, di non accogliere alcun membro del clero dell’Illirico che non fosse munito di lettera di presentazione di quel fratello nell’episcopato. Infine, per rendere il tutto più “digeribile”, usava al Patriarca la deferenza di informarlo di aver confermato, in appello, i giudizio da lui reso in favore del Vescovo Iddua di Smirne. Proclo comprese assai bene il discorso pontificio e in tutti gli anni successivi del suo episcopato non si intromise più negli affari che riguardavano le Chiese dell’Illirico.

Non si hanno altre notizie sugli ultimi anni del pontificato di Sisto III, tranne una voce, fornita da Prospero d’Aquitania, che riferisce che il deposto Vescovo Giuliano di Eclano[12] si rivolse al Papa, nel 439, sperando di poter essere reintegrato nella sua sede, vicino ad Avellino; ma, per un intervento dell’arcidiacono Leone, il futuro papa Leone I, non trovò soddisfazione.

Nel suo insieme, Sisto III ebbe un pontificato tranquillo e coronato da vari successi, come il ripetuto riconoscimento dell’autorità del Vescovo di Roma e del suo primato e, soprattutto, la fine della crisi aperta nella Chiesa orientale da Nestorio ed aggravata dalla scissione verificatasi ad Efeso, alla cui soluzione egli contribuì in modo sostanziale con la linea di moderazione che adottò nei confronti degli Antiocheni.

Sotto il pontificato di Sisto si accrebbe notevolmente il patrimonio architettonico e decorativo cristiano nella città di Roma. Fu portata a compimento, dopo il 432, la basilica di S. Sabina sull’Aventino, eretta intorno al 425; fu costruita la basilica di S. Lorenzo ed innalzata con il denaro della famiglia imperiale d’Oriente la basilica degli Apostoli. Inoltre, il Liber pontificalis elenca dettagliatamente le ricche ornamentazioni volute da Sisto o da lui patrocinate presso l’Imperatore Valentiniano III, e le dotazioni di preziosi ornamenti e vasi sacri offerte alle basiliche di S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Paolo, S. Lorenzo sulla via Tiburtina. In particolare, nella basilica vaticana Sisto III sostituisce il rivestimento originale in marmo della confessio, così definita per la prima volta, con lamine d’argento.

Ma i monumenti maggiormente legati al nome di Sisto III sono il battistero lateranense e la basilica di S. Maria Maggiore, sull’Esquilino. Il primo ricevette sotto di lui il suo degno compimento con la trasformazione del primitivo edificio costantiniano circolare nell’attuale di forma ottagonale. Attorno alla vasca battesimale fece innalzare otto colonne di porfido portanti un’architrave con la famosa iscrizione Gens sacranda polis hic semine nascitur almo […] che tratta degli effetti santificanti del battesimo, della grazia, del peccato originale e personale, della Chiesa e delle sue speranze di vita eterna, capi tutti che fanno del battistero un monumento votivo del trionfo riportato dalla dottrina cristiana sugli attacchi di Pelagio. La seconda, a ricordo della vittoria dogmatica riportata nel Concilio di Efeso, Sisto III – come viene esplicitamente accennato nel Liber pontificalis – la fece innalzare sul posto della basilica liberiana (ma i dati archeologici a disposizione non hanno permesso di chiarire la relazione tra i due edifici) e la volle arricchire con meravigliose rappresentazioni musive ispirate alla storia della Madonna e all’infanzia di Gesù.

La costruzione della basilica di S. Maria Maggiore da parte di Sisto III è particolarmente significativa in quanto è l’unica delle chiese patriarcali che fu fondata e dotata di arredi e di beni per iniziativa del vescovo di Roma senza alcuna ingerenza imperiale; essa è inoltre la prima basilica non cimiteriale titolata ad un santo. Dal punto di vista funzionale, la chiesa era probabilmente destinata, come la cattedrale lateranense, alla liturgia episcopale; in questo modo si tentava di spostare il polo di aggregazione religiosa, dalla zona periferica del Laterano, verso il centro della città.

Sisto III morì il 19 agosto 440 e fu sepolto nella catacomba di Ciriaca presso la tomba del martire Lorenzo, sulla via Tiburtina.

*** NOTE ***

[1] Il padre si chiamava anch’egli Sisto.

[2] Acacio di Berea divenne Vescovo di Berea di Siria nel 378 e morì centenario o più nel 433 circa. Combatté Apollinare di Laodicea, partecipò al concilio di Costantinopoli (381), sostenne Flaviano di Antiochia, per cui papa Damaso lo escluse dalla comunione; vi fu riammesso da Innocenzo I, che gl’impose di ristabilire nei dittici il nome di S. Giovanni Crisostomo, da A. fieramente avversato nel sinodo della Quercia (403).

[3] S. Simeone lo Stilita detto il Vecchio(Sis, 390 ca. – Qal’at Sim’an, 2 settembre 459). Fu un monaco asceta cristiano, che visse per 37 anni seduto in cima ad una colonna, nella zona nord di quella che è oggi la Siria.

[4] Alessandro, Vescovo di Gerapoli in Siria, fu uno dei più violenti oppositori di S. Cirillo. Il suo Synodicon adversum tragoediam Irenaei contiene 27 lettere contro l’unine del 433 tra Giovanni d’Antiochia e Cirillo. Per la sua inconciliabile avversione all’unione, nel 435 fu deposto e condannato ai lavori forzati nelle miniere d’Egitto.

[5] Andrea, Vescovo di Samosata (m. prima del 449); scrisse, a nome degli Orientali, una confutazione degli Anatematismi di S. Cirillo, conservata in gran parte nella replica di questo, che lo accusò di nestorianesimo; si hanno di lui anche dieci lettere. Dopo qualche riluttanza, aderì all’accordo (433) tra Cirillo e gli Orientali.

[6] Elladio, Vescovo di Tarso, e Imerio, Vescovo di Nicomedia, furono poi tra i vescovi che si ritirarono dallo scisma e rimasero in possesso delle loro sedi.

[7] Euterio, Vescovo di Tiana, osteggiò la pacificazione del 433 ed elevò le più dure accuse contro Giovanni di Antiochia. A causa di ciò fu deposto ed esiliato a Scitopoli in Palestina, da cui, in seguito, dovette fuggire a Tiro.

[8] Teodoreto (Antiochia di Siria, 393 circa – 457 circa), fu Vescovo di Cirro (423 ca), in Siria, e l’ultimo grande teologo cristiano della scuola di Antiochia. Fu amico di Nestorio, pur non condividendo gli esiti delle sue dottrine, e avversario del Patriarca Cirillo di Alessandria. Alla riconciliazione del 433, non rientrò nell’accordo perché non era disposto a condannare Nestorio come chiedeva Cirillo e da quel momento e fino al Concilio di Calcedonia del 451 rimase il campione letterario del partito antiocheno.

[9] Paolo, Vescovo di Emesa (dopo il 410) nella Fenicia libanese, era nel numero dei vescovi che si recarono ad Efeso con Giovanni di Antiochia. Dopo il ristabilimento della comunione ecclesiastica tra Antiochia ed Alessandria, fu più volte invitato da S. Cirillo per predicare al popolo.

[10] La lettera di Giovanni si riferisce infatti agli eventi del concilio di Efeso con l’espressione “anno elapso”, e il concilio si era svolto tra il giugno e l’agosto del 431.

[11] Proclo, fu consacrato nel 426 Vescovo di Cizico nell’Ellesponto, sede mai raggiunta a causa delle contestazioni dei fedeli. Continuò perciò a vivere a Costantinopoli, dove si guadagnò la fama di valente predicatore. In una famosa omelia, pronunciata tra il 428 e il 429, attribuì alla Vergine il titolo di Madre di Dio, provocando la violenta reazione di Nestorio. Questa omelia fu poi recepita tra gli atti del Concilio di Efeso del 431. Tre anni dopo, nel 434, fu proclamato Patriarca di Costantinopoli e rimase a guida di questa Chiesa fino alla morte, avvenuta nel 446. Proclo usò tutta la sua bravura ed il suo stile fluido, elegante e fecondo di idee nell’applicare alla Vergine figure e simboli biblici e nell’indirizzarle bellissimi elogi, frutto non tanto della retorica ma piuttosto della profonda ammirazione per la sua grandezza e come atto di amore e devozione per la sua persona.

[12] Al tempo di papa Zosimo, Giuliano si era rifiutato, insieme ad altri diciotto vescovi italiani, di sottoscrivere la Lettera Tractoria, che condannava Pelagio e Celestio, ed aveva scritto due lettere al Papa con richiesta di spiegazioni a riguardo; di conseguenza era stato deposto ed esiliato. Nella vicenda di Giuliano era ampiamente intervenuto Agostino.


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