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Marco M. G. Michelini | 7 Febbraio 2017

Il 29 settembre del 440 venne eletto Papa all’unanimità, dal clero e dal popolo, il diacono Leone, nativo di Volterra, il cui regno occupò interamente il terzo ventennio del V secolo. Con lui il papato raggiunge il suo culmine ed egli merita appieno quell’appellativo di «Grange» che la Chiesa gli ha tributato, non già a motivo della piccolezza del suo tempo e dei suoi contemporanei, ma piuttosto per via della sua spiccata personalità, delle sue doti straordinarie, della piena coscienza che egli ebbe del primato della sua Sede e della chiara affermazione dello stesso, della prodigiosa operosità che egli dispiegò da una parte nella salvaguardia della disciplina ecclesiastica esposta all’introduzione di molteplici abusi nelle province occidentali soggette ai barbari, dall’altra nell’intransigente difesa dell’ortodossia minacciata in Oriente da una nuova eresia cristologica: il monofisismo.

Va segnalato del resto, che già come semplice diacono Leone si era fatto notare in questa duplice veste sia sotto Celestino che sotto Sisto III: fu infatti il diacono Leone che incaricò Giovanni Cassiano di confutare l’errore nestoriano ancor prima del concilio di Efeso; è a Leone che scrisse San Cirillo di Alessandria per metterlo in guardia contro le ambiziose mire di Giovenale di Gerusalemme1; fu Leone che, come s’ già detto, suggerì a Sisto III un atteggiamento di diffidenza nei confronti di Giuliano di Eclano; e fu infine a Leone che nel 440 la corte di Ravenna affidò la delicata missione di recarsi in Gallia per riportare la pace tra il generale Ezio2 ed il prefetto del pretorio Albino3. E proprio mentre si trovava in Gallia, sebbene assente, venne eletto al soglio pontificio.

Dimostrandosi subito energico e tenace, in tutta la sua politica e nelle sue dichiarazioni ufficiali – specialmente nei discorsi tenuti nell’anniversario della sua elezione – si ispirò alla sua convinzione che la suprema e universale autorità della Chiesa, conferita originariamente da Gesù a Pietro, fosse stata trasmessa a tutti i vescovi di Roma in quanto successori dell’Apostolo. Il Papa perciò assumeva le responsabilità, la piena autorità e tutti i privilegi di S. Pietro: così come lui aveva ricevuto dal Signore un potere maggiore rispetto agli altri Apostoli, così il Papa aveva un potere maggiore di tutti gli altri vescovi. Tale dottrina non era nuova; ma a Leone va riconosciuto il merito di averla saputa esprimere, oltre che in uno stile brillante, con formule equilibrate ed armoniose, che rivelano un capo ed un uomo che ha il senso del governo.

Leone affermò validamente la propria autorità su tutto l’Occidente. I suoi sermoni, che accompagnano tutto l’anno liturgico, rivelano come egli fosse un pastore solerte nel guidare e istruire, nel predicare la parola di Dio, nel promuovere la vita cristiana dei fedeli, nell’assolvere tutte quelle funzioni di ordine assistenziale, amministrativo e giudiziario, che ne V secolo si erano andate accumulando nelle mani dei vescovi. Vigilò, più frequentemente che non i suoi predecessori, sui vescovi dell’Italia centrale e meridionale e delle tre grandi isole che appartenevano alla metropoli romana, ma anche su quelli di Milano, Aquileia, Ravenna ed altre sedi settentrionali, insistendo sulla necessità di uniformare gli usi, correggendo gli abusi e componendo i disaccordi.

Lo stesso impegno e la stessa solerzia egli dispiegò nella difesa della fede da infiltrazioni eretiche e da pratiche superstiziose di origine pagana. I primi a far le spese della sua energica azione furono i manichei che, accresciuti di numero grazie all’arrivo di parecchi adepti dall’Africa, formavano una vera e propria setta segreta e si annidavano persino tra i ranghi dei fedeli. Su costoro, con l’intervento di parecchi vescovi e senatori, iniziò una regolare inchiesta, che si concluse con l’arresto dei dirigenti della setta. Ottenne inoltre dall’Imperatore Valentiniano III che contro di essi fosse riportata in vigore l’antica legislazione penale che prevedeva punizioni severissime.

Analogamente si comportò contro il risorgere dell’eresia priscilliana nella Spagna, dominata dai Visigoti e dagli Svevi. Nella sua lettera del 21 luglio 447, con la quale rispondeva alla richiesta di aiuto del vescovo Turribio di Astorga, Leone I condanna, riassumendoli in quindici articoli, gli errori priscilliani e prescrive di radunare un concilio generale dei vescovi delle province Terraconese, Cartaginese, Lusitana e Galiziana, o quanto meno un concilio provinciale della Galizia. Non potendosi tuttavia svolgere i concili, venne compilato un formulario della fede cattolica, che venne fatto sottoscrivere a tutti i vescovi.

Nelle province dell’Impero occidentale interessate dallo stanziamento dei barbari, i quali non solo limitavano l’autorità imperiale, ma intralciavano anche l’operato della Chiesa, Leone I intervenne per ovviare alle difficoltà e limitare le irregolarità e gli abusi. In Gallia, ciò che restava sotto l’autorità imperiale faceva capo al prefetto delle Gallie residente ad Arles; la riva sinistra del Reno era occupata dai Burgundi fin dal 413 e l’Aquitania marittima dai Visigoti. Ciò aveva favorito il rinascere delle ambizioni del vescovo di Arles, Ilario4, che – guidato da uno zelo eccessivo – scavalcava i diritti degli altri metropoliti, presiedendo concili e nominando vescovi anche al di fuori della propria diocesi. La nomina di un successore ad un vescovo malato e la deposizione per supposte irregolarità del vescovo di Besançon, determinarono l’intervento di Leone, che confinò Ilario nella sua diocesi ed ottenne da Valentiniano III un rescritto che convalidava la giurisdizione del Papa su tutte le province occidentali. Inotre per impedire il predominio di un patriarcato sugli altri divise poi equamente i vescovati della Gallia tra Arles e Vienne.

Nell’Illirico orientale Leone I conservò lo speciale regime voluto da Innocenzo I, e che i suoi successori avevano mantenuto. Egli rinnovò, infatti, ad Anastasio di Tessalonica la delega a suo vicario, determinandone accuratamente i poteri e raccomandandogli di farne uso con moderazione e carità, e di armonizzarli sempre con i diritti riconosciuti dai canoni ai metropoliti e ai Concili. E allorché Anastasio incorse nell’errore di far pesare eccessivamente la propria autorità, mancando di riguardo ai vescovi, Leone lo riprese severamente, rammentandogli di essere stato da lui chiamato «in partem sollecitudinis, non in plenitudinem potestatis»5.

Il dominio dei Vandali in Africa, iniziato nel 430, si interruppe col trattato del 442 che restituiva all’amministrazione romana le due Mauritanie e parte della Numidia6. In quegli anni Leone I si dedicò attivamente a rimediare ad alcuni inconvenienti verificatisi soprattutto nelle ordinazioni episcopali7 e in quei casi speciali costituiti da vescovi che, dopo aver abbracciato lo scisma donatista o novaziano, erano ritornati con il loro gregge all’unità. In tutti questi casi Leone agì sulla base delle informazioni fattegli pervenire dal suo legato: riaffermò i principi e le regole canoniche, ma mostrò anche moderazione e comprensioni nei casi più delicati. I vescovi africani, per parte loro, accettarono le soluzioni papali senza rimostranze, dimostrando così di avere rinunciato al loro spirito autonomistico in materia disciplinare e di riconoscere l’autorità del Papa in tutta la sua interezza.

Tuttavia, lo scoglio maggiore che Leone I dovette affrontare nel suo pontificato fu l’eresia monofisita di Eutiche (378-454). Costui era l’Archimandrita di un grande monastero nei pressi di Costantinopoli, ammirato per la sua pietà, e che dagli inizi degli anni ’40 godeva di un importante ruolo alla corte dell’Imperatore d’Oriente. Era stato un acerrimo oppositore di Nestorio e seguace di S. Cirillo, del quale ripeteva con enfasi alcune formule, pretendendo di esserne l’unico ed autentico interprete. Ma nel suo fervore antieretico egli le disviava a tal punto da fare loro assumere un senso apertamente monofisita. Il nucleo centrale del ragionamento di Eutiche era l’unità di natura in Gesù Cristo, già propugnata – con abbiamo visto – dal Patriarca di Alessandria, ma egli radicalizzava ulteriormente la natura divinità del Cristo fino a darle un ruolo talmente predominante sulla natura umana, tanto da sostenere che dopo l’unione di Dio con la natura umana prevalse la natura divina: una posizione, per certi aspetti, opposta a quella di Ario. Questa eresia, comunque, non avrebbe avuto grande risonanza al di fuori degli ambienti monastici, se Eutiche non avesse goduto dell’appoggio di due potenti personaggi: l’eunuco Crisafio, potentissimo nella corte d’Oriente già nel 441, e l’ambizioso patriarca di Alessandria Dioscoro, successore di S. Cirillo, che voleva con ogni mezzo ristabilire la preminenza delle sede alessandrina su tutte le sedi episcopali d’Oriente. Forte di tali appoggi, Eutiche cominciò la sua opera epuratrice nella Chiesa orientale, facendo deporre i chierici sospetti di nestorianesimo e provocando denunzie contro i vescovi più eminenti del patriarcato di Antiochia.

Naturalmente, contro Eutiche ed il suo comportamento non tardarono a sorgere reazioni: i vescovi di Antiochia lo accusarono davanti all’Imperatore Teodosio II di rinnovare l’eresia di Apollinare; Teodoreto di Ciro scrisse l’Eranistes, nel quale accusava il monofisismo di mendicare errori dalle eresie precedenti; Eusebio di Dorileo8 mostrò allo stesso Eutiche il veleno delle sue idee. A questo punto il Patriarca di Costantinopoli, Flaviano9, dietro formale denunzia di Eusebio di Dorileo, fece convocare un Sinodo nel quale Eutiche confermò tutte le sue idee che vennero giudicate dai vescovi assolutamente eretiche: Eutiche fu deposto dall’ordine sacerdotale, dalla carica di archimandrita e scomunicato. Il monaco di appellò contro la sentenza e scrisse a Papa Leone e a S. Pier Crisologo10, protestando la propria ortodossia. Il Papa, nelle sua prudenza, gli rispose con tono paterno, lodando lo zelo di Eutiche e aggiungendo che avrebbe chiarito il suo punto di vista quando fosse stato meglio informato su tutto. Successivamente giunse da Flaviano una lettera contenente una circostanziata relazione degli errori del monaco e degli atti del Sinodo di Costantinopoli. Leone I, avendo ora a disposizione tutti gli strumenti per giudicare, dichiarò senza indugio erronea la dottrina di Eutiche e giusta la sentenza del Sinodo. Prima ancora però che potesse spedire la sua sentenza, Crisafio – per riabilitare Eutiche – aveva convinto Teodosio II a convocare un Concilio generale che si celebrò ad Efeso nel 449 sotto la presidenza di Dioscoro di Alessandria. Leone I, per quanto fosse stato invitato, seguendo ormai una tradizione secolare dei suoi predecessori, non ansò ed inviò tre legati: il vescovo Giulio di Pozzuoli, il prete romano Renato e il diacono Ilaro. Costoro recavano varie lettere: all’Imperatore, all’assemblea, ai monaci di Costantinopoli e al Patriarca Flaviano; quest’ultima, importantissima, il famoso Tomus S. Leonis, nella quale esponeva la dottrina dell’Incarnazione e della doppia natura del Cristo.

Nonostante le richieste dei legati, l’epistola non fu letta al Concilio al momento della sua apertura; la corte imperiale e soprattutto Dioscoro riuscì ad influenzare la maggioranza dei vescovi e a manovrare le fasi del Concilio; i legati pontifici furono trattati in maniera ostile e minacciati; vi furono tumulti, episodi di violenza con intervento della polizia; Flaviano, che aveva protestato, fu malmenato e ferito: con i suoi riuscì a nascondersi e ad inviare un appello al Papa. Il Concilio continuò a porte chiuse; i vescovi rimasti, volenti o nolenti, assolsero Eutiche e condannarono tutti gli avversari del monofisismo: Eusebio di Dorileo, Teodoreto di Ciro e lo stesso Patriarca Flaviano, che morì dopo tre giorni.

Quando Leone I fu informato dal diacono Ilaro degli esiti del Concilio11, si mosse subito per rimediare a questa ferita inferta alla retta fede e alle ingiustizie perpetrate contro tutti i vescovi ortodossi. Protestò energicamente presso Teodosio II, scrisse alla principessa Pulcheria, al clero e al popolo di Costantinopoli, condannando l’operato di Efeso e sollecitando la convocazione di un nuovo concilio: per tutta risposta l’Imperatore d’Oriente sanzionò con una legge le decisioni efesine.

Nel febbraio del 450 la famiglia imperiale d’Occidente si recò da Ravenna a Roma per un pellegrinaggio alle tombe dei Ss. Pietro e Paolo. Leone I, dopo avere pronunciato un’omelia alla loro presenza, supplicò Valentiniano III di intervenire presso Teodosio affinché favorisse la convocazione di un nuovo conclio ecumenico i Italia. La famiglia imperiale d’Occidente scrisse perciò quattro lettere a Teodosio e a Pulcheria, ma dall’Oriente giunsero solo vaghe promesse.

A capovolgere questa situazione di stallo, fu l’improvvisa morte di Teodosio II per una caduta da cavallo, avvenuta il 28 luglio del 450. Il trono era pericolosamente vacante e la principessa Pulcheria, fedele ortodossa, decise di sposare il sessantenne senatore Marciano12 e lo associò al trono. La coppia imperiale abrogò le leggi di Teodosio, mandò in esilio Eutiche e si mostrò favorevole a convocare un nuovo Concilio. Leone, in verità, non voleva più un Concilio, poiché riteneva che si sarebbe potuto rimediare a tutte le ingiustizie con l’invio dei legati. Ma avendolo Marciano convocato, dietro suggerimento del nuovo Patriarca di Costantinopoli, Anatolio13, per il 1° settembre 451 a Nicea, il Papa ratificò quella precipitata convocazione, esigendo però che il vescovo Pascassino di Lilibeo (uno dei cinque legati la lui inviati) ne avesse la presidenza effettiva. Quanto alla sede, va notato che l’Italia – inizialmente proposta da Leone – non era certamente un territorio adatto ad una assemblea ecumenica, giacché Attila14, con i sui Unni, premeva contro i confini, e nonostante Ezio lo sbaragliasse in Gallia, rimaneva pur sempre un sostanziale pericolo. Così, dopo un’attesa a Nicea, della quale approfittò Dioscoro d’Alessandria per scomunicare Papa Leone, il più importante Concilio dell’antichità si aprì l’8 ottobre 451 a Calcedonia, presenti oltre 500 vescovi ed alcuni alti funzionari di Stato come rappresentanti dell’Imperatore e tutori dell’ordine pubblico. Oltre al riconoscimento dei torti subiti dai vescovi ingiustamente condannati e alla deposizione di Dioscoro, a Calcedonia vennero prese due decisioni fondamentali: l’accettazione solenne della lettera di Leone a Flaviano15 e la promulgazione della formula di fede calcedonese16, voluta dall’Imperatore e accettata dai legati. A ciò si aggiunsero alcuni canoni disciplinari, tra cui il 28°, importantissimo per la sua portata e per l’opposizione che incontrò nel Papa.

Composto in assenza dei legati romani, questo canone fondava legalmente il Patriarcato di Costantinopoli con la ben definita area giurisdizionale dei tre esarcati – Tracia, Asia e Ponto – ed assegnava a tale sede il secondo posto dopo quella romana, non limitandone più i privilegi alla sfera onorifica della precedenza17, ma eguagliandoli in tutto a quelli reali ed effettivi della Sede romana, per la ragione che la “nuova Roma” aveva assunto in tutto il rango politico di quella antica. Motivazione grave e che, presa alla lettera, impostava la negazione del primato di diritto divino del vescovo di Roma, riducendolo a semplice istituzione di diritto ecclesiastico. Non è storicamente provato che l’intenzione degli autori fosse questa, anche perché – durante tutto il Concilio – i Padri avevano ripetutamente riconosciuto la superiorità della Sede romana e del suo vescovo e – dopo il Concilio – avevano sottoposto alla sua approvazione le decisioni prese. Ma i posteri, che non potevano certo conoscere i sentimenti degli autori di quel canone, di esso si valsero giungendo persino a negare il primato romano di diritto divino.

Tornando a Leone I, con una enciclica del 21 marzo 453 egli confermò la grande opera del Concilio contro i monofisiti, ma si rifiutò con forza di approvare il canone rimasto in sospeso per la solenne protesta dei legati, non solo perché lo giudicasse lesivo del proprio primato, quanto perché vide in esso una usurpazione – da parte del Patriarca di Costantinopoli – dei diritti riconosciuti dal Concilio di Nicea ai Patriarchi di Alessandria e di Antiochia, nonché un tentativo di instaurare un nuovo ordine gerarchico delle sedi vescovili, basato non più sopra la fondazione apostolica, ma sull’importanza politica delle città. Contro questo canone Leone scisse, tra il 452 e il 454, ben quattordici lettere, finché non credette di avere indotto Anatolio a rinunziare ad esso.

Mentre si svolgevano tutti questi eventi, il pericolo rappresentato da Attila per l’Italia era divenuto una terribile realtà. Il re degli Unni, infatti, nel 452 era nuovamente disceso in Italia con il suo esercito, composto per lo più da truppe germaniche, per reclamare le sue nozze con Onoria18. Avanzò su Trieste ma venne fermato ad Aquileia, città fortificata di grande importanza strategica, il cui possesso permetteva di controllare gran parte dell’Italia Settentrionale. Attila la cinse d’assedio per tre mesi, la conquistò e la rase al suolo. Da qui scese verso sud, conquistò Padova e la saccheggiò. Poi si mosse verso ovest: Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo furono espugnate e distrutte, i cittadini massacrati sul posto e i pochi sopravvissuti fatti schiavi. Successivamente Attila conquistò Milano, mentre Valentiniano III fuggiva da Ravenna rifugiandosi a Roma. Nulla sembrava ormai poter fermare la sua avanzata verso la Città Eterna: Ezio era rimasto sul campo ma mancava della potenza necessaria per ingaggiare battaglia, avendo a disposizione solo pochi uomini. Nonostante tutto, Attila si fermò per qualche tempo a nord del Po, forse a causa della sua superstizione19 o forse a causa delle funeste profezie dei suoi sciamani. A Roma, intanto, fu presa la risoluzione di mandare al re degli Unni una ambasceria: ne fanno parte il vecchio console Avieno, il prefetto Tricezio e Papa Leone. Attila li riceve presso Peschiera, sul Mincio. Molte sono le leggende create attorno a questo evento: che Leone abbia fermato Attila mostrandogli i crocefisso; che i Ss. Pietro e Paolo si materializzassero a fianco del Papa; che Attila fosse rimasto impressionato dalla presenza di un vecchio che, accanto al pontefice, roteava una spada. Quello che è certo è che i due parlarono a lungo, lontano da tutti; e alla fine il re degli Unni si ritirò.

Alcuni storici hanno imputato il comportamento di Attila alla fame e alle malattie che accompagnavano la sua invasione e che potrebbero aver ridotto il suo esercito allo stremo; altri alle truppe che Marciano aveva inviato oltre il Danubio; altri ancora ad una ingente quantità d’oro che l’ambasceria avrebbe portato con sé come tributo20. Se quest’ultima ipotesi fosse vera, Leone avrebbe risolto la cosa ricorrendo allo stesso metodo che sarà poi usato da S. Gregorio Magno con Agilulfo21, cioè pagando un forte tributo in oro, sacrificando le “casse” di San Pietro.

La Chiesa orientale, comunque, anche dopo il Concilio di Calcedonia continuò ad essere per leone una spina nel fianco, tanto che – per rendere più tempestivi i propri interventi in loco – istituì a Costantinopoli un legazione permanente, che può essere considerata il primo esempio delle future nunziature apostoliche. Il primo titolare22 di questa legazione fu il vescovo Giuliano di Coo, che con diligenza e fedeltà assolse alla sua missione, informando minutamente il Papa di tutti gli affari ecclesiastici orientali. Naturalmente, l’aspetto più preoccupate era il monofisismo poiché, nonostante le condanne e gli esili comminati a Calcedonia, eresia continuava ad avere numerosi partigiani in Egitto e negli ambienti monastici della Siria e della Palestina. Anzi, furono proprio i monaci palestinesi che per primi si ribellarono alle decisioni del Concilio di Calcedonia e, dopo aver marciato in armi su Gerusalemme, insediarono il loro capo Teodosio nella sede episcopale; l’Imperatore Marciano fu pertanto costretto ad inviare l’esercito per ristabilire l’ordine. Altri moti di ribellione contro il Concilio ed il nuovo Patriarca Proterio scoppiarono ad Alessandria, ma anche qui il severo intervento dell’Imperatore permise di ristabilire la pace.

La situazione Italiana, nel contempo era nuovamente precipitata a causa di due omicidi: quello di Ezio23 e quello di Valentiniano III24, orditi entrambi dal senatore Petronio Massimo25, che in tal modo raggiunse il trono imperiale. Nel tentativo di legittimare e consolidare il proprio potere forzò l’Imperatrice Licinia Eudossia26 a sposarlo, appena pochi giorni dopo l’assassinio, minacciandola di morte. Questa, come già Onoria aveva fatto con Attila, chiese aiuto a Genserico27 re dei Vandali, il quale non riconobbe Petronio Massimo come Imperatore e salpò per l’Italia con le sue truppe, sbarcando in maggio a Porto. Quando questa notizia si sparse, Roma cadde nel panico. Erano famose le crudeltà dei Vandali, che avevano ridotto l’Africa a terra di scorribande selvagge; persino chiese e monasteri erano stati distrutti, vescovi uccisi o catturati. Petronio Massimo, incapace di organizzare una difesa, congedò la corte, concedendo a tutti di cercare scampo nella fuga. Come raccontano gli storici, fu ucciso mentre anch’egli cercava di fuggire, fatto a pezzi e i suoi resti gettati nel Tevere, mentre Genserico avanzava sulla via Portuense.

Ancora una volta Leone I cercò di salvare Roma, ma il “miracolo” non si ripeté: il Papa ottenne solo la promessa che le tre grandi basiliche di S. Pietro, S. Paolo e del Laterano non sarebbero state toccate. Per quindici giorni Roma fu sottoposta al saccheggio: la spoliazione fu sistematicamente condotta in tutte le zone della città. Le numerose ricchezze degli antichi templi pagani ancora esistenti e del palazzo imperiale vennero portate sulle navi ormeggiate lungo il Tevere. Genserico trascinò con sé in Africa migliaia di romani come schiavi e, tra essi, anche Licinia Eudossia, ch’era stata la causa di tanta rovina.

Nel 457, alla morte dell’Imperatore Marciano, avvenuta il 26 di gennaio, i monofisiti organizzarono ad Alessandria un nuovo tumulto popolare, uccisero Proterio ed elevarono al patriarcato Timoteo Aeluro, che con una rapidità sorprendente occupò tutte le sedi episcopali con uomini del suo partito ed anatematizzò il Concilio di Calcedonia, Leone I e i Patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia. Tutto questo fu favorito dall’inesperienza e dall’indecisione del nuovo Imperatore d’Oriente Leone I il Trace28, ma l’abile ed energico intervento del Papa, coadiuvato dal suo legato Giuliano e dal Patriarca Anatolio, che vedeva nell’insurrezione alessandria una minaccia alle prerogative della propria sede, fece sì che l’Imperatore restasse sordo alle richieste dei monofisiti di convocare un nuovo Concilio per rivedere le sentenze di Calcedonia. Tuttavia, essendo Leone il Trace uomo tendenzialmente portato al compromesso, prima di prendere una decisione definitiva, egli volle fare una specie di Concilio per lettera, per cui, sul finire del 457, interpellò tutti i vescovi fuori dall’Egitto per sapere:

  1. se si dovesse mantenere il Concilio di Calcedonia;
  2. se si dovesse riconoscere Timoteo Aeluro come vescovo di Alessandria;

aggiungendo che tutti nella città erano per Aeluro e rigettavano il Concilio.

In virtù anche di una lettera circolare inviata a tutti i metropoliti, i vescovi si espressero unanimemente per il mantenimento delle decisioni prese a Calcedonia e per la deposizione dell’Aeluro. Ma questo non bastò a convincere l’Imperatore, che circa un anno più tardi (autunno del 458) volle esplorare direttamente le disposizioni dell’Aeluro, inviandogli una nuova lettera dogmatica, che il papa gli aveva inviato tramite i legati. Timoteo si mostrò caparbiamente ostinato nel condannare le decisioni prese a Calcedonia e nel rigettare la lettera papale; per cui, dopo altri due anni di attesa, l’Imperatore Leone si decise finalmente ad intervenire, esiliando l’Aeluro nella Paflagonia29 prima ed in Crimea poi, e facendo eleggere, secondo le richieste del Papa, un Patriarca ortodosso per la Chiesa Alessandrina, che fu il monaco Timoteo Salofaciolo. Con un ultimo gruppo di cinque lettere, del giugno e agosto 460, Papa Leone volle confermare l’Imperatore nella buona condotta intrapresa ed incoraggiare i Patriarchi di Costantinopoli e di Alessandria, i chierici alessandrini e tutti i vescovi egiziani a proseguire nel lavoro di riconquistare all’ortodossia tutti gli eretici.

Il 10 novembre 461 S. Leone si spense, lasciando la Chiesa unita e pacificata. I suoi resti furono dapprima deposti nell’atrio di S. Pietro; poi, nel 688, venne trasferiti da Sergio I all’interno della basilica e finalmente, dopo un’altra traslazione, furono poste sotto l’altare della cappella eretta in suo onore nella nuova basilica.

 

*** NOTE ***

 

1 Giovenale di Gerusalemme nel concilio di Calcedonia del 451 chiese ed ottenne che Gerusalemme fosse separata da Antiochia e dichiarata patriarcato indipendente. In questo modo l’intera provincia di Syria Palaestina, con 58 sedi vescovili, venne a far parte del nuovo patriarcato, che, nell’ordine delle gerarchie, occupava il quinto posto, dopo Roma, Costantinopoli, Alessandria ed Antiochia.

2 Flavio Ezio (390 ca. – 454 d. C.), militare romano di origini illiriche, più volte console e ministro sotto Valentiniano III, è famoso per la sua vittoria su Attila presso i Campi Catalaunici in Gallia (451), dove i Romani inflissero una pesante sconfitta all’esercito degli Unni, contribuendo a ritardare la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Fu ucciso da Valentiniano III.

3 Flavio Cecina Decio Aginazio Albino, uomo politico dell’Impero romano, ebbe una carriera di rilievo: fu prefetto del pretorio delle Gallie nel 440, d’Italia tra il 443 e il 448, console nel 444 e patricius dal 446.

4 Ilario di Arles (401 – Arles, 5 maggio 449) fu monaco presso l’Abbazia di Lerino e agiografo di Sant’Onorato d’Arles al quale successe come vescovo ad Arles; è venerato come santo dalla Chiesa cattolica.

5 Epist. 14. Tale lettera è importante perché mostra in che modo Leone I concepisse la gerarchia ecclesiastica.

6 Nel 455, però, ritorneranno sotto il dominio dei Vandali.

7 Ordinazioni fatte in mezzo a tumulti, individui divenuti vescovi senza passare per i gradi inferiori, oppure individui sposati due volte o con vedove.

8 Eusebio di Dorileo fu dapprima retore a Costantinopoli, poi vescovo di Dorileo in Asia Minore. Avversario di Nestorio e della sua dottrina, strinse amicizia con Eutiche, del quale tuttavia divenne deciso avversario allorché il monaco formulò la sua eresia.

9 Flaviano (? – Lidia, 17 febbraio 449), Patriarca di Costantinopoli, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica.

10 San Pietro Crisologo (Imola, fine IV secolo – Imola, 2 dicembre 450) fu vescovo di Ravenna e famoso per le sue omelie (ad esse si deve appunto il soprannome di Crisologo, coè parola d’oro). Nel 1729, Benedetto XIII l’ha proclamato Dottore della Chiesa.

11 Il Papa bollò il Concilio di Efeso col nome, poi rimastogli, di latrocinium ephesinum.

12 Flavio Marciano, nacque in Tracia o in Illiria nel 392 d.c., figlio di un soldato, ed egli stesso seguì le orme paterne arruolandosi in un’unità militare nei pressi di Filippopoli. A ventinove anni, nel 421, prese parte alle guerre contro i Persiani, durante le quali cadde ammalato. Successivamente divenne ufficiale cadetto, protector domesticus. Quindi servì per quindici anni come comandante di un reggimento agli ordini di Ardaburio Il Vecchio e del figlio Aspar, i due più eminenti generali di Teodosio II. Negli anni 431-434, fu ufficiale con Aspar in Africa contro i Vandali e venne catturato in un combattimento nei pressi di Hippo Regius; portato dinnanzi al re vandalo Genserico, venne rilasciato dietro giuramento che non avrebbe mai più preso le armi contro i Vandali. Attraverso l’influenza di questi generali divenne capitano delle guardie, e venne successivamente elevato al rango di tribuno e senatore. Divenuto Imperatore ripudiò gli imbarazzanti pagamenti di tributi ad Attila, che questi si era abituato a ricevere da Teodosio II in cambio dell’astensione dall’attaccare l’impero d’Oriente; quindi mise a morte l’impopolare Crisafio, il ministro di Teodosio che era stato fautore di questa scelta diplomatico-economica. In politica interna, riformò le finanze, tenne sotto controllo la stravaganza e ripopolò i distretti devastati. Respinse gli attacchi a Siria ed Egitto (452) e schiacciò le turbolenze sulla frontiera armena (456). In politica estera non si occupò degli affari dell’Impero Romano d’Occidente, lasciandolo al suo destino. Egli non fece nulla per aiutare l’Occidente durante le campagne di Attila e, mantenendo la sua promessa, ignorò le depredazioni di Genserico, anche quando i Vandali saccheggiarono Roma. Prudentemente, Marciano evitò anche di venire ai ferri corti con i Persiani, e quando gli Armeni opposero resistenza alle pressioni provenienti dalla Persia per costringerli ad abbandonare la fede cristiana, egli assicurò il re persiano Yezdegard II che non doveva temere azioni ostili da parte dei soldati romani. Morì nel 457 e fu sepolto accanto alla moglie Pulcheria, morta nel 453.

13 Anatolio (Alessandria d’Egitto, ? – Costantinopoli, 3 luglio 458) fu apocrisiarius (cioè, “ambasciatore”) di Cirillo e di Dioscoro di Alessandria alla corte dell’Imperatore Teodosio II e, successivamente, patriarca di Costantinopoli dal 449, in seguito all’illegale deposizione di Flaviano, fino alla sua morte. E’ venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica che da quella ortodossa.

14 Attila (Caucaso, 406 – Pannonia, 16 marzo 453), fu l’ultimo e più potente sovrano degli Unni. Dal 434 fino alla sua morte, governò un vastissimo impero che si estendeva dall’Europa centrale al Mar Caspio, e dal Danubio al Mar Baltico, unificando – per la prima ed ultima volta nella storia – la maggior parte dei popoli barbarici dell’Eurasia settentrionale. Durante il suo regno divenne il più irriducibile nemico dell’Impero Romano d’Occidente e d’Oriente: invase due volte i Balcani, cinse d’assedio Costantinopoli, marciò attraverso la Francia spingendosi fino ad Aurelianum, scacciò da Ravenna l’Imperatore Valentiniano III (452). Soprannominato flagellum Dei per la sua ferocia, si diceva che dove fosse passato non sarebbe più cresciuta l’erba. Gli studi storici moderni vedono in lui più un predone che un distruttore sconsiderato. Si racconta che fosse superstizioso, facesse affidamento sulle profezie e si facesse influenzare nelle decisioni in campo militare da indovini e sciamani. Alcune leggende, mai sostenute da elementi concreti, raccontano di sue pratiche cannibalistiche e che avesse mangiato i propri figli Erp ed Eitil, che sua moglie gli servì dopo averli arrostiti nel miele. Alcuni raccontano che avrebbe avuto numerose mogli e più di cento figli in confusione con i sovrani mongoli Gengis Khan e Kublai Khan. Nonostante il suo impero alla sua morte si sia disgregato, è diventato una figura leggendaria nella storia europea, che lo ricorda in modo diverso a seconda della zona: guerriero feroce, avido e crudele nell’area al tempo sotto Roma; condottiero impavido e coraggioso nei paesi che facevano parte del suo impero. In alcuni racconti viene celebrato come un grande e nobile re ed è il personaggio principale di diverse saghe dell’Europa settentrionale ed orientale.

15 Ad essa il commento unanime dell’assemblea fu: «Per bocca di leone ha parlato Pietro».

16 Ricollegata al Credo di Nicea.

17 Come nel 2° canone del Concilio di Costantinopoli del 381.

18 Sorella maggiore dell’Imperatore Valentiniano III, fu obbligata dal fratello a non sposarsi, ma nel 449 ebbe una relazione con il custode delle sue proprietà, Eugenio; scoperti, Eugenio fu mandato a morte e Onoria in esilio a Costantinopoli. Obbligata a fidanzarsi con il senatore Flavio Basso Ercolano, Onoria nella primavera del 450 aveva inviato al re degli Unni una richiesta d’aiuto, insieme al proprio anello, per sottrarsi a questo matrimonio: la sua non era una proposta di matrimonio, ma Attila interpretò il messaggio in questo senso, ed accettò pretendendo in dote metà dell’Impero d’Occidente. Quando Valentiniano scoprì l’intrigo, fu solo l’intervento della madre Galla Placidia a convincerlo a mandare in esilio Onoria piuttosto che ucciderla e ad inviare un messaggio ad Attila, in cui disconosceva assolutamente la legittimità della presunta proposta matrimoniale. Attila, per nulla persuaso, inviò un’ambasciata a Ravenna per affermare che Onoria non aveva alcuna colpa, che la proposta era valida dal punto di vista legale e che sarebbe venuto per esigere ciò che era un suo diritto.

19 Alcuni sostengono che fosse impressionato dalla sorte toccata ad Alarico dopo il Sacco di Roma.

20 Quest’ultima ipotesi sembrerebbe la più probabile: sarebbe stato, infatti, perfettamente in accordo con la linea politica generalmente seguita da Attila, chiedere un riscatto per evitare le incursioni unne nei territori minacciati.

21 Papa Gregorio I detto Magno (540-604) aveva intrapreso delle trattative di pace con i longobardi, ma l’esarca di Ravenna, Romano, tentò di ostacolarlo in ogni modo. Ciò suscitò le ire del re longobardo Agilulfo (?-616), che nel 593 pose l’assedio alla Città Eterna. Gregorio si trovò così a dover provvedere alla difesa di Roma, e per evitare ulteriori sofferenze e lutti alla città si vide costretto a convincere Agilulfo a levare l’assedio pagando di tasca propria 5000 libbre d’oro e offrendo al re longobardo l’assicurazione del pagamento annuo di un’ingente tributo. In questo modo Gregorio si sostituiva all’autorità civile cittadina e al senato, che di fatto non avevano ormai più alcun ruolo politico riconosciuto; e se al re longobardo interessava solo il denaro, il popolo romano riconobbe in Gregorio l’unico salvatore.

22 Cioè l’Apocrisario (corrispondente).

23 Il 21 settembre 454, Ezio stava facendo rapporto a Valentiniano nel palazzo imperiale riguardo all’esazione delle tasse, quando l’Imperatore si alzò improvvisamente dal trono accusando il generale di tradimento e prima che Ezio potesse difendersi dalle accuse, Valentiniano sguainò la propria spada e si gettò sul generale, uccidendolo.

24 Il senatore Petronio Massimo chiese a Valentiniano di poter prendere il posto di Ezio come magister militum, ma l’Imperatore rifiutò. Massimo fu così irritato dal rifiuto di Valentiniano che decise di farlo assassinare. Come complici scelse Optila e Thraustila, due coraggiosi sciti che avevano combattuto sotto il comando di Ezio e che erano stati successivamente assegnati alla scorta di Valentiniano: Massimo li convinse che Valentiniano era il solo responsabile della morte di Ezio, e che i due soldati avrebbero dovuto e potuto vendicare il loro antico comandante; promise loro, inoltre, una ricompensa per il tradimento dell’Imperatore. Il 16 marzo 455, Valentiniano, che si trovava a Roma, si recò al Campo Marzio con alcune guardie del corpo, tra le quali Optila e Thraustila e dagli uomini di questi. Appena l’Imperatore scese da cavallo per esercitarsi con l’arco, Optila gli si avvicinò con i propri uomini e lo colpì alla tempia; Valentiniano, sorpreso, si volse a guardare il proprio aggressore, e Optila gli inferse il colpo mortale, mentre l’esercito rimase schierato, immobile ad assistere.

25 Petronio Massimo (? 396 ca. – Roma, 31 maggio 455), discendente di una famiglia senatoriale, iniziò la sua carriera attorno al 411, ricoprendo l’ufficio di pretore. Attorno al 415 ricoprì l’ufficio tribunus et notarius, seguito poi, tra il 416 e il 419, da quello di comes sacrarum largitionum, ovvero di ministro delle finanze imperiali. Fu poi due volte praefectus urbi, ossia governatore della città di Roma. Sempre tra il 421 e il 439 fu Prefetto del pretorio d’Italia, carica che ricoprì nuovamente tra il 439 e il 441. Fu due volte console d’Occidente: nel 433, come console posterior e Teodosio II come collega, mentre esercitò il secondo consolato nel 443, come console prior e con Flavio Paterio come collega. Nel dicembre 445 Massimo era già stato nominato patricius e aveva raggiunto l’apice della sua carriera, in quanto era certamente il più prestigioso dei senatori. Lo storico Giovanni di Antiochia racconta che Valentiniano aveva vinto al gioco una somma che Massimo non aveva, e ottenne come pegno l’anello di questi, che utilizzò per convocare a corte la moglie di Massimo; la donna si recò a corte credendo di essere stata chiamata dal marito, in quanto un inserviente dell’Imperatore le aveva mostrato l’anello di Massimo, ma si ritrovò a cena con Valentiniano, che la sedusse. Tornata a casa e incontrando Massimo, lo accusò di averla tradita e consegnata all’Imperatore, e così Massimo venne a sapere dell’inganno, decidendo di vendicarsi. Massimo, però, era cosciente che non avrebbe potuto nuocere a Valentiniano se prima non si fosse sbarazzato di Ezio. Si accordò allora con un eunuco di Valentiniano, il primicerius sacri cubiculi Eraclio, per fare uccidere il generale, poi con due soldati di Ezio, Optila e Thraustila, per far uccidere l’Imperatore.

26 Licinia Eudossia (Costantinopoli, 422 – Costantinopoli, 493 ca.) era, figlia dell’Imperatore d’Oriente Teodosio II e moglie dell’Imperatore d’Occidente Valentiniano III, dal quale ebbe due figlie: Eudocia e Placidia.

27 Nel 442 Valentiniano III aveva stipulato con Genserico un trattato di pace nel quale al re vandalo venivano riconosciute l’indipendenza e la sovranità sulle terre e sui popoli da lui conquistati. Pare anche che in seguito si fosse verificata una trattativa per un eventuale matrimonio tra Unerico, figlio di Genserico, e una delle figlie dell’Imperatore. In ogni caso, anche se il progetto non si era concretizzato, i rapporti tra Genserico e l’Imperatore si mantennero buoni.

28 Leone I il Trace (411 ca. – 474) era un militare di umili origini, che ricoprì la carica di tribuno. Divenne Imperatore per volontà del Magister Utriusque Militiae Praesentalis Flavio Ardabur Aspar, che – non potendo aspirare alla corona imperiale in quanto ariano – volle mettere sul trono quello che lui credeva un fantoccio. In realtà Leone si liberò di lui facendolo uccidere. Leone Combatté invano in Africa contro i Vandali ed accentuò il carattere divino della dignità imperiale, favorendo l’orientalizzazione dell’Impero.

29 La Paflagonia è un’antica regione costiera dell’Anatolia centro-settentrionale, bagnata a nord dal Mar Nero e situata tra la Bitinia ad ovest, il Ponto ad est e la Galazia a sud.


Con questo articolo si conclude la pubblicazione dei singoli capitoli dell’opera «IL PAPATO NELLA STORIA». I capitoli seguenti a questo, e questo stesso, sono tutti già disponibili in formato PDF e possono essere scaricati da qua.

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