La successione di Bonifacio si svolse in tutta tranquillità e senza contrasti, tanto che il 10 settembre 422 veniva consacrato suo successore il diacono Celestino, nativo della Campania, amico si S. Agostino. Egli diede subito dimostrazione del suo carattere energico, debellando l’ancora diffusa minoranza novaziana e incamerandone le chiese, così da costringerla a compiere le proprie celebrazioni in case private.
Nel 426 tornò ad aprirsi il caso di Apiario, che per il persistere nel suo errore venne nuovamente scomunicato. Costui, ancora una volta, ricorse a Roma e Celestino lo rinviò in Africa con l’ordine al Vescovo Aurelio di Cartagine di riabilitarlo. A tale scopo, fece accompagnare Apiario da quello stesso Faustino che – al tempo di Papa Zosimo – con le sue maniere altezzose tanto aveva urtato la Chiesa africana. Aurelio convocò un Concilio generale per procedere all’esame della causa, e in esso Faustino difese Apiario con ardore, appellandosi ai privilegi della Chiesa romana e all’autorità delle decisioni della Sede apostolica. Sennonché Apiario finì per confessare le sue colpe; anche Faustino, allora, dovette abbandonarlo e far rientro a Roma con una lettera degli Africani, che non riferivano solo i delitti di Apiario, ma pregavano il Papa di non accordare facilmente la sua comunioni a scomunicati e a non accogliere ricorsi dall’Africa, giacché così voleva il diritto colà vigente in pieno accordo con i canoni niceni, come pure di non inviare legati o esecutori delle sue sentenze, non essendo ciò ordinato da nessun Concilio. Va comunque notato che la lettera dei Padri Conciliari si spingeva a tale proposito un po’ troppo oltre e rinnegava anche il passato della Chiesa d’Africa. Parecchi Vescovi africani si erano infatti appellati alla Sede apostolica, e S. Agostino stesso ne ricorda alcuni che non avevano sollevato alcuna obiezione da parte dell’episcopato africano. In ogni caso la lettera non produsse effetti e fu ben presto dimenticata, tanto che durante il dominio vandalico furono numerosi gli appelli rivolti a Roma dai vescovi africani.
Celestino ottenne maggiori risultati quando, approfittando di una richiesta di aiuto da parte del Vescovo Felice di Apollonia, intervenne nuovamente nell’Illirico orientale per riaffermare la propria giurisdizione su quei territori, riconfermando al Vescovo Rufo di Tessalonica l’ufficio e i poteri di vicario della Sede apostolica; o quando, venuto a conoscenza di parecchi abusi introdotti nelle Chiese della Gallia Viennese e Narbonese (abusi che riguardavano l’amministrazione della penitenza, la promozione dei chierici e le ordinazioni dei vescovi), ricordò agli episcopati di quelle regioni l’obbligo di rimanere soggetti alla sua vigilanza e censurò i suddetti abusi, compresa l’innovazione di portare un veste diversa da quella degli altri vescovi.
Contemporaneamente, l’Impero d’Occidente attraversava dei momenti piuttosto critici. Rimasto già privo dal settembre 421 del generale Flavio Costanzo[1], marito di Galla Placidia ed associato al trono con il titolo di Augusto, nell’agosto del 423 perdette anche Onorio, Imperatore sicuramente grigio ed incapace, ma per certi versi pur necessario, data la tenera età del suo successore Valentiniano III[2]. Alla morte di Onorio, infatti, non solo vi fu l’usurpazione del primicerius notariorum[3] Giovanni, che riuscì a farsi proclamare Imperatore, mantenedo il potere fino al 425, ma soprattutto si aggravarono le gelosie e le discordie tra i migliori generali che l’Occidente ancora possedeva, i quali, invece di adoperarsi per ridurre a soggezione le popolazioni recentemente immigrate e salvaguardare i confini, disperdevano le loro energie in intrighi e lotte intestine. La conseguenza più devastante di tali lotte fu la conquista dell’Africa da parte dei Vandali[4] e la costituzione di un regno indipendente e ostile a Roma.
In campo dottrinale, Celestino prosegue con decisione l’operato dei suoi predecessori contro il pelagianismo, che proprio all’inizio del suo pontificato approfittò della confusa situazione politica per tentare una reazione in Italia e nella Gallia. Lo stesso Celestio riapparve in Italia per chiedere la revisione della sua condanna. Ma il Papa, con velocità e decisione, rinnovò per tutta la Chiesa la condanna del pelagianismo e dei suoi sostenitori, facendosi ispiratore di quella Costituzione Imperiale[5] (425) che ordinava ai vescovi pelagiani della Gallia, sotto pena della deposizione e dell’esilio, di abiurare i loro errori entro venti giorni nelle mani del Vescovo Patroclo di Arles. Inoltre, su suggerimento del diacono Palladio[6], egli inviò in Britannia – ormai distaccata dall’impero – il Vescovo Germano di Auxerre[7], affinché combattesse il pelagianismo: la prima volta nel 429 fino al 431, la seconda nel 447.
Sempre nel 431, Celestino dovette occuparsi anche del semi‑pelagianismo[8], eresia sorta in Provenza, come reazione ad alcune tesi di S. Agostino sulla grazia, in special modo circa la predestinazione e gli inizi della fede e di ogni opera buona, che sembravano indurre al fatalismo e annientare ogni sforzo personale. Giacché continuavano a persistere, da parte di Giovanni Cassiano[9], Fausto di Riez[10] e Vincenzo di Lerino[11], gli attacchi contro S. Agostino, Prospero d’Aquitania[12] e l’amico Ilario si recarono a Roma per implorare che il Papa ne difendesse la memoria. Celestino scrisse allora ai vescovi della Gallia una lettera, il cui tono è energico, come si conveniva ad un papa impegnato ad affermare, particolarmente nei confronti della Gallia, il suo diritto di primazia. In essa, inoltre, il Papa biasimava la predicazione di taluni presbiteri, ma soprattutto biasimava quei vescovi che la tolleravano, lasciando che i presbiteri svolgessero il compito della predicazione per il quale non avevano una adeguata preparazione teologica; e concludeva infine incitando i vescovi a rimanere fedeli al venerato Vescovo di Ippona. In realtà la lettera concede assai meno di quanto Prospero d’Aquitania ed Ilario avevano sperato di ottenere. Appare, infatti, nell’insieme, che Celestino si preoccupasse più della pace interna delle Chiese di Gallia, del rispetto della disciplina ecclesiastica e delle prerogative dei vescovi, che non della questione sollevata dai due seguaci di Agostino. Il loro ricorso a Roma mirava a sollecitare un’esplicita condanna degli oppositori della dottrina agostiniana sui temi della grazia e della predestinazione, ma Celestino non fa chiaramente comprendere quale dottrina vuole condannare e quale difendere; tanto che lo stesso Prospero, in seguito, nella sua opera contro Giovanni Cassiano[13], si vedrà costretto a difendere il vero senso della lettera. E non è meno sorprendente che il Papa, su una questione che stava arroventando il clima religioso in Provenza, punti il dito solo contro alcuni anonimi presbiteri, e non menzioni i monasteri di S. Vittore e di Lerino, coinvolti nella disputa, nonché le personalità di rilievo che prendevano posizione contro Agostino. Si comprende, insomma, che Celestino era pronto a difendere la memoria del Vescovo di Ippona, ma non lo era altrettanto a tutelare la sua dottrina sui temi della grazia e della predestinazione. Quanto il papa non volle precisare in questa lettera ai vescovi delle Gallie fu aggiunto in appendice, probabilmente più tardi dallo stesso Prospero. Nella tradizione manoscritta, infatti, il testo della lettera è seguito dai cosiddetti Capitula Caelestini, una serie di proposizioni sul tema della grazia a favore della dottrina agostiniana, estrapolate dagli scritti dei predecessori di Celestino o da documenti conciliari. Per quanto il testo non sia autentico – cioè non fu scritto da Celestino – è stato tuttavia ritenuto tale fino a tempi recenti, ed ha avuto un’importanza fondamentale nella storia del dibattito teologico in tema di grazia e libero arbitrio.
Ma la vicenda più rilevante del pontificato di Celestino è l’intervento nella controversi cristologica sollevata nella chiesa orientale da Nestorio[14]. Generalmente si fa consistere l’errore del Vescovo di Costantinopoli nella negazione della divina maternità di Maria, il che è esatto; ma è opportuno precisare che tale negazione è solo un corollario della spiegazione razionale che la scuola teologica antiochena, da cui proveniva Nestorio, dava del mistero dell’Incarnazione. Nella preoccupazione di salvaguardare, contro l’apollinarismo, l’integrità dell’umanità e l’inconfusione delle nature divina e umana nel Cristo, Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia, sui cui scritti si era formato Nestorio, tanto le avevano accentuate che avevano fatto della natura umana presa dal Verbo un soggetto in sé sussistente, una vera persona umana unita alla persona del Verbo in una maniera certo intima, però solo morale e non già reale e sostanziale. E diffatti parlavano dell’uomo Gesù tempio del Verbo, di in abitazione del Verbo nell’uomo Gesù. In Cristo, insomma, vi erano due persone: il Verbo e l’uomo Gesù, ciascuna soggetto di attribuzione delle proprie azioni, onde non si poteva attribuire al Verbo ciò che è proprio dell’umanità, come il nascere, il patire e il morire; e neppure si potevano altresì attribuire all’uomo concreto, se non in un senso improprio ed abusivo, le qualità e gli atti della divinità. Di conseguenza a Maria non si poteva dare con proprietà il titolo di “Madre di Dio” (Θεοτόκος).
Nestorio, chiamato nell’aprile del 428 da Antiochia a reggere la sede patriarcale di Costantinopoli per volontà di Teodosio II, un po’ per il suo carattere forte, un po’ per l’estraneità all’ambiente costantinopolitano, non ebbe una buona accoglienza nella capitale. Le difficoltà si aggravarono quando il prete siro Atanasio e il Vescovo Doroteo di Marcianopoli contestarono in alcune omelie il titolo di “Madre di Dio” che tradizionalmente la pietà popolare attribuiva a Maria. Nestorio, presente a quelle prediche, non solo non biasimò gli oratori, ma li approvò pubblicamente, insistendo col dichiarare che il termine più appropriato, secondo le scritture, era quello di “Madre di Cristo” (Χριστοτόκος). E sebbene egli fosse inizialmente tollerante verso coloro che usavano il termine “Madre di Dio”, presto la controversia si fece assai animata e l’opposizione arrivò al punto che Eusebio di Dorileo[15] lo interruppe durante un discorso, affermando la doppia generazione del figlio di Dio, e affisse un manifesto nel quale, accostando in suoi discorsi a formule attribuite a Paolo di Samosata, lo accusava di rinnovarne gli errori. L’opposizione cercò di organizzarsi e di mettere sotto accusa Nestorio. Questi con l’aiuto dell’Imperatore poté fronteggiare la ribellione dei chierici e dei monaci che lo ritenevano eretico, ma ormai lo scisma era nell’aria ed è probabile, anche se non si dispone di documentazione, che Eusebio abbia inviato estratti dei sermoni di Nestorio a Roma e ad Alessandria, giacché un Sinodo romano ne chiese poco dopo spiegazioni ad Alessandria.
Nestorio decise allora di fare un passo presso la Sede romana, non tanto per chiedere sostegno, quanto per prevenire un’eventuale presa di posizione ostile di Celestino, che sapeva, o supponeva, essere già stato informato dei fatti (si pensa che tra gli informatori del papa a Costantinopoli vi fosse Mario Mercatore[16]). La sua prima lettera al papa si apre sul caso di quattro vescovi occidentali scomunicati e deposti con l’accusa di pelagianismo, i quali si erano rifugiati a Costantinopoli per appellarsi all’Imperatore. Nestorio, la cui decisione di dare ospitalità a questi vescovi suscitava grande irritazione a Roma, chiede informazioni sui vescovi condannati dalla Sede romana per poter decidere il da farsi. Alla richiesta di chiarimenti fa seguire, come una sorta di contropartita, una relazione sulla controversia dottrinale in atto a Costantinopoli, precisamente su quello che egli riteneva essere l’errore cristologico dei suoi avversari, con uno scambio di informazioni e un’implicita proposta di collaborazione alla pari fra i vescovi delle due capitali per risolvere i problemi interni di ciascuno.
Il Papa non rispose a questa lettera, cosicché Nestorio gliene scrisse altre, delle quli due ci sono pervenute. Entrambe ritornavano sull’argomento dell’Incarnazione e della divina maternità e riassumevano abbastanza bene la sua dottrina. Alla seconda, poi, allegò alcuni dei suoi sermoni e copia del carteggio intercorso con Cirillo di Alessandria[17], intervenuto nella disputa. Infatti, le relazioni tra Nestorio e Cirillo, che mai erano state cordiali, si erano fatte più tese poiché il Vescovo di Alessandria, messo al corrente dai suoi emissari della controversia nella capitale e delle vivaci discussioni che essa aveva provocato tra i monaci d’Egitto, si era creduto in dovere di intervenire non solo dedicando all’argomento la sua omelia pasquale del 429, ma inviando anche una lettera ai monaci sul mistero dell’Incarnazione, nella quale affermava che in Gesù Cristo vi è una sola persona, che il Verbo è veramente nato da Maria, ha veramente sofferto ed è morto secondo l’umanità, pur restando impassibile secondo la divinità. Quanto al termine “Madre di Dio” non lo si poteva negare senza rinnegare la dottrina di Nicea.
Tutto questo non piacque a Nestorio, che iniziò a parlare anche in pubblico contro «l’egiziano» e lo fece refutare da uno dei suoi preti, aggiungendo a ciò l’offesa di accogliere le lagnanze di alcuni chierici alessandrini che Cirillo aveva destituito. Cirillo, allora, verso la fine dell’estate del 429, scrisse a Nestorio per spiegargli i motivi della sua lettera ai monaci e per invitarlo a fare una vera ritrattazione delle sue formule dubbie, almeno con l’accettazione del termine “Madre di Dio”. Nestorio rispose con una lettera breve e sprezzante, per cui Cirillo, al principio di febbraio del 430, gli scrisse nuovamente pregandolo di non continuare a turbare la tranquillità dei fedeli con la sua predicazione ed illustrandogli con precisione il modo d’unione delle due nature: «Il Verbo s’è unito ipostaticamente una carne animata da un’anima ragionevole ed è così divenuto uomo in una maniera ineffabile ed incomprensibile […] E sebbene le nature che sono state riunite per formare una vera unità fossero differenti, di due ne è risultato un Cristo e un Figlio. L’unione non ha distrutto la differenza delle nature; ma la divinità e l’umanità unite in una maniera ineffabile non costituiscono che un solo Signore Gesù Cristo e un solo Figlio»[18].
Questa volta Nestorio rispose in maniera più articolata, volendo contrapporre la sua dottrina a quella di Cirillo sull’unione ipostatica, che egli non solo non comprendeva, ma riteneva non avesse alcun fondamento nella tradizione, senza contare che – a suo parere – tendeva a favorire l’apollinarismo. Questo è il momento critico della polemica, poiché comincia a mescolarsi al conflitto dottrinale – peraltro ancora sanabile – il vecchio antagonismo tra le Sedi di Costantinopoli e di Alessandria, quest’ultima gelosa dell’ascesa della prima e decisa a riconquistare quella preminenza nella Chiesa Orientale esercitata nel secolo precedente. Certo sarebbe sbagliato ridurre tutta la controversia nestoriana a questa rivalità tra i due patriarcati; ma non si può neppure negare che, nel seguito degli avvenimenti, essa ispirò parecchi dei passi sbagliati che furono compiuti dall’una e dall’altra parte.
Cirillo, vedendo che le sue lettere non avevano sortito su Nestorio alcun effetto, pensò di coinvolgere nella controversia l’autorità imperiale e all’uopo scrisse tre trattati: per l’Imperatore, per Eudocia[19] e Pulcheria[20], per le due principesse. Teodosio, però, non gradì questo suo intervento, così che Cirillo, nel 430, convenne con i vescovi d’Egitto, adunati a Concilio, di scrivere al Papa. Inviò dunque a Celestino una denuncia dell’eresia nestoriana con relativa documentazione. Il patriarca di Alessandria ricordava il fallimento dei suoi tentativi epistolari di far recedere Nestorio dalle sue posizioni; diceva di aver accantonato l’idea di inviargli una lettera sinodale di scomunica per evitare una rottura definitiva, ma che riteneva vana qualsiasi speranza di un suo ravvedimento. A prova della radicalizzazione della posizione nestoriana Cirillo riferì l’episodio del Vescovo Doroteo di Marcianopoli che, durante una celebrazione liturgica, alla presenza di Nestorio, aveva gridato l’anatema contro i difensori di Maria “Madre di Dio”. Un episodio che a Roma – Cirillo lo sapeva bene – avrebbe suscitato profonda emozione. Nestorio, secondo Cirillo, non era altro che un superbo, che predicava questa dottrina solo contro tutti, contro la tradizione dei Padri, contro la fede professata da tutte le altre Chiese. Un eretico, insomma, che andava fermato. Ma Cirillo, prima di agire, voleva attendere la risposta di Roma, per essere sicuro del suo appoggio. Anzi, invitava Celestino a comunicare il suo giudizio anche ai vescovi della Macedonia e dell’Oriente, di modo che Nestorio fosse completamente isolato.
Ma Cirillo non si affidò solo alla lettera: si preoccupò anche di pubblicizzare nell’ambiente romano la pericolosità dell’eresia nestoriana. A tal scopo, consegnò al diacono Posidonio, latore della missiva, un biglietto con istruzioni, una traccia per una più dettagliata e allarmata relazione orale da fare al papa e ai personaggi influenti della Sede romana.
La lettera di denuncia di Cirillo era corredata da un dossier di testi che dovevano documentare al Papa l’eresia di Nestorio, mentre un fascicolo di documenti era stato mandato a Roma anche da Nestorio. Il dossier allestito da Cirillo era composto di sermoni nestoriani e di testi ortodossi dei “Padri”: il loro confronto dava forma ai capi d’accusa contro Nestorio. Per il loro rilievo e l’importanza della precisione terminologica tali testi furono mandati a Roma in traduzione latina eseguita ad Alessandria per volontà di Cirillo, che intendeva così facilitare la lettura del dossier. Celestino, nella lettera di risposta a Cirillo, confermerà la ricezione degli allegati, una copia dei quali fu consegnata a Giovanni Cassiano, che se ne servì per redigere una relazione sulla dottrina di Nestorio. Un confronto dettagliato fra le citazioni di testi di Nestorio nel De incarnazione Christi di Giovanni Cassiano e quelle nel Conflictus di Arnobio il Giovane[21] dà la possibilità di conoscerne meglio la composizione. Questa raccolta di documenti è importante perché ha influenzato le opinioni di Giovanni Cassiano e di Arnobio, i giudizi di Celestino e di Leone Magno, e più in generale ha orientato l’opinione degli Occidentali su Nestorio.
Il tono allarmato della denuncia del patriarca di Alessandria, le informazioni giunte a Roma da Costantinopoli e il giudizio contenuto nella relazione di Cassiano sui documenti nestoriani convinsero il Papa che Nestorio era veramente un eretico bestemmiatore perché negava la divina maternità di Maria e la divinità di Cristo, e propugnava la dottrina dei due Figli. Celestino, dunque, decise di intervenire e agli inizi di agosto del 430 riunì un Concilio romano, che approvò una sentenza di condanna in cui si sanciva che, se Nestorio non avesse ritrattato per iscritto la sua dottrina entro dieci giorni dalla notifica, sarebbe stato scomunicato e deposto. Per gli adempimenti C. si affidò a Cirillo, al quale diede mandato di agire in sua vece. Al diacono Posidonio in partenza per tornare ad Alessandria il papa affidò il 10 agosto 430 una lettera per Cirillo con la sentenza contro Nestorio, una lettera per il medesimo Nestorio che Cirillo avrebbe dovuto fargli pervenire insieme alla sentenza, e lettere a vari destinatari orientali, vescovi e clero delle sedi più importanti, che vennero così informati delle decisioni della Sede romana.
Celestino si decise anche a rispondere alle due lettere di Nestorio, scusandosi per il ritardo (la prima lettera, come s’è detto, è dell’inizio del 429), dovuto alla difficoltà di reperire un traduttore. Diceva di aver ricevuto con grande gioia buone notizie sul conto di Nestorio al momento della sua elezione alla cattedra di Costantinopoli, e di aver avuto la certezza che egli sarebbe stato degno successore degli illustri suoi predecessori, ma che le speranze iniziali erano state smentite sia dalle lettere e dagli scritti inviati a Roma da Nestorio sia dalle informazioni giunte da Alessandria. Il Papa rinfacciava a Nestorio di avere insegnato molte empietà condannate dalla Chiesa universale e lo dichiarava escluso dalla comunione con la Sede romana e con tutte le altre Chiese, a meno che non avesse dimostrato il proprio ravvedimento al suo avversario, il Patriarca di Alessandria, al quale il Papa aveva delegato il compito di eseguire la sentenza. La lettera affrontava anche il caso dei pelagiani rifugiatisi a Costantinopoli. Anche su questo punto Nestorio era colpevole, per aver dato asilo a persone che erano state scomunicate in Occidente, ben sapendo che i suoi predecessori avevano solidarizzato con Roma sulla questione pelagiana. La lettera insinuava, inoltre, che l’atteggiamento di Nestorio verso costoro non fosse dovuto a mancanza di informazioni, ma facesse parte di una manovra antiromana.
Ciò che più colpisce in questa lettera, dai toni molto aspri, è la personalizzazione della questione nestoriana. Pochi e assai vaghi sono in essa gli accenni alla dottrina cristologica. Il dito risulta continuamente puntato sulla persona di Nestorio e sulla sua funzione di corrotto e di corruttore. Probabilmente Celestino era consapevole della difficoltà che gli Occidentali in genere ed egli stesso avevano di comprendere con precisione concetti e dottrine che la controversia orientale metteva in campo. Ma la ragione principale, che lo tiene lontano dal merito della questione, è quasi sicuramente di principio. Il Vescovo di Roma, in forza del suo primato, interviene nella controversia orientale come sommo custode della fede tradizionale della Chiesa. Non è ammesso discutere di una dottrina che è eredità apostolica, sulla quale il successore di Pietro ha il compito di vigilare. La colpa dell’eretico è precisamente di insegnare una dottrina nuova che sovverte la tradizione. Celestino ripete spesso nelle lettere agli Orientali che Nestorio è un disputator che mette in discussione la fede tradizionale della Chiesa. Per Celestino la fede piena, chiara e intoccabile della tradizione è quella del simbolo apostolico, che a Roma si credeva formula degli apostoli in senso proprio. Questa fides, che il successore di Pietro ha specifico mandato di custodire e che non ammette né aggiunte né omissioni, è stata violata dall’eretico. La detrazione operata da Nestorio riguardava evidentemente le parole del simbolo niceno «natus de spiritu sancto et Maria virgine»: egli infatti rifiutava di ammettere che del Figlio di Dio si possa dire che è nato da Maria. Ma se Cristo, Figlio di Maria, non è il medesimo che è anche Figlio di Dio, come può essere salvatore? C. tocca velocemente la questione cristologica, ma non è l’interesse speculativo per la dottrina che lo muove, bensì sono le conseguenze sul piano soteriologico che lo turbano, trattandosi del fondamento della propria speranza: «agitur ut mihi totius spei meae causa tollatur».
Cirillo lasciò passare molto tempo prima di notificare a Nestorio la sentenza del Papa. Solo nel mese di novembre, dopo aver fatto approvare la procedura da un Concilio, partirono da Alessandria quattro vescovi latori delle lettere pontificie e di una di Cirillo a Nestorio, contenente una mirabile esposizione del mistero dell’Incarnazione, che veniva poi ricapitolata in dodici anatematismi che Nestorio doveva sottoscrivere se voleva restare in comunione con la Chiesa Universale. Anche se nel far ciò Cirillo non aveva oltrepassato il mandato di Celestino, il quale aveva ordinato che Nestorio sottoscrivesse una professione di fede, va tuttavia notato che l’idea di comporre gli anatematismi secondo la più genuina terminologia alessandrina, così ostica ad orecchi antiocheni, era stata parecchio imprudente.
L’iniziativa di Cirillo era però destinata a rimanere senza effetto, poiché Nestorio, precedentemente informato della sentenza del Papa da una lettera di Giovanni d’Antiochia[22] – il quale gli dimostrava la legittimità del titolo “madre di Dio – riuscì a convincere l’Imperatore ad indire un Concilio generale da tenersi ad Efeso nella prossima Pentecoste, al quale furono invitati tutti i metropoliti risiedenti all’interno dei confini dell’impero romano e, fra gli altri, anche papa Celestino. La lettera di convocazione per i metropoliti partì il 19 novembre; per cui, quando il 30 novembre giunsero a Costantinopoli i quattro Vescovi egiziani invianti da Cirillo, Nestorio si rifiutò di accoglierli, nella convinzione che la convocazione del Concilio avesse sospeso l’effetto della sentenza romana. Nestorio Inoltre, sapendo che a Roma soprattutto lo accusavano di negare a Maria il titolo di “Madre di Dio”, Nestorio scrisse a Celestino una terza lettera di tenore più conciliante, con la quale, pur mantenendo una rigida posizione nei confronti di Cirillo, manifestava la sua disponibilità ad accettare il termine di “Madre di Dio”, spiegando che, se egli preferiva usare l’attributo “Madre di Cristo”, era solo per mantenere le distanze da arianesimo e apollinarismo.
A questo punto Cirillo tornò a sondare le intenzioni di Celestino, per comprendere se fosse ancora deciso a perseguire Nestorio. La lettera del Vescovo alessandrino non ci è pervenuta, ma si ha la risposta del Papa, che diplomaticamente esprime plauso per l’intervento dell’Imperatore. Se un anno prima Celestino aveva dato a Cirillo delega incondizionata per eseguire la sentenza contro Nestorio, ora, dopo l’intervento dell’Imperatore e nell’imminenza del Concilio, voleva attendere gli eventi, pur senza rinnegare nulla del giudizio espresso. Il Papa diceva poi che non sarebbe stato personalmente presente al concilio, ma assicurava la sua spirituale partecipazione, sottintendendo l’invio di delegati.
I delegati papali[23] al Concilio di Efeso partirono l’8 maggio 431. Ad essi Celestino affidò una lettera per i vescovi del concilio, un’altra per l’Imperatore Teodosio II e un biglietto di istruzioni per i delegati stessi. La lettera ai vescovi conteneva una lunga esortazione, del genere di quelle contenute nelle precedenti lettere agli Orientali, a difendere la dottrina tramandata dagli apostoli. Di Nestorio non parlava. Solo accennava alla pretesa di sottoporre a giudizio colui che è giudice del mondo. Celestino, cioè, condanna il tentativo di sottoporre all’indagine del ragionamento umano il mistero di Cristo uomo‑Dio. E ciò è quanto la lettera all’Imperatore esprimeva in modo ancora più esplicito. Celestino vedeva nella dottrina di Nestorio un approccio razionalistico alla fede, quasi questa fosse un elaborato del pensiero umano, non un dato della tradizione apostolica. Naturalmente il Papa non trascurava di dire all’Imperatore che la pace della Chiesa era fondamentale per la sicurezza dell’Impero, e che perciò l’eliminazione dell’eresia nestoriana era nell’interesse di entrambe le istituzioni. La lettera è importante perché è il primo documento ufficiale della Sede romana che contiene chiari spunti per una teorizzazione dei rapporti fra papato e Impero, visti, s’intende, dal punto di vista del papa. Celestino non contesta la decisione dell’Imperatore di convocare il concilio, ma non gli riconosce il diritto di intervenire nel merito delle questioni, riguardo alle quali egli deve rispettare il divinum iudicium che si esprime attraverso il pontefice.
Nel biglietto di istruzioni due sono i criteri dettati ai legati: 1) essi avrebbero dovuto prendere subito contatto con Cirillo e concordare con lui la linea di condotta; 2) se vi fosse stata discussione su punti della dottrina, sarebbero dovuti intervenire con la forza dell’autorità della Sede apostolica che essi rappresentavano.
L’apertura del Concilio non poté tenersi come voluto da Teodosio II il giorno di Pentecoste (7 giugno 431), a causa del ritardo di diversi metropoliti. Ma poiché Giovanni d’Antiochia con una quarantina di vescovi orientali ritardava troppo, Cirillo decise di rompere gli indugi e il 22 giugno celebrò la prima seduta, che fu quella decisiva, giacché – data l’assenza di una delle due parti – mancò il contraddittorio, per cui le tesi di Cirillo vennero approvate all’unanimità. Il Concilio fece propria la tesi contenuta nella seconda lettera di Cirillo a Nestorio, in cui il Patriarca alessandrino affermava che Maria è “Madre di Dio”, perché ha dato alla luce non un uomo, ma “Dio come uomo”. Accogliendo la dottrina di Cirillo, il Concilio condannò gli insegnamenti del nestorianesimo e stabilì che Gesù è una sola persona, non due persone distinte, completamente Dio e completamente uomo, con un’anima e un corpo razionali. L’unione di due nature in Cristo si è compiuta in modo perfetto nel seno di Maria, con la precisazione che la divinità del Verbo non ha avuto inizio nel corpo di Maria, ma ha preso da Lei quella natura umana completa che in Lei ha unita a sé.
Il concilio dichiarò inoltre come completo il testo del Credo Niceno del 325 e vietò qualsiasi ulteriore cambiamento (aggiunta o cancellazione) ad esso. Il concilio condannò inoltre il pelagianismo.
Vennero approvati otto canoni:
- Il canone 1 decretava l’anatema su un eretico di nome Celestio.
- I canoni da 2 a 5 decretavano l’anatema sul nestorianesimo.
- Il canone 6 decretava che chi non si atteneva ai canoni di Efeso era scomunicato.
- Il canone 7 decretava che chi non si atteneva ai dettami del Primo Concilio di Nicea riceveva l’anatema.
- Il canone 8: “Lasciate che i diritti di ogni provincia siano preservati puri e inviolati. Nessun tentativo di introdurre qualsiasi forma contraria a queste deve essere di alcuna utilità”. Viene fatta menzione dei Canoni degli Apostoli.
Come è stato scritto, nel Concilio «si sarebbero dovute confrontare e discutere le due tesi in contrapposizione, di Nestorio e di Cirillo, in realtà non ci fu nessuna discussione e non furono rispettate le più elementari garanzie di equità e collegialità. Cirillo presiedette e pilotò il Concilio con grande abilità e non senza intimidazioni e corruzioni. Alle porte della chiesa grande, intitolata a Maria, dove si svolgevano i lavori conciliari, e nella città stazionavano i parabalani, i quali ufficialmente erano infermieri al servizio dei poveri negli ospizi ecclesiastici, ma di fatto costituivano la guardia del vescovo alessandrino ed esercitavano una minaccia costante contro i suoi oppositori. Estromesso il legato imperiale e constatato che Nestorio si rifiutava di presentarsi, il giorno successivo all’apertura, il 22 giugno del 431, Cirillo lesse le proprie tesi e chiamò i vescovi, per appello nominale, a dichiararle consone al Credo di Nicea; lesse le lettere sinodali concordate con Celestino per mostrare che Roma ed Alessandria erano solidali nell’azione contro Nestorio; di quest’ultimo fu letta la seconda e più polemica tra le risposte a Cirillo e alcuni estratti. Alla fine della giornata Nestorio fu condannato e deposto, con un atto sottoscritto da 197 vescovi, per “aver profferito blasfemia contro il Signor nostro Gesù Cristo”. Il giorno dopo gli fu recapitata una notifica nella quale veniva apostrofato “nuovo Giuda”»[24].
Due giorni dopo arrivò Giovanni d’Antiochia con gli altri vescovi orientali che, messi al corrente dei fatti, tennero subito un conciliabolo per affermare l’irregolarità delle decisioni del concilio, deponendo Cirillo e il suo alleato Memnone Vescovo di Efeso, i quali risposero scomunicando Giovanni d’Antiochia e gli altri vescovi suoi seguaci. Tutto ciò generò confusione e sommosse popolari con la partecipazione di gruppi di monaci e l’intervento di funzionari imperiali spesso corrotti dai contendenti. L’imperatore rimase sconcertato alla lettura delle relazioni contrastanti che le varie parti gli inviarono. Pensò così di salvare il Concilio annullando tutto ciò che era stato fatto sino ad allora e proibendo ai vescovi di partire da Efeso prima che fosse stata presa una nuova deliberazione. Ma l’arrivo dei legati del Papa diede a Cirillo l’opportunità di tenere una nuova seduta il 10 luglio, nella quale i legati presentarono al Concilio la lettera del Papa che venne acclamata all’unanimità. Dopo ciò i legati richiesero che gli venissero consegnati gli atti della prima seduta, affinché li potessero esaminare prima di confermarli. Il giorno seguente, alla terza seduta, essi dichiararono di aver constatato che tutto si era svolto secondo i canoni e approvarono la deposizione di Nestorio. Nella quarta e quinta seduta, tenutesi il 16 e 17 luglio, pronunziarono la scomunica di Giovanni d’Antiochia e dei suoi seguaci, senza tuttavia deporli. Dopo di che inviarono una completa relazione al Papa e all’Imperatore.
Quando le cose sembravano avviarsi a buon fine, giunse ad Efeso il messo imperiale, recante le decisioni di Teodosio II: egli approvava la deposizione di Nestorio, Crillo e Memnone, ma riprovava tutto il resto per attenersi solo alla fede definita a Nicea, ordinando infine ai vescovi di fare ritorno alle proprie sedi. Il decreto imperiale era del tutto approssimativo e per ciò stesso insostenibile: non solo non si faceva nessuna distinzione tra le decisioni prese nel Concilio legittimo e quelle prese ne conciliabolo dei vescovi orientali, ma non ci si rendeva conto che condannando i Vescovi di Alessandria e di Efeso per le loro supposte dottrine apollinaristiche, si condannava con loro tutto l’Occidente cristiano.
Se l’operato del Concilio non andò completamente perduto, ciò è sicuramente dovuto all’opera di Cirillo, il quale, dal carcere ove era stato rinchiuso per ordine imperiale, agì prontamente in una triplice direzione:
- incaricò i suoi seguaci di scrivere al Vescovo, al clero e al popolo di Costantinopoli (che sapeva avversi a Nestorio), affinché informassero l’Imperatore sull’esatto svolgimento dei fatti e prendessero le sue difese;
- di nascosto, informò lui stesso dell’accaduto l’abate Dalmazio – venerato da tutti a Costantinopoli e consultato spesso anche dall’Imperatore – il quale, compresa la gravità della sitazione, uscì dal monastero dopo quarantotto anni di reclusione ininterrotta per andare a perorare presso Teodosio II la causa di Cirillo;
- ricorse anche ad un mezzo meno onorevole, cioè quello di distribuire, senza alcuna economia, doni preziosi di ogni genere ai personaggi più influenti della corte.
Tutte queste iniziative, specialmente l’intervento dell’abate Dalmazio, cambiarono la disposizione d’animo dell’Imperatore nei confronti di Cirillo, il quale, però, non si accontentò del recuperato favore imperiale, ma mirò ad un compromesso con gli Orientali, che ora accettavano incondizionatamente il termine “Madre di Dio”, disinteressandosi della sorte di Nestorio. Per giungere a tale accordo l’Imperatore convocò i delegati dei due partiti[25]; ma l’intesa non venne raggiunta soprattutto a causa degli anatemismi di Cirillo, che gli orientali continuavano a ritenere apollinaristici. A questo punto Teodosio II sciolse il Concilio e ordinò ai vescovi di fare ritorno alle loro sedi, fatta eccezione per Cirillo e Memnone dei quali si doveva chiarire prima la posizione. Quando però il rescritto imperiale giunse a Efeso, Cirillo era già partito per Alessandria e Teodosio, per dissimulare la propria sconfitta, scrisse una nuova lettera nella quale concedeva a Memnone di restare ad Efeso e a Cirillo di tornare ad Alessandria, ma insieme protestava che non avrebbe mai condannato quei vescovi d’Oriente che non si erano convinti d’essere in errore.
Il Concilio di Efeso si concluse dunque senza aver conseguito l’bbiettivo per il quale era stato convocato: il ristabilimento della pace religiosa nella Chiesa d’Oriente. Il solo successo era rappresentato dalla condanna di Nestorio, condanna che era già stata pronunciata in precedenza dal Papa e sanzionata poi anche dall’Imperatore con la deposizione[26]: il Patriarca deposto si ritirò dapprima nel suo antico monastero di Eupreprio, poi, nel 435 fu esiliato nell’oasi di El Kharga, presso Tebe, in Egitto, dove morì intorno al 451[27]. L’insuccesso più rilevante, invece, era rappresentato dalla rottura sempre più marcata tra i Patriarchi di Alessandria e di Antiochia, che si erano scomunicati a vicenda. L’Imperatore, però, non aveva riconosciuto queste scomuniche, e a tale prudente atteggiamento non deve essere estranea l’azione moderatrice dei legati papali che si trattennero vario tempo alla corte di Costantinopoli, ottenendo che il prete Massimiano, economo della Chiesa di Costantinopoli, conosciuto ed apprezzato a Roma per avervi dimorato, venisse eletto successore di Nestorio.
Anche il papa si astenne dal condannare gli Orientali, senza prima esaminare meglio la cosa; anzi, espresse la speranza che avrebbero finito per abbandonare Nestorio, di cui credeva condividessero ancora le idee. Ma, nell’insieme, Celestino fu soddisfatto dall’operato del Concilio, come risulta da una serie di lettere di congratulazione per tale esito a Teodosio II, a Massimiano, al clero e al popolo di Costantinopoli, nonché al Concilio medesimo. I veri destinatari di quest’ultima lettera si deve intendere che fossero i nove vescovi delegati dal concilio che avevano provveduto all’elezione, il 25 ottobre 431, del successore di Nestorio, e che subito ne avevano dato informazione al papa. Tra l’altro, la lettera di Celestino contiene le condizioni per la riammissione dei pelagiani che il concilio aveva anche condannato, i quali, secondo il Papa, avevano aderito alla dottrina nestoriana e avevano riposto le loro speranze in un esito del concilio favorevole a Nestorio.
Al pontificato di Celestino si attribuisce l’introduzione della salmodia nella liturgia romana della messa, prima della “missa fidelium”, in aggiunta alle letture tratte dalle epistole di Paolo e dal vangelo: il canto dei salmi era eseguito a cori alternati da tutto il popolo. Veniva così recepito un uso che in Oriente e a Milano, dal tempo di Ambrogio, era ormai una consuetudine.
Nella sfera dell’attività edilizia il Liber pontificalis ricorda che Celestino, «post ignem Geticum» (cioè dopo il Sacco di Alarico del 410), procedette ad una nuova dedicazione della basilica Iulii (S. Maria in Trastevere) che fu anche riccamente dotata di una cospicua suppellettile in argento per il servizio liturgico. Ma l’iniziativa di maggior rilievo fu certamente la costruzione della basilica di S. Sabina con la quale si inaugura la presenza cristiana sul colle Aventino: un’aula a tre navate decorate con un fregio in opus sectile (incrostazione marmorea) nella fascia soprastante le colonne. Una imponente iscrizione musiva di enormi dimensioni (m 13 x 3) fu collocata nella parte interna della parete d’ingresso. La superficie iscritta, costituita da uno sfondo azzurro su cui si stagliano grandi lettere capitali dal modulo perfettamente uniforme, è definita a sinistra e destra dalle allegorie delle due ecclesiae (sotto forma di due donne tunicate e velate), accompagnate dalle relative scritte didascaliche (“eclesia ex circumcisione – eclesia ex / gentibus”), che recano ciascuna un grande codex aperto, apparentemente rivolto alla lettura dei fedeli. L’iscrizione, una delle più solenni e funzionali esemplificazioni dell’uso ideologico e propagandistico dell’epigrafia monumentale di apparato, celebra il primato della Sede romana e della sua storica incarnazione nella persona di Celestino. Ma questi non poté vederne completata la costruzione: morì il 27 luglio 432 e fu sepolto nella basilica di S. Silvestro, sulla via Salaria, al di sopra del cimitero di Priscilla, probabilmente nel mausoleo che – ancora in vita – aveva provveduto a farsi allestire.
***NOTE***
[1] Flavio Costanzo, meglio noto come Costanzo III (in latino: Flavius Constantius; Naisso, 370 ca. – Ravenna, 2 settembre 421), fu Imperatore romano nel 421, assieme al cognato Onorio. Fu un generale vittorioso che conbatté contro gli usurpatori del trono, contro i Visigoti e ristabilì l’autorità romana nelle Gallie e in Ispania. Fu il vero detentore del potere per la maggior parte degli anni che vanno 410 alla sua morte.
[2] Flavio Placido Valentiniano, meglio noto come Valentiniano III (Ravenna, 2 luglio 419 – Roma, 16 marzo 455), fu Imperatore Romano d’Occidente dal 425 alla sua morte. Figlio di Costanzo III e di Galla Placidia, Non avendo figli lo zio Onorio, fin dalla nascita fu immediatamente un forte candidato alla successione, come indicato dall’attenta scelta dei nomi, che lo legavano sia alla casata di Teodosio che alla dinastia valentiniana. Valentiniano III fu il simbolo dell’unità dell’Impero, la figura attorno alla quale si coagula la lealtà dei sudditi; in realtà, però, il potere fu esercitato da Flavio Ezio, il magister militum (comandante in capo dell’esercito), al quale va ascritta la politica che tenne unito l’Impero malgrado le forze centrifughe che lo sconquassavano.
[3] Il temine latino di primicerius, ellenizzazione di prim(m)ikērios (πριμ(μ)ικήριος), nel tardo Impero Romano ed in quello Bizantino stava ad indicare il capo di un dipartimento amministrativo. Etimologicamente il termine deriva da primus in cera, intesa come in tabula cerata, e quindi indicava il primo nome della lista di una classe di funzionari. In particolare il primicerius notariorum, era il capo del personale di quella che oggi viene chiamata la Segreteria di Stato.
[4] I Vandali, comandati dal loro re Genserico, attraversarono lo stretto di Gibilterra nel 429, sottomettendo la Mauretania, ottenendo l’appoggio di Berberi e Donatisti, ostili al governo romano. Galla Placidia implorò l’aiuto dell’Imperatore d’Oriente, che inviò in suo soccorso un potente esercito. La forza dei due imperi si unì sotto il comando del genrale Bonifacio; questi marciò contro i Vandali ma venne sconfitto e ciò decise il destino dell’Africa, tanto che la città di Ippona venne evacuata. L’ambizioso Genserico firmò con l’Impero l’11 febbraio 435 la tregua di Trigezio, che stabiliva che i Romani avrebbero riconosciuto ai Vandali il possesso della Mauritania e di parte della Numidia; in cambio i Vandali avrebbero pagato un tributo annuale all’Impero d’Occidente e avrebbero consegnato in ostaggio ai Romani il figlio di Genserico, Unnerico. Inoltre i Vandali sarebbero diventati foederati. Questa moderazione sembra essere dovuta all’instabilità del suo regno: il trono era minacciato dalle rivendicazioni dei suoi nipoti, i figli di Gonderico, che ambivano al potere, mentre vi furono numerose sedizioni dei Mori e dei Germani, dei Donatisti e dei cattolici. Il 9 ottobre 439 Cartagine venne conquistata dai Vandali, cinquecentottantacinque anni dopo la distruzione della città e dello stato per opera dello Scipione minore. Dopo aver conquistato l’Africa, i Vandali costruirono una flotta e saccheggiarono le coste della Sicilia e dell’Italia. Teodosio II, Imperatore d’Oriente, inviò una flotta in soccorso dell’Impero d’Occidente, allarmando Genserico che decise di aprire nuovamente le trattative. L’invio della flotta nel tentativo di recuperare Cartagine fu però vanificato dall’invasione dei Balcani da parte degli Unni di Attila, che costrinse Teodosio II a richiamare la flotta nei Balcani, non lasciando all’Impero occidentale alcun’altra scelta che negoziare una pace sfavorevole con Genserico. Il trattato di pace del 442 tra l’Impero e i Vandali prevedeva l’assegnazione ai Vandali di Byzacena, Proconsolare e parte della Numidia, in cambio della restituzione ai Romani delle Mauritanie e del resto della Numidia, province però danneggiate da anni di occupazione vandala e che quindi non potevano più fornire un grande gettito fiscale. Basti pensare che Valentiniano III fu costretto a concedere alla Numidia cinque anni di esenzione fiscale per 13.000 unità di terreno coltivabile, mentre, a causa delle devastazioni dei Vandali, Numidia e Mauritania Sitifense si erano impoverite talmente tanto che lo stato fu costretto, secondo almeno un editto fiscale del 21 giugno del 445, a ridurre le tasse a 1/8 del gettito fiscale preesistente all’invasione. La crisi economica dovuta alla perdita o alla devastazione di così tante province costrinse gli Imperatori a ridurre i benefici fiscali che favorivano i possessori terrieri ed evidentemente anche a ridurre i ranghi di un esercito già debole: ciò è testimoniato da una legge in cui lo stato giustificò l’introduzione di una nuova tassa per il fatto che si trovava a corto di soldi per il mantenimento dell’esercito a causa del calo di gettito fiscale dovuto alle perdite territoriali o alle devastazioni belliche. Secondo le stime di alcuni storici, la perdita delle imposte che versavano le province devastate o occupate dai Vandali avrebbe provocato il licenziamento di almeno 40.000 fanti o di 20.000 cavalieri.
[5] Le Costituzioni Imperiali o constitutio principis, nel diritto romano, sono le decisioni, con valore pari a quello della legge, adottate dall’Imperatore nell’esercizio delle sue funzioni.
[6] S. Palladio (408 – Fordoun, tra il 457 e il 461) Apostolo degli Scoti, era un diacono di Roma o di Auxerre. Consacrato Vescovo nel 431 da Papa Celestino, fu inviato – prima ancora di S. Patrizio, nelle isole inglesi, per predicare ai pagani e contrastare l’eresia di Pelagio. Iniziò a predicare in Irlanda, ma fu bandito dal re del Leinster ed allora si stabilì nel territorio dell’attuale Scozia. È ricordato per la sua fermezza e dedizione nella predicazione. Tanto era il suo zelo nel predicare da rendere la Chiesa cattolica forte anche in terre lontane da Roma. La città dove morì, Fordoun, si trova ad appena 15 km da Aberdeen. Il suo corpo fu conservato con grande devozione dalla gente di Fordoun fino al 1409, data in cui l’arcivescovo di Aberdeen traslò il corpo del santo nella propria città in un sarcofago rifinito con oro e diamanti.
[7] S. Germano d’Auxerre (Auxerre, 378 circa – Ravenna, 31 luglio 448). Nacque in una famiglia di ricchi proprietari terrieri, figlio di Rustico e Germanilla. Studiò le arti liberali e si laureò in diritto a Roma. Rientrato in patria, divenne governatore della provincia lionese cui apparteneva Auxerre. Fu vescovo di Auxerre dal 418 al 448 dopo il Vescovo S. Amatore, il quale secondo la leggenda lo avrebbe designato contro la sua volontà. Accettò la carica spogliandosi di tutte le sue proprietà che distribuì ai poveri. La sua opera di vescovo fu importante, ammaestrò i suoi chierici e i suoi monaci; sviluppò la vita monastica in Gallia, fondò un monastero maschile sulla riva destra del fiume Yonne dedicato ai Ss. Cosma e Damiano; eresse una basilica a S. Albano martire inglese e un’altra più piccola destinata alla propria sepoltura, dedicata a S. Maurizio e compagni martiri e che in seguito sarà chiamata di S. Germano. Fece da mediatore verso il capo degli Alani (una popolazione caucasica, che al seguito degli Unni, penetrarono nell’Europa centrale, contribuendo alla caduta dell’impero romano) nella regione di Orléans, convincendolo a trattare, salvando così l’Armorica (antico nome della Bretagna); prese posizione contro l’eccessivo peso delle imposte pagate dai suoi diocesani. Dopo le sue missioni in Britannia per estirparvi il pelagianismo, nel 448 Germano si recò alla corte imperiale di Ravenna, per perorare la causa dell’Armorica (e ciò in conflitto con Ezio, vicario imperiale della Gallia, che minacciava di farla invadere dagli Alani), e, durante quest’ultima missione, morì a Ravenna il 31 luglio 448, fra il compianto generale. Il suo corpo fu imbalsamato, deposto in una cassa di cipresso e riportato ad Auxerre, come da suo desiderio.
[8] Secondo tale teoria gli esseri umani, ai fini della loro salvezza devono fare da se stessi il primo passo verso Dio, cioè senza l’aiuto della grazia divina, la quale subentra solo in un secondo tempo. Pur ammettendo che la grazia sia indispensabile alla salvezza (rigettando così il Pelagianesimo), sviluppano il semi‑pelagianesimo in opposizione alla posizione radicale del monergismo [dal greco mono (da solo), e ergo (opero)] e della predestinazione sostenuta da Agostino di Ippona e dalla sua scuola. Il semi‑pelagianesimo verrà formalmente condannato nel secondo Concilio di Orange del 529, ma rimane a tutt’oggi la posizione prevalente nel mondo cristiano, in cui si tende ad accettare che l’essere umano, ai fini della salvezza, si avvalga della propria volontà autonoma e delle proprie risorse, eventualmente stimolate e comunque integrate dalla grazia di Dio.
[9] S. Giovanni Cassiano (360 circa – Marsiglia, 23 luglio 435) è stato un monaco originario presumibilmente della Dobrugia, regione della Scizia (l’attuale Romania) o, secondo altre fonti, della Provenza. Si sa poco di lui: pare che il suo nome originario fosse semplicemente Cassianus e che il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a S. Giovanni Crisostomo, che lo avrebbe ordinato sacerdote. Soggiornò lungamente in Terrasanta, a Betlemme, e in Egitto; successivamente, dopo un breve soggiorno a Roma si trasferì nelle Gallie, a Marsiglia. Quivi fondò nel 415 due monasteri: uno per gli uomini, l’abbazia di San Vittore, l’altro per le donne, sull’esempio di quelli egiziani. Visse in Provenza per il resto della sua vita, scrivendo i suoi due libri: De institutis coenobiorum e Collationes che Benedetto da Norcia raccomandò come autorevoli trattati per la formazione dei monaci.
[10] S. Fausto (Faustino) di Riez (Inghilterra, 408 circa – Riez, 495 circa). Sicuramente di origine britannica, fu amico di S. Sidonio Apollinare e monaco presso l’Abbazia di Lerino, divenendone abate nel 432, quando l’abate Massimo venne nominato Vescovo di Riez. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 460, Fausto fu consacrato Vescovo e gli successe nella cattedra episcopale di Riez. I suoi scritti contro l’arianesimo gli causarono l’esilio nel 476 per ordine del re visigoto Eurico e poté rientrare nella sua sede episcopale solo alla morte del re, avvenuta nel 484. Certamente egli scrisse contro gli ariani, sul “Verbo di Dio fatto carne” e sullo Spirito Santo consustanziale al Padre ed al Figlio e co-eterno ad essi. Tuttavia, in altre opere, egli non ammette la preminenza della Grazia rispetto al libero arbitrio. Questa posizione gli procurò una condanna postuma da parte del secondo Concilio di Orange (529) per semi‑pelagianismo.
[11] S. Vincenzo di Lerino (Francia settentrionale o Belgio, V secolo – Isole di Lerino, 450 circa) fu uno scrittore ecclesiastico della Gallia meridionale nel V secolo, fratello di S. Lupo di Troyes, figlio di un nobile della città di Toul, esponente dell’alta nobiltà franca di origine senatoriale. Non abbiamo molte notizie sulla sua vita. La sua notorietà è legata ad un libretto sulla tradizione della Chiesa, dal titolo Commonitorium, che S. Roberto Bellarmino definì “un libro tutto d’oro”, e ad altri testi cristologici e trinitari. Il Commonitorium è un manuale di regole di condotta da seguire per vivere integralmente il messaggio evangelico. Non c’erano grandi novità. Nel 434 (l’anno in cui vide la luce il prezioso libretto), il monaco forniva ai teologi futuri il famoso canone dell’ortodossia, cioè il metro per giudicare la bontà di una affermazione teologica: «Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est»: atteniamoci, cioè, a ciò che è stato creduto ovunque, sempre e da tutti. S. Vincenzo auspica tuttavia un progresso: «E’ necessario che crescano e che vigorosissimamente progrediscano la comprensione, la scienza e la sapienza da parte sia dei singoli che di tutti, sia di un solo uomo che di tutta la Chiesa, via via che passano le età e i secoli».
[12] S. Prospero d’Aquitania (Limoges, 390 circa – Roma, 463 circa), monaco e teologo, fu difensore delle opere di Agostino d’Ippona sulla grazia e sulla predestinazione. Ad un certo punto della sua vita, intorno al 426, dall’Aquitania si stabilì a Marsiglia, dove visse per molto tempo in convento, come monaco laico, senza mai ricevere gli ordini. In questo periodo conobbe Agostino ed imparò ad apprezzarne le idee. Però vide anche il diffondersi del pelagianismo a Marsiglia e nei conventi della Provenza e le reazioni dei monaci agli scritti agostiniani. Daccordo con un altro laico, Ilario, informò Agostino di ciò che stava succedendo e questi rispose con due scritti: il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae, le sue ultime opere prima della morte. Neanche questi scritti convinsero i monaci provenzali e Prospero decise di darsi alla battaglia dottrinale e alla difesa del Vescovo d’Ippona, producendo un gran numero di scritti teologici. Papa Leone I Magno, trovandosi in Gallia, dispose che Prospero lo seguisse a Roma e lo impegnò nella cancelleria pontificia (440). Qui ritrovò la tranquillità dello spirito: non si occupò più delle controversie sulla Grazia, anche perché morto nel 435 Cassiano, maggiore oppositore di Marsiglia, la disputa si acquietò alquanto; poté così dedicarsi alla diffusione del pensiero agostiniano e quindi sul polemista, prevalse l’esegeta, il compilatore, il cronista. Autore in prosa, le sue opere si contano a centinaia, commenti, sentenze, epigrammi, esposizioni dottrinali in versi; compose a Roma anche l’unica opera che non parla di S. Agostino, il Chronicum integrum, cronaca universale dalle origini fino alla presa di Roma da parte di Gianserico (455).
[13] Contra collatorem 21, 3, in P.L., LI, col. 272B.
[14] Nestorio (Germanicia, ca 381 – El Kargha, ca 451) fu monaco del convento di Euprepio e patriarca di Costantinopoli dal 428 al 431. Durante le dispute cristologiche del V secolo, i suoi avversari gli attribuirono la dottrina che da lui prese nome di Nestorianesimo, ossia un difisismo estremo (alle due nature, divina e umana, di Cristo corrisponderebbero anche due persone), condannata come eretica dal Concilio di Efeso nel 431. S’impegnò a combattere le eresie ariane e novaziane, mentre ebbe un atteggiamento favorevole verso i pelagiani Giuliano di Eclano e Celestio, profughi nella città dopo la condanna del pelagianismo.
[15] Eusèbio di Dorileo, retore e avvocato a Costantinopoli, poi (448) vescovo di Dorileo; si distinse per lo zelo contro le dottrine di Nestorio prima, di Eutiche poi. Condannato e deposto dal Concilio di Efeso (449), riuscì a fuggire rifugiandosi a Roma; prese poi parte al Concilio di Calcedonia (451), che lo riabilitò.
[16] Mario Mercatóre, fu uno scrittore cristiano (sec. 5º), africano; combatté i pelagiani, la scuola antiochena e Nestorio, ma con scarsa originalità, in dipendenza da S. Cirillo d’Alessandria e S. Agostino, del quale fu forse allievo.
[17] S. Cirillo di Alessandria (Teodosia d’Egitto, 370 – Alessandria d’Egitto, 27 giugno 444). Come teologo, fu coinvolto nelle dispute cristologiche della sua epoca. Si oppose a Nestorio durante il concilio di Efeso del 431 (del quale fu la figura centrale). In tale ambito, per contrastare le tesi di Nestorio che negava la maternità divina di Maria, sviluppò una teoria dell’Incarnazione, che gli valse il titolo di doctor Incarnationis e che è considerata ancora valida dai teologi cristiani contemporanei. Alcuni storici lo indicano come il mandante dell’omicidio della scienziata e filosofa neoplatonica Ipazia. Divenuto vescovo e patriarca di Alessandria nel 412, secondo lo storico Socrate Scolastico acquistò «molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore» e il suo episcopato «andò oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali». Cirillo giunse a svolgere anche un ruolo dalla forte connotazione politica e sociale nell’Egitto greco-romano di quel tempo. Le sue azioni sembrano essersi ispirate al criterio della difesa dell’ortodossia cristiana a ogni costo: espulse gli ebrei dalla città; chiuse le chiese dei novaziani, confiscandone il vasellame sacro e spogliando il loro vescovo Teopempto di tutti i suoi possedimenti; entrò in grave conflitto con il prefetto imperiale Oreste.
[18] S. Cirillo, Epist., 4 e 10.
[19] Elia Eudocia (Atene, 401 ca – Gerusalemme, 20 ottobre 460) figlia del sofista Leonzio e moglie dell’Imperatore Teodosio II.
[20] Elia Pulcheria (Costantinopoli, 19 gennaio 399 – luglio 453), figlia dell’Imperatore Arcadio Arcadio e di sua moglie Elia Eudossia, Pulcheria era sorella maggiore di Teodosio II. È venerata come Santa dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.
[21] Arnòbio detto il Giovane, per distinguerlo dall’Arnobio apologeta cristiano del III secolo fu uno scrittore cristiano (sec. 5º), probabilmente monaco, della Gallia piuttosto che dell’Africa; visse a Roma. Gli sono attribuiti scritti esegetici, agiografici e polemici; l’opera più importante è il Praedestinatus, elenco di eresie, rivolto a combattere discretamente le idee agostiniane sulla grazia e il libero arbitrio: espressione della corrente teologica cosiddetta semipelagiana.
[22] Giovanni d’Antiochia. – Eletto Patriarca nel 428 o 429 (m. 441 circa), amico di Nestorio.
[23] Erano i Vescovi Arcadio e Proietto ed il prete Filippo.
[24] Salvatore Pricoco, Da Costantino a Gregorio Magno, in Storia del cristianesimo. Vol.I a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi. Bari, Laterza, 2008, pag. 346-347.
[25] Per il partito di Cirillo vi erano anche i legati papali.
[26] Con la deposizione di Nestorio Teodosio II riconosce implicitamente la validità del Concilio presieduto da Cirillo.
[27] I sostenitori di Nestorio costituirono una Chiesa separata, la Chiesa nestoriana, che si sviluppò in Assiria, in Caldea (la zona del medio e basso corso dei fiumi Tigri ed Eufrate) e in Persia, prevalendo sulla Chiesa Universale e portando nel tempo la propria predicazione fino all’India ed alla Cina. Il declino della Chiesa nestoriana avvenne con l’invasione di Tamerlano del 1380 e con l’espansione dell’islamismo in Persia.
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