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Marco M. G. Michelini | 6 Dicembre 2016

Pochi giorni dopo la morte di Innocenzo, venne eletto a succedergli il presbitero Zosimo, greco di nascita e forse discendente da famiglia giudaica[1]. Per spiegare la rapida elezione di un forestiero del quale non si dice che facesse già parte del clero romano, alcuni hanno ipotizzato che fosse già stato indicato dal suo predecessore dietro raccomandazione di S. Giovanni Crisostomo, oppure che la sua candidatura fosse stata patrocinata da Patroclo, Vescovo di Arles, che in quei giorni si trovava a Roma, e verso il quale poi Zosimo si sarebbe sdebitato accordando alla sede di Arles quei privilegi di cui parleremo in seguito. Sta di fatto che questa scelta si rivelò assai poco felice. Forse perché poco esperto del mondo occidentale e del modo in cui si conducevano gli affari a Roma, o forse per mancanza di posatezza e ponderazione, o fors’anche per tutti questi difetti fusi insieme, Zosimo, nel suo breve pontificato, colse solamente insuccessi, con grave scapito del prestigio della Sede apostolica.

Nonostante la ferma condanna pronunciata da Innocenzo, il pelagianismo era tutt’altro che sconfitto. Ma mentre Pelagio si accontentò di inviare a Roma – a Papa Innocenzo che credeva ancora vivo – un’ambigua professione di fede, con allegata la sua opera in quattro libri De libero arbitrio, il suo discepolo Celestio (anche perché espulso da Efeso a Costantinopoli) sul finire dell’estate del 417 si recò a Roma dal nuovo Papa per sottomettersi al suo giudizio ed avere modo di discolparsi da quelle che lui diceva essere false accuse. Era una trappola, e Zosimo ci cascò.

Nel Sinodo convocato dal Papa nella chiesa di S. Clemente, dopo essere stato a lungo interrogato Celestio si disse disposto a condannare tutto ciò che la sede apostolica condannava, secondo quanto espresso da Innocenzo nella sua lettera, rifiutandosi solo di ritrattare le false proposizioni attribuitegli da Paolino nel Concilio cartaginese del 411. Ed il risultato di questo suo sfrontato comportamento fu che venne riconosciuto da Zosimo pienamente ortodosso. Il Papa, inoltre, si affrettò a comunicare la cosa a S. Agostino e agli altri Vescovi africani, inviando anche un riassunto del verbale della seduta, e li rimproverò di aver agito con deplorevole leggerezza e precipitazione, prestando fede alla parola di due Vescovi, Eros e Lazzaro, poi deposti[2]. Nella sua lettera, Zosimo aggiungeva di non aver voluto imitare la precipitazione degli africani emettendo una sentenza di assoluzione, ma lasciava due mesi di tempo affinché, se vi fosse stato qualcuno che volesse redarguire Celestio, potesse presentarsi a Roma per farlo di persona[3].

Pochi giorni appresso, il Papa ricevette una lettera di Prailo, Vescovo di Gerusalemme, che gli parlava in favore di Pelagio, e ciò lo spinse ad indire una nuova riunione in S. Clemente, dove fece leggere la lettera che Pelagio aveva mandato ad Innocenzo e che venne da tutti considerata – sia per senso che per formulazione – convenire con quanto espresso da Celestio. Nel dicembre del 417, Zozismo scrisse quindi una nuova lettera agli Africani, nella quale ripeteva tutte le malefatte dei Vescovi Eros e Lazzaro, nonché le accuse alla Chiesa d’Africa d’essersi lasciata irretire dalle loro calunnie.

Queste lettere fecero una penosa impressione sui Vescovi africani, i quali però, pur declinando l’invito di presentarsi a Roma per accusare Celestio, cercarono di evitare una rottura ed inviarono al Papa numerose lettere nelle quali lo supplicavano di non abolire le decisioni di Innocenzo, facendogli capire che era stato ingannato. Zozimo non se la sentì di riconoscere il proprio errore, ma non si azzardò neppure a smentire le decisioni del suo predecessore. Per cui con la lettera Quamvis Patrum[4], dopo una lunga premessa sull’autorità della Sede Apostolica – importante per la dottrina e la coscienza del primato – e la protesta contro il rimprovero degli Africani di essere stato troppo credulo con Celestio, manifestava la propria intenzione di mantenere una sorta di staus quo, in attesa di un maggiore chiarimento della questione.

Questa lettera del Papa giunse a Cartagine alla fine di aprile, quando già oltre 200 Vescovi erano convenuti nella città per il Concilio generale indetto il primo di maggio, che fissò in nove anatematismi[5] la dottrina cattolica circa la necessità della grazia e circa il peccato originale. Nell’inviarli al Papa, i Vescovi aggiunsero una lettera Sinodale, in cui dichiaravano che la sentenza di Innocenzo doveva valere sinché Celestio e Plagio non avessero riconosciuto che la grazia divina è necessaria per ogni atto e che senza di essa l’uomo non può concepire o compiere alcunché di santo.

È alquanto verosimile che la Chiesa d’Africa non si sia limitata a scrivere a Zosimo, ma che per mezzo di Galla Placidia abbia informato l’Imperatore del pericolo che costituivano questi nuovi eretici. Sta di fatto che, anche a seguito di disordini provocati in Roma da Celestio, Onorio decise di intervenire nella questione con un Rescritto al prefetto del pretorio d’Italia, che ordinava l’immediata espulsione dei pelagiani. A questo punto neppure Zosimo poté esentarsi dall’emettere un giudizio definitivo di condanna; e due o tre mesi appresso inviò alle principali Chiese dell’Oriente e dell’Occidente la sua Epitola Tractoria[6], nella quale ritesseva la storia del pelagianismo, contrapponendo ai suoi errori la dottrina sul peccato originale e sulla necessità della grazia.

La sconfitta dei pelagiani sembrava definitiva, ma così non fu. Infatti un gruppo di diciotto Vescovi italiani capitanati da Giuliano d’Eclano[7] si rifiutarono di sottoscrivere la condanna del pelagianismo, attirandosi con ciò scomunica e deposizione. Raccoltisi allora ad Aquileia, essi lanciarono di là il loro manifesto, che rappresentava una mitigazione del pelagianismo, in quanto ammettevano che gli uomini non possono essere immuni dal peccato senza l’aiuto di Dio, che anche i bqambini hanno bisogno del battesimo, che una certa grazia divina è necessaria per compiere atti salutari, sebbene la circoscrivessero in modo da lasciare pieno campo al libero arbitrio. Ma essi respingevano anche il peccato originale, per la ragione che esso costituirebbe un attentato contro la santità del matrimonio e l’onestà della generazione umana, rinnovando così l’errore manicheo che vedeva in essa una partecipazione del diavolo. Costretti all’esilio dall’autorità imperiale, essi si rifugiarono presso Teodoro di Mopsuestia[8]. Parecchi di loro finirono per sottomettersi tra il 419 e il 425, mentre Giuliano, con un piccolo gruppo di amici, continuò a combattere sino alla fine, sebbene dopo una nuova condanna del pelagianismo venisse abbandonato anche dagli Orientali.

Tornando a Zosimo, dopo aver riparato in qualche modo il suo comportamento piuttosto imprudente nella questione pelagiana, egli si trovò subito coinvolto in una nuova situazione, che lo portò a commettere un nuovo errore. Non sappiamo se il suo comportamento sia stato dettato da risentimento o da desiderio di rivincita; resta comunque il fatto che egli tentò di aprire una breccia nell’autonomia della Chiesa d’Africa intervenendo, con la mancanza di tatto già dimostrata, in un caso disperato. Dopo avere accolto un primo appello di un Vescovo della Bizacene per sé contrario al diritto che in Africa regolava le istanze, ed avere in una lettera rimproverato l’episcopato della provincia, poiché dei funzionari statali avevano fatto parte del tribunale con scapito della dignità vescovile, egli volle accoglierne anche un secondo, quello di un presbitero di nome Apiario, giustamente scomunicato dal Vescovo Urbano di Sicca Veneria. E questa volta Zosimo non si limitò a scrivere una nuova lettera, ma inviò a Cartagine una sua legazione, capeggiata dal Vescovo di Potenza, Faustino, munita di una istruzione[9] fortemente autoritaria, nella quale, fondandosi su due canoni che nelle raccolte romane figuravano come niceni[10], erano contenute quattro richieste: che i Vescovi africani avessero il diritto di appellarsi alla Sede Apostolica; che fosse proibito a Vescovi recarsi troppo spesso alla corte di Ravenna; che i preti e i diaconi scomunicati dal proprio Vescovo potessero appellarsi ai Vescovi vicini; che Urabano di Sicca dovesse essere scomunicato o inviato a Roma, se si fosse rifiutato di ritirare la sentenza contro Apiario. Si trattava di un grosso errore diplomatico, che fortunatamente non trovò la Chiesa africana troppo rigida nelle sue posizioni, altrimenti sarebbe sorto uno scisma. I Concili africani, infatti, avevano già provveduto per la seconda e terza richiesta. Inoltre, il Concilio generale del primo maggio di quell’anno aveva decretato[11] che a chiunque avesse appellato ai Concili trasmarini doveva essere rifiutata la comunione da tutta l’Africa. A questo proposito si parlava in particolare di preti, diaconi e altri chierici inferiori: dunque il caso di Apiario vi era compreso. Va tenuto conto, infine, che in Africa i canoni di Sardica non figuravano per niceni, anzi non erano stati accolti affatto, per cui i Vescovi, dopo un primo esame, decisero di rimandare il caso di Apiario al prossimo Concilio e di scrivere a Zosimo che nel frattempo essi avrebbero osservato i due pretesi canoni di Nicea. La lettera giunse però a Roma quando il Papa era già morto. Vedremo quindi in seguito, sotto gli immediati successori di Zosimo, la continuazione della controversia circa gli appelli degli africani a Roma.

Un altro intervento di Zosimo suscitò nella Chiesa della Gallia vivace opposizione, certo non tenace come quella degli Africani, in quanto in quella terra mancava un episcopato unito ed organizzato. Cattivo consigliere del Papa in questa faccenda fu il Vescovo d’Arles, Patroclo, il quale nel 411, dopo la vittoria del patrizio Costanzo sull’usurpatore Costantino, aveva occupato la sede di Arles facendone bandire senza formale processo il Vescovo Eros. Patroclo aveva concepito il disegno di fare di Arles una specie di supermetropoli, usurpando cioè i diritti di Vienne, Marsiglia e Narbona. È quindi probabile che Patroclo fosse venuto a Roma ai tempi dell’elezione di Zosimo per ottenere dal suo predecessore la sanzione del suo piano, ma senza successo. Con il nuovo Papa, invece, egli riuscì nel suo intento più presto di quello che osasse sperare. Infatti, dopo soli quattro gioni dalla sua ascesa al Soglio di Pietro[12], Patroclo otteneva da Zosimo una lettera indirizzata a tutti i vescovi della Gallia e delle sette province nella quale si disponeva quanto segue:

  1. che nessun ecclesiastico di qualsiasi grado o parte della Gallia potesse recarsi a Roma o altrove senza essere munito di una lettera del metropolita di Arles, onde sarebbe stato scomunicato chi non si fosse sottomesso a questo privilegio concesso dal Papa a Patroclo in cosiderazione dei suoi meriti;
  2. che solo il Vescovo di Arles avrebbe avuto il diritto di ordinare i Vescovi nella provincia di Vienne e nelle due province narbonesi[13], per cui, di conseguenza, ogni ordinazione fatta contro questo ordine della sede apostolica sarebbe stata nulla ed avrebbe comportato per il consacrante l’esclusione dall’episcopato.

Patroclo aveva appoggiato questa sua richiesta con una considerazione che Zosimo fece propria – cioè che ad Arles spettavano i diritti metropolitani in quanto essa era stata la Chiesa madre della Gallia Con San Trofimo[14] per primo Vescovo – e che ripeté sia nella prima lettera sia nelle altre che scrisse poi ai Vescovi di Narbona e di Marsiglia, i quali non si volevano adattare alla nuova situazione rinunciando ai propri diritti.

Questi provvedimenti senza precedenti destarono, come si è già detto, grande risentimento nei Vescovi della Gallia; e se il Vescovo Ilario di Narbona finì per sottomettersi, Proculo di Marsiglia continuò ad affermare ed esercitare il suo diritto di consacrare Vescovi. Citato perciò a Roma, egli non vi comparve e Zosimo lo depose il 5 marzo del 418, indisponendo ancor più verso la Sede Apostolica i membri di una Chiesa che le era sommamente devota.

Sulla base di una lettera indirizzata da Zosimo a Esichio di Salona, metropolita della Dalmazia, alcuni storici hanno ritenuto che con questa decisione il Papa intendesse istituire in Gallia – e magari in tutte le province della Chiesa Occidentale – una sorta di Vicariato simile a quello di Tessalonica. Questa supposizione, però, risulta in aperto contrasto con la realtà dei fatti: non fu certo per interesse di Roma che il diritto di ordinare Vescovi fu conferito a Patroclo, ma piuttosto per soddisfare gli interessi personali e l’ambizione di quest’ultimo.

A causa di questa sua incauta mancanza di tatto, Zosimo si trovò oggetto di vivaci opposizioni perfino nella stessa Roma; tanto che nei suoi ultimi mesi di vita un gruppo di ecclesiastici dissidenti portò le proprie lamentele fino alla corte imperiale di Ravenna. Mentre il Papa stava reagendo contro gli intrighi e prendendo misure per scomunicare i contestatori, cadde ammalato e morì il 26 dicembre 418, lasciando al suo successore varie cose da rimediare e in Roma stessa un clero fortemente diviso.

 

*** NOTE ***

 

[1] Liber pontificalis, I, 225.

[2] L’avversione di Zosimo contro tali Vescovi era stata ampiamente ispirata da Patroclo d’Arles.

[3] Salta agli occhi, l’ingenuità, la ristrettezza di vedute e la scarsa ponderazione del Papa su questa vicenda: egli si sofferma solo sulle cause iniziali che avevano dato il via alle accuse, senza considerare che nel frattempo vi erano stati una sentenza molto precisa del suo predecessore ed i trattati dogmatici di S. Agostino in refutazione degli scritti pelagiani.

[4] 21 marzo 418.

[5] Cioè le formule con cui gli eretici vengono colpiti di anatema.

[6] Tractoria era il nome che in Africa si dava alle circolari collettive indirizzate all’episcopato.

[7] Giuliano d’Eclano (ca. 386-454) studiò filosofia e dialettica, e divenne Vescovo d’Eclano nel 416. A seguito del suo rifiuto di controfirmare l’Epistola Tractoria fu costretto all’esilio divenendo, da quel momento, divenendo il leader spirituale dei pelagiani ed impegnandosi in una diatriba epistolare con Sant’Agostino. Dal 421 fu ospite di Teodoro di Mopsuestia in Cilicia e nel 428 si recò con altri vescovi a Costantinopoli dal Patriarca Nestorio, dove ritrovò anche Celestio. Entrato in polemica con Mario Mercatore, amico di Agostino, nel 430 l’imperatore Teodosio II lo fece espellere con tutti i pelagiani. Giuliano continuò la propria propaganda e nel 439 cercò di rientrare nella sua sede di Eclano, ma ne fu impedito da Papa Sisto III. Morì durante il regno di Valentiniano III, forse nel 454 (o secondo altre fonti nel 441 o 445). Dal punto di vista dottrinale, Giuliano ricusò il concetto agostiniano che Dio avrebbe danneggiato tutti a causa dell’errore di un solo uomo, Adamo, che era da considerare soltanto un cattivo esempio. Inoltre respinse il concetto manicheo di Agostino di un mondo pieno di sofferenze per le anime peccatrici, dove la morte era la punizione per il peccato originale: per Giuliano ciò che era naturale non poteva essere malvagio e le scelte umane, giuste o sbagliate che fossero, non potevano influenzare i fenomeni naturali, inclusa la morte.

[8] Teodoro, Vescovo di Mopsuestia, (ca. 350-428), nacque ad Antiochia da famiglia benestante. Studiò filosofia e retorica alla scuola locale del retore pagano Libanio, dove fu compagno di studi di San Giovanni Crisostomo. All’età di diciotto anni entrò alla scuola di Diodoro di Tarso, in un monastero vicino ad Antiochia, la stessa scuola da cui uscì anche Nestorio (v.s.), e di cui Teodoro fu molto probabilmente maestro. Ordinato sacerdote (383 o 386) insieme a Crisostomo da Vescovo Flaviano, si unì al suo vecchio maestro Diodoro – divenuto nel frattempo Vescovo di Tarso – che riuscì a farlo nominare Vescovo di Mopsuestia in Cicilia (parte dell’attuale Turchia). Durante il periodo di persecuzione di Crisostomo Teodoro rimase sempre fedele al vecchio amico, difendendolo in più occasioni, e nel 421 ositò Giuliano d’Eclano e altri pelagiani, che indubbiamente influenzarono la sua dottrina. Morì nel 428 e, sebbene in vita fosse sempre stato considerato rigorosamente ortodosso, dopo la sua morte il suo nome venne associato a quello del suo allievo Nestorio, e per questo condannato postumo come eretico dapprima dall’Editto di Giustiniano dei Tre Capitoli (544) e poi nel II Concilo di Costantinopoli (553).

[9] Commonitorium.

[10] In realtà si trattava dei canoni sardicensi 7° e 17° della versione latina, rispettivamente 5° e 14° della greca.

[11] Canone 17°.

[12] 22 marzo 417.

[13] Con il termine Gallia Narbonense veniva indicata una provincia romana geograficamente corrispondente, all’incirca, alle odierne regioni amministrative francesi di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, situate nella Francia meridionale. Precedentemente conosciuta come Gallia Transalpina (o Gallia meridionale), in epoca romana era chiamata anche Provincia Nostra o semplicemente Provincia. L’eco di questo termine ancora permane nel nome dell’attuale regione francese (Provence o Provenza). La regione divenne provincia romana nel 121 a.C., col nome originario di Gallia Transalpina (o Gallia ulterior o Gallia comata, ossia “Gallia al di là delle Alpi”, in contrapposizione alla Gallia Cisalpina o Gallia citerior o Gallia togata, ossia “Gallia al di qua delle Alpi“). Dopo la fondazione della città di Narbo Martius, o Narbona, (l’attuale Narbonne), nel 118 a.C., la provincia fu rinominata Gallia Narbonensis, o Gallia bracata, con la nuova colonia costiera come capitale. In età imperiale, la provincia fu affidata a un proconsole. Con la riforma dioclezianea, la Gallia narbonese perse la sua parte più settentrionale, che assunse il nome di Gallia Viennensis. Poco dopo la provincia venne ulteriormente divisa, in Narbonensis I (ad occidente del Rodano), e Narbonensis II (oriente del Rodano). Insieme all’ Aquitania I, all’Aquitania II, la Novempopulania, Novempopuli, (il resto del sud-ovest della Gallia), e alle Alpi Marittime andò a formare la Diocesi, denominata Septem Provinciae.

[14] San Trofimo (III secolo) è stato il primo vescovo di Arles. Secondo un’antica tradizione della Chiesa Cattolica nel periodo del regno degli imperatori Decio ed Erennio Etrusco (251 AD), il Papa Fabiano inviò da Roma in Gallia sette vescovi per predicare il Vangelo: Graziano di Tours, Trofimo di Arles, Paolo di Narbona, Saturnino di Tolosa, Dionigi di Parigi, Marziale di Limoges e Austremonio di Clermont. A partire dalla metà del V secolo la tradizione locale ha assimilato Trofimo di Arles al Trofimo menzionato negli Atti degli Apostoli come compagno di San Paolo. Nonostante che il Martirologio Romano lo identifichi come discepolo di Paolo, questa identificazione è da ritenersi spuria San Trofimo, pur essendo venerato in Francia, non ha una biografia nella Enciclopedia Cattolica, tuttavia la Chiesa di San Trofimo ad Arles, cominciata a costruire nel 12° secolo su di una cripta del 3° secolo, è fra i più famosi monumenti architettonici e scultorei del Romanico in Provenza. Nel chiostro in un angolo del portico settentrionale vi è una figura, risalente al 1180 circa, che rappresenta Trofimo.


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