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Marco M. G. Michelini | 1 Novembre 2016

Linea biografica

Antonio Beccadelli, detto il Panormita, nacque a Palermo, da una famiglia originaria di Bologna, nel 1394. Fu inizialmente avviato dal padre alla mercatura, ma con scarsi risultati poiché ben presto il giovane Antonio venne attirato dagli studi letterari. Tra il 1419 e il 1420, il Beccadelli lasciò la nativa Sicilia e, raccomandato dall’Aurispa a papa Martino V, si recò a Firenze, e successivamente, per breve tempo, passò a Padova. Trasferitosi a Siena per seguire gli studi di diritto alla scuola del famoso giurista catanese Nicola Tudisco, intraprese la composizione dell’Hermaphroditus, ultimato e pubblicato poi a Bologna nel 1425.

Nei primi mesi del 1427, egli cercò una sistemazione alla corte estense ma – fallito questo progetto – tornò a Firenze. Nel 1428 soggiornò a Roma, ove ebbe occasione di conoscere Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla. Nella primavera del 1429, dopo una breve sosta a Genova presso l’arcivescovo e umanista milanese Bartolomeo della Capra, raggiunse, per consiglio di lui, Pavia, con il dichiarato proponimento di continuare gli studi di legge, ma con la segreta speranza di entrare come poeta ufficiale alla corte dei Visconti. Il 10 dicembre 1429, grazie all’interessamento del Capra, ottenne la nomina a poeta aulico, con il lauto stipendio annuo di 400 fiorini d’oro e, tempo dopo, l’ambita incoronazione d’alloro a Parma, per mano dell’imperatore Sigismondo (maggio 1432).

A Pavia il Beccadelli, oltre alla composizione di un’operetta prettamente letteraria, dal titolo Poematum et prosarum liber, si dedicò intensamente anche allo studio di Plauto, del quale diffuse largamente la conoscenza in Lombardia. L’interesse per lo scrittore latino, gli dettò le Indagationes alle prime otto commedie del corpus plautino e lavorando su tutti i codici che con amore e fatica era riuscito a procurarsi, emendò i testi e affrontò impegnativi problemi filologici; ma, pur dedicandosi attivamente a tali studi, non portò mai a compimento la sua fatica.

Nel 1434, quando ormai per vari motivi la sua posizione presso i Visconti si era fortemente incrinata, entrò al servizio di Alfonso V il Magnanimo[1], che gli conferì subito la carica di consigliere regio. Il Panormita si avviava così a ottenere quel posto di preminenza nella corte alfonsina che, in seguito, gli avrebbe consentito di svolgere una sua particolare e insostituibile funzione nella diffusione della cultura umanistica nel Mezzogiorno. Nel 1435 il Beccadelli fu presente all’assedio di Gaeta e venne incaricato delle trattative di resa coi difensori di quella piazzaforte; successivamente fu inviato come ambasciatore presso le repubbliche di Firenze e di Siena, onde impedire una loro alleanza con quella di Genova.

Dopo aver seguito Alfonso a Castel di Sangro e a Sulmona, il Beccadelli partecipò all’assedio di Caiazzo, trattandone la resa, e poi, nel prosieguo della guerra contro gli Angioini, passò, sempre al seguito del re, in Puglia. Nel 1442 tornò a Gaeta come procuratore, ma ben presto dovette trasferirsi a Napoli, finalmente conquistata da Alfonso. Dopo aver partecipato al trionfale ingresso del sovrano nella capitale (26 febbraio 1443), il Panormita alla nuova corte napoletana ottenne quello status e quegli onori che invano aveva sperato di conseguire in Lombardia. In questo ambiente egli poté dare ampia testimonianza delle sue capacità e delle sue risorse: l’amore per gli studi e per le attività umanistiche, la viva esperienza di letterato e di uomo di corte, la colta e brillante conversazione che ne fecero il centro della vivace vita culturale dell’umanesimo cortigiano nella Napoli alfonsina.

Con un viaggio a Palermo, ebbe inizio l’attività diplomatica e letteraria del nuovo soggiorno napoletano del Beccadelli. Poco dopo il suo ritorno, probabilmente nel 1455, essendogli morta la moglie Filippa (che aveva sposato durante il soggiorno in Lombardia), egli passò a nuove nozze con una giovane nobildonna napoletana, Laura Arcella. Insignito da Alfonso di sempre più alte onorificenze, nel 1451 fu inviato con Luiz dez Puig e Giovanni Pontano come ambasciatore presso i Fiorentini, per distaccarli dall’alleanza con Francesco Sforza; e poi a Venezia, ove pronunciò una famosa orazione latina. Al suo rientro a Napoli, Alfonso gli affidò l’incarico di preparare e di presentare un’orazione in onore di Federico III, in occasione della sua venuta in Italia per essere incoronato imperatore e per sposare Eleonora di Portogallo. Poi, nel 1453 andò ambasciatore a Genova per persuadere quella Repubblica ad aderire ad una alleanza generale italiana contro i Turchi.

Nel 1455 compose il De dictis et factis Alphonsi regis, opera in onore del sovrano aragonese, che ricompensò il Panormita donandogli il castello palermitano della Zisa, già dimora degli emiri musulmani e dei sovrani normanni. Frutto di analoga ispirazione è anche l’Alphonsi Regis triumphus, operetta breve, in prosa, che descrive il celebre trionfo del re, al suo ingresso in Napoli.

Con la morte di Alfonso, avvenuta nel 1457, e l’assunzione al trono di Ferdinando I, la posizione di preminenza che il Panormita aveva a corte non venne intaccata; anzi il 1458 fu per lui un anno di intensissima attività politica, che culminò con l’ambasceria a Milano presso Francesco Sforza. Sempre nel 1458 fondò l’Accademia, inizialmente denominata Porticus Antoniana, cenacolo in cui gli uomini di cultura si riunivano per discutere di letteratura e filosofia. Nel 1459 partecipò al consiglio di Andria, ma la sua proposta di un deciso intervento contro il ribelle principe di Taranto non fu ascoltata dal re: si profilava così, sempre maggiore, il pericolo della “congiura dei baroni”[2], mentre il Beccadelli, tornato alla sua funzione di segretario della Cancelleria napoletana, scriveva per conto del re – o a suo stesso nome – al doge di Venezia, a Pio II, a Francesco Sforza, a Carlo di Navarra, chiedendo aiuti per il pericolante Regno di Napoli.

Gli ultimi anni di vita trascorsero serenamente tra le dotte discussioni all’Accademia e l’insorgenza di un’ombra d’ascetismo. La morte lo colse a Napoli il 15 gennaio del 1471, mentre si  preparava a tracciare una biografia di Ferrante, il Liber rerum gestarum Ferdinandi Aragoniae, opera rimasta incompiuta e nella quale avrebbe dovuto narrare anche le vicende degli anni tristi di cui era stato spettatore forse smarrito per la crudeltà che li aveva insanguinati.


L’Hermaphroditus

Frutto più di una felice e audace esplosione di giovinezza, piuttosto che di una vera linfa poetica o di una consapevolezza culturale, i due libri dell’Hermaphroditus  – concepito consapevolmente nel segno della trasgressione alla morale e al pudore – sono una raccolta di epigrammi latini, nella quale si trovano schermi e suggestioni derivanti sia dai Carmina Priapea[3], sia da Marziale, da Orazio, da Plauto, e dal Catullo delle nugae[4]. I distici latini del Panormita, raffinatissimi e accuratissimi dal punto di vista tecnico‑formale, pervasi talvolta da una vena dolente, portavano sui personaggi contemporanei e sulle vicende quotidiane uno sguardo dissacrante, teso a far vedere l’oggetto del discorso in modo diretto, senza ricorrere a un linguaggio allusivo o a un velame metaforico. La sostanza, dunque, dalla quale scaturisce la poesia altro non è che «una larga materia di cronaca e di costume: l’ambiente degli studi di Siena e di Bologna e figure e volti – tratti spesso da quotidiane, concrete esperienze – consegnati al sorriso faceto, alla voluttuosa compiacenza, all’avventuroso sguardo e anche alla malinconia dell’autore. Nella disposizione pittorica, che oltrepassa il racconto e diviene sonora, plastica o scenica, il Panormita ci dischiude un mondo a volte costruito con sapiente retorica, ma spesso rivissuto nella trovata, nell’episodio salace (notevole la variopinta gamma di piccanti figure di donne: Giannetta, Anna, Elisa ed altre) e, specialmente, nel colore che vibra ancora dopo che su quel mondo di facili amori e di bizzarre vicende è caduto il sipario[5]».

Come è facile comprendere, per il suo contenuto lascivo e per le modalità con cui era trattata la materia erotica, fin dalla sua prima pubblicazione l’Hermaphroditus suscitò l’interesse degli intellettuali, ma anche le più violente critiche da parte dei frati predicatori e dei pensatori francescani. «Nell’ambiente umanistico, a cui il libro si rivolgeva, le reazioni furono diverse e contraddittorie. Per i letterati educati al culto dei classici e della forma, non si trattava soltanto di condannarne il contenuto immorale – epicureo secondo alcuni – che spingeva al peccato, ma di giudicarne l’operazione letteraria, e di entrare nel merito del rapporto con i modelli. […] In un momento estremamente ricettivo e dinamico dell’umanesimo italiano, i versi impudichi dell’Hermaphroditus sollevavano la questione dell’imitazione della poesia giocosa e dei generi minori della letteratura antica – oscurati durante il Medioevo e che, riscoperti dal lavoro dei filologi, offrivano un ritratto diverso, più complesso e sfaccettato, della cultura dei maiores – mettendo al centro della discussione il tema della licentia consentita nella scrittura letteraria»[6]. Il Panormita, del resto, conscio del “terreno minato” in cui si muoveva la propria opera, aveva allegato ad essa una sorta di autodifesa, nella quale – oltre a giustificarne la presunta immoralità – esortava il pubblico a distinguere tra la finzione poetica ed il dato biografico e a non dedurre – per via degli argomenti trattati nei suoi epigrammi – ch’egli conducesse una vita lasciva. Grazie a questa distinzione tra arte e vita, egli poteva rivendicare in modo chiaro e deciso la piena libertà d’espressione della poesia e la liceità di trattare argomenti erotici e sconci senza pregiudizi morali e falsi sensi del pudore. Tuttavia, con l’ascesa al soglio pontifico di Eugenio IV[7] il libro fu censurato e bruciato sulle pubbliche piazze.

«La positività degli ottanta epigrammi dell’Hermaphroditus risiede forse proprio nell’incontro di un’esperienza reale (i cui termini sono rintracciabili facilmente nella cronaca cittadina) e di un abile divertissement letterario, che tuttavia non sempre riesce a bruciare l’impressione di un’oscenità spesso troppo compiaciuta, rilanciata e scandita da un tono preziosamente popolare. E la peculiare caratteristica dei libellus è appunto questo sollevare al dettato latino umanistico un fondo concreto e boccaccesco di vicende filtrate attraverso echi e presenze di pagine letterarie trecentesche. La molteplicità delle situazioni amorose (onde l’ambiguo titolo della raccolta) complica intenzionalmente il timbro dell’opera, cancellandone la linea unitaria e scheggiando i vari motivi in una colorata atomizzazione. L’iniziale ostentazione dell’autore (“Si mea charta procax, mens sine labe mea est”) suggerisce una lettura ambigua, perché spesso non è facile distinguere compiacimento fantastico e registrazione di un sicuro sentimento. Forse proprio per questa ragione molti episodi aprono un vero dialogo, più libero e più umanamente scontato, con la letteratura avvenire, di quanto lo stesso autore potesse immagmare. Ed anche la parola comunicativa e festevole del Beccadelli sa trovare qualche pausa narrativa (l’improvviso sopravvenire di un pensiero, un gentile momento, o una pennellata paesistica) nella quale la greve materialità di certa tematica approda a raffinati esiti letterari»[8].


Le altre opere

Singolare antologia di versi e prosa, il Poematum et prosarum liber è il primo esempio (per non dire l’unico) di antologia umanistica. L’opera nasce dalla volontà dell’autore di offrire ad Alfonso d’Aragona (al cui servizio, come s’è visto, confidava di entrare) un saggio della sua attività letteraria e una prova della sua cultura. Per tale motivo, le lettere incluse nel Poematum et prosarum liber vengono fortemente rimaneggiate allo scopo, divenendo una sorta di trattato, di divagazione sentimentale o erudita, di elzeviro su temi di universale interesse: l’amore, l’amicizia, il dolore, la malinconia dolce della solitudine. Ma non mancano anche prose di più ampio respiro e maggiore impegno, come apologie, elogi, polemiche e orazioni.

Di diverso stampo è il De dictis et factis Alphonsi regis, opera in cui – seguendo la sua più autentica disposizione naturale e la sua fantasia vivace ed arguta – il Panormita riesce ad esaltare la figura e la fama del sovrano aragonese. « In quest’opera, la vena epigrammatica dell’Hermaphroditus, e quella elegiaca delle liriche incluse, per es., nel Poematum et prosarum liber, riaffiorano costantemente nel tono generale, nella tecnica, nell’amore con cui sono colte e adagiate entro il tessuto narrativo certe scenette, nel taglio breve degli episodi, col felice risultato di esiti fulminei e ben angolati, tuttavia lontani dal pretenzioso e suggestivo richiamo alla lezione di Senofonte, con cui l’opera si apre. Assente qualsiasi ambizione storiografica, il De dictis si presenta esclusivamente come un vivace elogio del Magnanimo. Pertanto, pur sotto il frizzante abito dell’aneddoto o della sentenza i quattro libri del De dictis (i cui capitoli sono individualizzati dagli avverbi iuste, modeste, fortiter…), lungi dal respirare lo stesso spirito della storiografia umanistica, ricchi come sono di un linguaggio concreto e pittoresco, ci offrono un profilo del re Alfonso che, spogliato di ogni patina laudatoria, non è lontano dalla realtà storica»[9]. Frutto di analoga ispirazione è anche l’Alphonsi Regis triumphus, una breve operetta in prosa, che descrive il celebre trionfo del re aragonese, al suo ingresso in Napoli.

Il ricchissimo epistolario del Panormita è un documento basilare per la storia dell’umanesimo italiano, soprattutto in riferimento a quello meridionale, ma è anche una importante testimonianza della sua vita singolare ed inquieta. Esso è articolato in cinque raccolte e a tale sistemazione definitiva il Beccatelli lavorò fino alla morte. La prima, originariamente intitolata Liber familiarum, è costituita dalle Epistolae Gallicae, nelle quali il Panormita « si proponeva di parlare dei propri studi, della avventurosa giovinezza, delle relazioni letterarie, dei costumi del suo tempo: documentazione interessante di una celebrità ottenuta e riconosciuta e ancor più impreziosita dai nomi illustri dei corrispondenti. La possibilità di ricostruire in molti casi la prima stesura delle lettere, raccolte dai destinatari, ci permette di verificare anche nell’epistolario del Beccadelli quel passaggio dalla lettera‑documento di vita e di letteratura alla lettera‑esercizio di stile o testimonianza letteraria rivolta ai “posteri”, già documentata in altri epistolari umanistici come quello del Petrarca e quello di Enea Silvio Piccolomini»[10]. La seconda raccolta, intitolata Campanarum epistolarum liber, raduna parte delle lettere inviate all’Aurispa e ad Alfonso d’Aragona. Minore interesse hanno, invece, la terza e la quarta raccolta – Alphonsi regis epistolae et orationes per Antonium Panormitam e Ferdinandi regis epistolae et legationes per Antonium Panormitam – in quanto in esse vi si trovano lettere scritte per motivi d’ufficio o commissionate dal sovrano. L’ultimo libro, infine, Quintum epistolarum volumen, compilato probabilmente attorno al 1465, ci offre una interessante documentazione riguardante il regno del Magnanimo.

Non vanno poi dimenticate «le numerose poesie composte lungo tutta la sua vita (ma specialmente nel primo periodo): nell’arco breve, dell’epigramma, nel lapidario giro dell’epitaffio o nel dolce canto dell’elegia (Laus Elisiae, Laus Ambrosiae)la voce del Beccadelli conserva sempre il suo peculiare timbro inciso nel vivace colore e nel ritmo elegante»[11].

 

*** NOTE ***

 

[1] Alfonso di Trastámara, detto il Magnanimo (Medina del Campo, 1394 – Napoli, 27 giugno 1458) era figlio primogenito di Ferdinando I, re d’Aragona di Sicilia e Sardegna, e di Eleonora d’Alburquerque. Succeduto al padre (1416), nel 1421 venne adottato dalla regina di Napoli Giovanna II d’Angiò, ma alla morte di lei (1435) la successione gli fu contrastata da Renato d’Angiò, appoggiato da Milano, Firenze e Venezia. Sconfitto e preso prigioniero con i fratelli a Ponza dai Genovesi, venne consegnato al duca di Milano Filippo Maria Visconti e fu imprigionato. Quando Alfonso ottenne di essere ricevuto dal duca, riuscì a persuadere il Visconti a lasciare andare liberi lui e i suoi fratelli senza il pagamento di un riscatto, e – facendogli comprendere che non era interesse di Milano impedire la vittoria aragonese – si accordò con questi, cosa che gli consentì di occupare Napoli, inaugurando il dominio aragonese su tutto il Mezzogiorno d’Italia.

[2] Prende questo nome un cospirazione messa in atto (1485-1486) da alcuni aristocratici napoletani contro il re Ferdinando I, al fine di frenarne l’opera di modernizzazione dello stato, i cui cardini erano la riduzione del potere baronale, lo sviluppo della vita economica e la promozione a classe dirigente dei nuovi imprenditori e mercanti napoletani.

[3] Raccolta anonima di 95 carmi latini, per lo più di inni e epigrammi di carattere salace, dedicati a Priapo, dio agreste della fertilità.

[4] La raccolta dei carmi catulliani, il Liber, dedicato a Cornelio Nepote, comprende 116 componimenti: le nugae (inezie) costituiscono i primi 60, in cui predominano argomenti legati all’esperienza personale del poeta, quali l’amore, l’amicizia, le preferenze letterarie, gli avversari.

[5] Gianvito Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970.

[6] Marta Barbaro, La lascivia delle parole Beccadelli, Bracciolini e il dibattito sull’«Hermaphroditus», in http://www.griseldaonline.it/temi/pudore/lascivia-parole-hermaphroditus-barbaro.html

[7] Gabriele Condulmer (Venezia, 11 luglio 1383 – Roma, 23 febbraio 1447), divenuto papa con il nome di Eugenio IV il 3 marzo 1431.

[8] Gianvito Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970.

[9] Gianvito Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970.

[10] Gianvito Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970.

[11] Gianvito Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970.


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