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Marco M. G. Michelini | 24 Ottobre 2016

Giovanni Aurispa

Nato a Noto verso la metà del 1376, tra il 1390 e il 1402 visse a Napoli: soggiorno di cui serbò sempre un  lieto ricordo. Tornato in Sicilia, riuscì ad ottenere dal re Martino II una borsa di studio per recarsi all’Università di Bologna, dove rimase alcuni anni, impegnandosi nello studio del diritto civile. Successivamente, intraprese un primo viaggio verso l’Oriente e nel 1413, come testimonia un suo epigramma, fece tappa a Chio, dove acquistò un codice di Euripide e Sofocle. E fu durante questo viaggio che egli ebbe modo, non solo di procurarsi parecchi altri manoscritti, ma di imparare anche la lingua greca. Al suo ritorno in Italia, nel 1414, egli si stabilì a Savona, dove aprì e diresse un pensionato scolastico, ma continuò a recarsi più volte a Bologna, a Firenze e a Pisa per vendere i codici che aveva portato dal suo viaggio in Oriente.

Nel 1419, quando papa Martino V fu di passaggio a Firenze, riuscì ad entrare alla corte pontificia. Così nel 1420 andò a Roma; ma l’anno seguente era di nuovo in viaggio per l’Oriente con una missione di Gian Francesco Gonzaga presso l’Imperatore Manuele II Paleologo. Giunto a Costantinopoli, entrò nelle grazie del figlio dell’Imperatore, Giovanni VIII Paleologo, che lo nominò suo segretario e poi, nel 1423, lo condusse con sé in un viaggio diplomatico presso le corti d’Europa. L’Aurispa, però si limitò ad accompagnare l’Imperatore solo nelle prime tappe del suo viaggio: si fermò infatti a Milano, poiché aveva ricevuto offerte allettanti per i preziosi codici greci che aveva portato con sé dall’Oriente.

Nel 1425, dopo aver insegnato un anno a Bologna, venne chiamato ad insegnare greco nello Studio Fiorentino. Ma già nel febbraio del 1426 egli confessava, in una lettera all’amico Guarino la sua delusione: sembra, infatti, che i Fiorentini non fossero contenti sia delle sue scarse capacità didattiche, sia dei suoi astuti comportamenti di abile mercante di manoscritti. Per qualche tempo l’Aurispa fu indeciso se restare a Firenze o trasferirsi altrove. Scelse alfine di recarsi a Ferrara, in qualità di precettore di uno dei figli naturali del marchese Niccolò III d’Este. E Ferrara rimase fino alla morte la sua sede definitiva, anche se da essa l’Aurispa si allontanò parecchie volte, soprattutto per espletare delle missioni che gli venivano affidate sia dagli Estensi che dalla Curia pontificia. Nel 1433 accompagnò il figlio di Niccolò III, suo allievo, al concilio di Basilea. Da lì mosse per un viaggio lungo il Reno, durante il quale riuscì a scoprire importanti codici latini. Negli anni successivi visse tra Firenze, Ferrara, e Roma. Morì a Ferrara, verso la fine di maggio del 1459.

L’Aurispa, coetaneo di Leonardo Bruni, può essere considerato un umanista di prima generazione, che non si distingue tuttavia né per l’impegno civile, né per le sue qualità morali, né per quelle letterarie. Egli è un uomo di pochi scrupoli, come molti mercanti dell’epoca, che in Roma si macchinò loschi intrighi ai danni di altri umanisti. Le sue doti di letterato si possono dunque riassumere in una buona conoscenza del latino e del greco, che entrambe traspaiono dai suoi scritti che ci sono pervenuti: alcuni epigrammi latini, alcune traduzioni dal greco in latino (soprattutto da Luciano e da Plutarco), il dialogo De conquestu Virtutis, il volgarizzamento del trattato De nobilitate[1], e un centinaio di lettere in latino. Ma al di là di queste due doti linguistiche, dagli scritti non traspare certo una personalità vigorosa di scrittore, paragonabile a quella di altri suoi contemporanei; e persino le epistole, che pure mostrano qualche pagina di autentica vivacità, conservano una certa importanza solo dal punto di vista documentaristico.

Il valore dell’Aurispa e il suo contributo culturale all’interno dell’Umanesimo deve dunque essere ricercato sul piano soltanto della raccolta e della diffusione degli antichi codici. Non è un caso infatti che egli, con il Bracciolini, sia il più grande scopritore di testi antichi di tutta l’epoca umanistica. Non si può negare certo che l’Aurispa, al contrario di Poggio, faccia questo soprattutto per meschino interesse, per quell’istinto da mercante e da uomo d’affari che sarà il tratto distintivo della sua intera esistenza. Ma accanto alla ricerca del guadagno e del profitto, accanto all’oculatezza con cui egli sapeva condurre il proprio commercio, vi è anche – tuttavia – una bramosia semplice e schietta per il manoscritto antico in quanto tale, una curiosità da investigatore, una cupidigia da collezionista, che – senza mai trasformarsi nell’approfondito interesse dell’uomo di cultura – hanno in sé, come ha notato il Bigi, un qualcosa di erotico.


Giannozzo Manetti

Nato a Firenze il 5 giugno 1396 da Bernardo, ricco e brillante mercante, e da Petra Guidaccia, cominciò a lavorare presso il padre, tenendo i libri del banco, ed iniziò a studiare assiduamente solo nel 1420-21. Frequentò il convento agostiniano di S. Spirito, dove ebbe come maestri i frati Girolamo da Napoli ed Evangelista da Pisa. Studiò poi presso il convento camaldolese di S. Maria degli Angeli, sotto la guida di Ambrogio Traversari, avendo come compagno di studi, tra gli altri, il futuro papa Niccolò V, di cui in seguito il Manetti divenne segretario, scrivendone pure un’importante biografia. Qui probabilmente approfondì la conoscenza del greco e intraprese lo studio dell’ebraico, che continuò a studiare e a praticare durante tutto il corso della sua vita, grazie all’aiuto di maestri privati.

Nel 1427 sposò Alessandra Tebalducci, dalla quale ebbe sette figli: quattro maschi e tre femmine. In quegli anni (tra il 1421 e il 1429, anno in cui viene eletto per la prima volta a un incarico pubblico) si dedicò prevalentemente alla sua vocazione di studioso e alla gestione del patrimonio familiare, rimanendo comunque piuttosto defilato dalla vita politica fiorentina fino al momento del ritorno a Firenze di Cosimo de’ Medici. Successivamente ricoprì numerose cariche come uomo politico e come ambasciatore, ma fu anche vicario in Valdinievole, a Pistoia e nel Mugello. In tali incarichi di carattere amministrativo nei territori del dominio fiorentino, Manetti seppe distinguersi per la capacità e la pazienza che metteva nel ricomporre liti e controversie, attraverso il dialogo e la ricerca del compromesso tra le parti in conflitto.

Nel 1453 il M. fu incaricato di recarsi a Roma presso il Papa, per quella che diventerà poi la sua ultima ambasceria fiorentina. A causa, infatti, di quella che egli definì una congiura nei suoi confronti da parte di alcuni nemici che si trovavano a Firenze, Manetti decise di non tornare in città e di rimanere presso Niccolò V, che (come s’è già detto) lo nominò suo segretario. I reali motivi per i quali Manetti decise di abbandonare Firenze per restare a Roma non sono stati ancora oggi completamente chiariti. Forse si era rifiutato di pagare forti somme all’esoso sistema fiscale fiorentino, oppure era venuto in urto con Cosimo de’ Medici, del quale – pur avendo a lungo collaborato con lui – non condivideva le scelte in politica estera, in un periodo di alleanze fluttuanti e spesso destinate a durare periodi molto brevi. Il fatto è – comunque – che Manetti vive (come altri umanisti fiorentini) in un momento di crisi della sua città, cioè negli anni in cui avviene il passaggio dalla forma di governo repubblicana alla Signoria dei Medici, e che questa crisi egli riassume e simboleggia in sé.

Morto Niccolò V, nel 1455 lasciò Roma e si trasferì definitivamente a Napoli per porsi al servizio di Alfonso V d’Aragona, che gli assegnò una rendita di 900 fiorini d’oro. In questi ultimi anni della sua vita[2], sebbene non facesse più ritorno a Firenze, Giannozzo Manetti non spezzò definitivamente i rapporti con la propria città tanto che nel 1456 e nel 1458, per conto del governo fiorentino, condusse con re Alfonso delle trattative su alcune questioni riguardanti le attività mercantili fiorentine a Napoli.

Espertissimo in latino, greco ed ebraico, fece importantissime traduzioni soprattutto in queste ultime due lingue, e fu anche tra i primi a raccogliere manoscritti in lingua ebraica. Perfetto esempio di fusione tra una vita politicamente attiva ed una vita contemplativa, Giannozzo Manetti ha lasciato una grande quantità di scritti, nei quali si fondono il suo spirito religioso e il valore che egli attribuiva alla cultura degli antichi e dei moderni. Il suo testo più famoso rimane comunque il De dignitate et excellentia hominis, scritto come risposta e completamento – per volere del re Alfonso V – alle teorie esposte nel De excellentia ac praestantia hominis di Bartolomeo Fazio[3]. Il tema della dignità dell’uomo non era nuovo: sorto già con Cicerone era stato ripreso dai Padri della Chiesa ed era continuato per tutto il Medioevo. Nella sua opera il Fazio aveva affermato in modo del tutto tradizionale che la superiorità dell’uomo consisteva esclusivamente nel suo destino ultramondano. Manetti, al contrario, reagì a tale affermazione rivendicando il valore dell’uomo anche nei suoi aspetti terreni. Come scrive giustamente il Garin, la novità del Manetti consiste nella consapevole presa di posizione contro quel giudizio che tendeva a svalutare la corporeità della natura umana, i suoi limiti, il suo essere esposta alle malattie e alla morte. Tanto che nel quarto libro, in aperta polemica con il De contemptu mundi di Innocenzo III, egli – continua sempre il Garin – intende riconsacrare la vita, e, soprattutto, sottolineare la capacità di fare insita nell’uomo, la capacità di costruire e di ottenere con le proprie opere tutto ciò che per nascita gli è stato negato. Manetti, insomma, offre un più vivo e nuovo valore al mondo della sapere, della civiltà e dell’arte, ad una cultura dell’uomo basata più sul fare che sull’essere. Una cultura che inevitabilmente coincide con gli studia humanitatis, intesi non come semplice cambiamento di metodi educativi e di gusti artistici, bensì come via per giungere ad una rinnovata visione dell’uomo e del suo significato nel mondo.

Un aspetto particolarmente originale della produzione letteraria di Gianozzo Manetti è rappresentato dalle biografie. Intorno al 1440, egli scrisse la Vita Socratis et Senecae (due biografie parallele, sul modello delle Vite di Plutarco, in cui i due scrittori sono raffigurati in quanto depositari della saggezza umana e della capacità che l’uomo può avere di elevarsi attraverso la conoscenza della realtà e del suo animo), le Vitae Dantis et Petrarchae ac Boccaccii, il De illustribus longevis, e, nel 1455, la più nota De vita ac gestis Nicolai quinti summi pontificis, rilevante per il ricorso che Manetti poté fare a fonti di prima mano (i diretti racconti del pontefice, di persone a lui vicine e i documenti provenienti dalla Curia).

L’opera più complessa del Manetti è senz’altro l’incompiuta Adversus Iudaeos et Gentes, per la quale egli richiamò direttamente alla tradizione apologetica degli antichi Padri della Chiesa, e soprattutto al De praeparatione Evangelica di Eusebio di Cesarea, che era stato appena tradotto in latino dal Trapezunzio. Per Manetti l’antico Israele, quello anteriore alla vicenda mosaica, è degno di un giudizio positivo, mentre resta sullo sfondo la visione della storia di Israele totalmente allegorica, che vedeva nel popolo ebraico e nelle sue vicende solo una figura della storia narrata nei Vangeli. L’opera, alla quale il Manetti lavorò fino alla fine della sua vita, era prevista in venti libri, ma ne furono completati solo dieci. I primi quattro libri sono dedicati alla storia fino alla venuta di Cristo, quindi alla storia ebraica e a quella pagana, e alla storia di Cristo. I sei libri successivi sono dedicati alla storia del cristianesimo, che è esemplificata attraverso il racconto delle vite di illustri cristiani: scrittori di cose sacre e di cose profane, vergini e martiri e confessori.

Tutte le opere del M. sono caratterizzate da un alto livello di elaborazione retorica, che talvolta arriva a limitare l’originalità dell’argomentazione e la novità dei contenuti, come nel caso del De dignitate et excellentia hominis. Un caso particolare è tuttavia rappresentato proprio dall’Adversus Iudaeos et Gentes che, per quanto incompiuta, elabora in modo originale non solo la polemica antiebraica e antigiudaica relativa alla storia degli ebrei postmosaica, ma anche, e forse soprattutto, il motivo della superiorità del cristianesimo rispetto alle altre civiltà, evitando complesse argomentazioni di carattere teologico per soffermarsi invece sugli esempi più notevoli di uomini illustri cristiani.


Lorenzo Valla

Lorenzo Valla nacque a Roma nel 1407 da una famiglia di origini piacentine attiva nella curia romana: il padre era avvocato concistoriale, lo zio materno era segretario apostolico. La sua formazione culturale avviene in ambiente umanistico, ma senza seguire regolari studi universitari: suoi maestri furono Leonardo Bruni e Giovanni Aurispa. A vent’anni scrisse la sua prima polemica letteraria, oggi perduta: De comparatione Ciceronis Quintilianique, nel quale – andando contro all’idea corrente – elogiava il latino di Quintiliano a scapito di quello di Cicerone. Nel 1430, fallito il tentativo di succedere allo zio nella carica di segretario apostolico, lasciò Roma per Pavia dove, su invito del Panormita, insegnò retorica nello Studio: furono anni di vita intensa e tumultuosa, fondamentali per lo sviluppo del suo pensiero; la città era infatti un centro culturale vivissimo e Valla poté approfondire le sue conoscenze giuridiche, osservando inoltre l’efficacia del procedimento di analisi critica dei testi, che lo Studio pavese applicava con rigore. A Pavia compose e pubblicò il De Voluptate – che subirà in seguito vari ampliamenti e trasformazioni, anche nel titolo[4] – nel quale sosteneva la possibilità di conciliare il Cristianesimo, ricondotto alla sua originarietà, con l’edonismo, recuperando così il senso del pensiero di Epicuro e Lucrezio, che avevano sottolineato come tutta la vita dell’uomo sia fondamentalmente volta al piacere, inteso non come istintività, ma come calcolo dei vantaggi e svantaggi conseguenti ad ogni azione. Tuttavia, a conclusione dell’opera, Valla rimarcava che per l’uomo la suprema voluttà consisteva nella ricerca spirituale e nella fede in Dio.

Sempre a Pavia pubblicò anche l’Epistola de insigniis et armis contro il giurista Bartolo da Sassoferrato[5], accusandolo di spiegare il diritto romano senza alcun riguardo per la storia, la cultura e la lingua latine. La veemente reazione dei giuristi, che giunsero al punto di assalirlo per strada, costrinse Lorenzo Valla ad abbandonare il pavese (1433) e, dopo brevi soggiorni a Milano, Firenze e Genova, a stabilirsi (1435) alla corte di Alfonso V d’Aragona, divenendone il segretario. Alfonso V era allora impegnato nella conquista del regno di Napoli, quindi Valla dovette seguire il suo signore fra battaglie e peregrinazioni, fra servizi di corte e mansioni varie, senza mai trovare la serenità necessaria agli studi. Tutto questo, comunque, non gli impedì di portare a compimento (fra il 1438 e il 1442) quattro grandi opere: il De libero arbitrio, con il quale aprì nell’età moderna il problema della libertà umana; la Dialectica, opera ambiziosa e rivoluzionaria sulla logica; il De professione religioso rum, che aggredisce l’etica monastica come irreligiosa e antisociale; e il celebre De falso credita et ementita Constantini donatione, in cui dimostrò, con ragioni filologiche e storiche, la non autenticità del documento che avrebbe comprovato la donazione di territorio fatta da Costantino alla Chiesa, e quindi il diritto dei pontefici al potere temporale[6].

Nel 1442 Alfonso d’Aragona, accordatosi col papa, ottenne il regno di Napoli ma, nonostante ciò, il Valla vide i suoi nemici farsi più forti; tanto che – avendo egli negato che il Credo fosse stato composto dagli Apostoli con un versetto ciascuno – fu convocato davanti all’In­quisizione di Napoli, e poté salvarsi solo grazie all’intervento di Alfonso. Accusato comunque nuovamente di sospetta eresia dai suoi avversari, si difese con una vasta produzione di opuscoli polemici, e nel contempo portò a compimento varie traduzioni dal greco e scrisse in latino i tre libri Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae, che scatenò una violenta polemica con l’umanista ligure Bartolomeo Fazio.

Morto Eugenio IV e succedutogli Niccolo V, il Valla ritornò a Roma e divenne segretario apostolico. A Roma terminò le Collationes (revisione critico-filologica dei Testi Sacri che Erasmo farà stampare agli inizi del Cinquecento) e pubblicò la sua opera più famosa, le Elegantiae (analisi della lingua latina ed esaltazione del suo valore come frutto fondamentale della civiltà romana). Anche quest’opera scatenò polemiche fra i letterati: particolarmente gravi quelle con Poggio Bracciolini, da cui nacque una serie di reciproche accuse e ingiurie (tanto che il Bracciolini abbandonò Roma e andò cancelliere a Firenze). Morto nel 1455 Niccolò V il Valla ottenne benefici ancora maggiori dal successore Callisto III. Negli ultimi tempi scrisse dei sermoni di fervida meditazione religiosa. Morì nel 1457.

Uomo portato al risentimento e al rancore, superbo e fiero della propria superiorità intellettuale, il Valla costituisce la punta più avanzata di quello spirito critico che è la massima conquista storico-culturale dell’Umanesimo. Lottò tutta la vita contro idoli e ipocrisie, superstizioni e leggende: contro la dialettica aristotelica e la scolastica, contro la vanità della vita ascetica e le falsificazioni storiche della religione, contro il potere temporale della Chiesa e il corrotto latino della tradizione ecclesiastica. Strumento base di questa implacabile azione demistificatoria è per il Valla l’analisi del linguaggio, cioè l’indagine filologica dei testi, dei documenti, dei fatti storici: anche in questo senso perciò egli porta al più alto livello teorico e pratico quella filologia che fu la grande scoperta degli umanisti. Una filologia, appunto, che in lui non rimane vuoto estetismo verbale, come in molti letterati, ma diviene strumento vitale per abbattere i falsi miti del Medioevo.

Due temi essenziali sono alla base del suo pensiero: da una parte la polemica contro la falsificazione del cristianesimo e la corruzione dei suoi istituti storici, al fine di rivendicare una maggior libertà interiore del cristiano; dall’altra una ricerca del significato più vero del mondo latino, attraverso l’analisi del linguaggio nei documenti letterari e giuridici. Questi due temi, che si integrano tra di loro, della libertà del cristiano e del significato del linguaggio, sono diffusamente trattati con una assenza di pregiudizi e una autonomia critica che non hanno eguali per tutto il secolo. Per cui, come nota il Garin, sulla linea erasmiana, certo con minori facoltà intuitive, forse con maggiore capacità di approfondimento, ma senza dubbio con l’ardire del pioniere, Valla si colloca al centro dei movimenti preriformatori, tramite ideale fra l’inquietudine dei Concilii e la rivolta cinquecentesca.

 

Marsilio Ficino

Nato a Figline Valdarno nel 1433 fu allievo del celebre Niccolò Tignosi[7]. Attorno al 1452 strinse amicizia con Cosimo de’ Medici, dal quale – affinché si dedicasse in tranquillità alla traduzione in latino di tutte le opere di Platone[8] – ebbe in dono una villa a Careggi.

Scrisse il De voluptate, con qualche sfumatura lucreziana; ma nel 1473 prese gli ordini sacri e da quel momento orientò sempre più il suo pensiero platonico in direzione cristiana. Nel 1474 compose il De cristiana religione (che egli stesso tradusse poi in volgare), nella quale comincia a sviluppare quella concezione di pia philosophia o docta religio, nella quale religione e filosofia aspirano a confondersi in una concezione riconciliata e in cui tutte le dottrine religiose e filosofiche sono percepite unitariamente, come aventi – cioè – una loro unica origine spirituale. La sua opera fondamentale è, tuttavia, la Theologia platonica, terminata, dopo una lunga elaborazione, nel 1482, nella quale egli fissa, in una sorta di summa del platonismo, non solo tutte le articolazioni del proprio pensiero circa il senso dell’uomo e dell’anima individuale, ma anche una sistemazione puntigliosa e funzionale della tradizione filosofica e medievale, senza per questo ignorare il tomismo.

Vanno ricordate inoltre, tra le opere minori, il De sole, un’operetta in volgare sul Simposio di Platone che ebbe parecchia fortuna, alcune lettere e il De vita, in cui rivelava il proprio interesse per la magia e per l’astrologia. E proprio a causa del De vita, nel 1489 fu invano accusato di eresia dalla curia romana. Negli ultimi anni di vita, il suo pensiero fu lievemente influenzato dal Savonarola, dal quale, però, si distaccò rapidamente. Morì a Careggi nel 1499.

Il Ficino propugnò e diffuse il proprio pensiero non solo attraverso le sue opere, ma anche e soprattutto attraverso le numerose lettere, che gli permisero di stabilire una vasta rete di rapporti culturali sia in Italia che in Europa. Le sue traduzioni di Platone e dei neoplatonici greci, condotte con cura estrema ed eleganza, per oltre due secoli continuarono a circolare e ad essere lette in tutta Europa. A Careggi fondò anche, nel 1474, l’Accademia fiorentina, vero e proprio centro intellettuale ispirato al platonismo che rivestì un’importanza primaria e attorno al quale si raccolsero personaggi di spicco, quali Angelo Poliziano, Lorenzo il Magnifico e Pico della Mirandola.

Come è stato rilevato, nel pensiero del Ficino domina una metafisica della luce; Dio, che è verità delle cose, «è un immenso lume d’una assolatissima intelligenza» che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le cose». Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in  lui…  Iddio  è  principio, perché da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono». Dietro tutte le rappresentazioni visibili di Dio che Permeano l’universo, il sapiente riesce a cogliere la verità più autentica. Se l’uomo è immagine di Dio, l’arte, la poesia, è immagine del mondo; «e come Dio si incarna nella molteplicità del creato assumendo una veste sensibile, così il poeta esprime e cela le sue verità sotto il mantello multicolore della sua arte, allo scopo tanto di vietare agli impuri l’accesso alla sapienza, quanto di ricreare (assimilandosi pertanto a Dio, sia pure in un gradino più basso della scala dell’essere) quel continuo, circolare processo di diffrazione dell’Uno nel molteplice e di ritorno del molteplice all’Uno che costituisce il ritmo vitale dell’universo. Per tale motivo il filosofo (e ne dette prova egli stesso con la sua curatissima prosa) non potrà essere anche poeta, e dovrà fare largo spazio ad artifici, numeri, simboli e immagini propri del poeta; il quale a sua volta sarà filosofo e teologo, giacché dietro alle sue favole adombrerà i segreti del cosmo. Al fondo di queste affermazioni risiede un’idea della conoscenza non come analisi razionale delle cose, ma come contemplazione del vero attingibile solo da chi, riconosciuta la presenza divina in sé e nel mondo, riesce a sollevarsi al di sopra della multiformità fenomenica, ricongiungendosi a Dio grazie alla forsa di quell’amore che scaturisce dalla bellezza; la quale altro non è se non la manifestazione di Dio stesso, che con essa induce l’uomo a ricercare la fonte eterna del suo essere»[9].

E forse, più che in una concezione originale, è proprio nella ricchezza delle immagini e dei simboli in cui si accentua il carattere estetico della visione del mondo, che va ricercata la peculiarità del Ficino. I temi dell’amore, della bellezza, del sole, della luce, della vita, dell’anima, della natura come artefice interno, i motivi magici e astrologici, assumono un ruolo fondamentale nella poetica e nel suo pensiero, così come l’allegoria, con tutte le sue risonanze sul piano delle arti figurative e della poesia. E tutti diverranno luoghi comuni della letteratura europea, unitamente al gusto di una prosa ricca di immagini, fitta di allusioni e, a volte, quasi cifrata.


Pico della Mirandola

Giovanni Pico nacque il 24 febbraio 1463 da Gianfrancesco I, Signore di Mirandola e Conte della Concordia (1415-1467), e sua moglie Giulia, figlia di Feltrino Boiardo, Conte di Scandiano. La famiglia Pico aveva abitato a lungo il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente nel XIV secolo e aveva ricevuto nel 1414 dall’imperatore Sigismondo il feudo di Concordia.

Nel 1477, all’età di quattordici anni, Giovanni si recò dapprima a Bologna per studiare diritto canonico, poi a Ferrara (1479), Padova (1480) e Pavia (1482). Nel 1484 si stabilì a Firenze dove ottenne la protezione di Lorenzo de’ Medici ed entrò a far parte dell’Accademia Platonica fondata dal Ficino, il che gli diede modo di stringere rapporti di amicizia con numerose personalità dell’epoca. A questo periodo fiorentino risalgono due sue celebri lettere, una indirizzata a Lorenzo de’ Medici (nella quale lodava la sua poesia, anteponendola a quella di Dante e Petrarca) e una all’umanista e filosofo veneziano Ermolao Barbaro (in polemica con il quale difese l’importanza dei pensieri e dei contenuti contro la generazione retorica[10]). Nel 1485 si recò a Parigi, ospite della Sorbona, allora centro internazionale di studi teologici. Qui conobbe alcuni uomini di cultura, come Lefèvre d’Étaples[11], e ben presto divenne celebre in tutta Europa.

 Ritornato in Italia, si recò a Roma nel 1486 dove preparò novecento Conclusiones che intendeva discutere in un pubblico convegno di dotti: come sorta di introduzione al discussione scrisse l’ Oratio de hominis dignitate. Tuttavia il dibattito fu vietato e alcune Conclusiones venne giudicate eretiche, dando luogo ad un processo. Pico della Mirandola scrisse allora un’Apologia in sua difesa, ma successivamente fu costretto a fuggire in Francia, dove venne arrestato da Filippo II presso Grenoble e incarcerato a Vincennes. L’immediato intervento dei Medici gli consentì di riacquistare la libertà e di fare ritorno in Italia, ma venne però relegato sui colli di Firenze finché non fu perdonato da Papa Alessandro VI[12].

Nel 1489 scrisse l’Heptaplus, commento allegoricoin sette libri a primi ventisette versetti della Genesi, e il suo trattato filosofico maggiore, il De ente et uno, in cui mirava a realizzare la riconciliazione di aristotelismo e platonismo in una sintesi superiore, fondendovi anche altri elementi culturali e religiosi, come per esempio la tradizione misterica di Ermete Trismegisto[13] e della cabala, il tutto attraverso un’approfondita analisi storica e una sottile discussione speculativa.

Negli ultimi anni della sua vita continuò a frequentare l’accademia di Marsilio Ficino, intensificò l’amicizia con il Poliziano e si lasciò conquistare da una sempre crescente simpatia per il Savonarola e i suoi programmi di riforma morale e religiosa. Una vera ansia di rinnovamento spirituale pervade infatti i suoi ultimi scritti, che circoleranno in tutti gli ambienti d’Europa più religiosamente inquieti. Scrisse anche un’opera contro l’astrologia giudiziale o divinatrice[14], che credeva di poter sottomettere l’avvenire degli uomini alle congiunture astrali. Partendo dall’affermazione della piena dignità e libertà dell’uomo, che può scegliere cosa essere, Pico muove una forte critica a questo secondo tipo di credenze e di pratiche astrologiche, che costituirebbero una negazione proprio della dignità e della libertà umane. Per tali motivi egli venne dunque a scontrarsi con Giovanni Pontano, il quale – appassionato d’astrologia – ne aveva fatto oggetto di trattazione e motivo di ispirazione poetica.

Giovanni Pico della Mirandola, morì nel 1494, a soli trentuno anni, in circostanze misteriose[15], mentre Firenze veniva occupata dalle truppe francesi di Carlo VIII, e fu sepolto nel cimitero dei domenicani dentro il convento di San Marco.

Da tutte le opere di Pico della Mirandola «emergono chiaramente le linee di un pensiero fortemente personale in cui rifluisce una vastissima dottrina: conoscitore dell’aristotelismo arabo e scolastico, della tradizione platonica, della speculazione patristica e della mistica ebraica quale soprattutto si esprime nella cabala, Pico torna insistentemente sulla “concordia” fondamentale delle diverse filosofie (sulla traccia di Ficino), unificate dall’unico vero che di esse è principio e oggetto. La prospettiva platonica costituisce senza dubbio la nota dominante: Dio principio originario della realtà, assolutamente inaccessibile al pensiero eppure termine ultimo cui il pensiero tende, assolutamente altro eppure principio che regge nell’essere tutte le creature, ovunque presente; e torna il tema neoplatonico della “circolarità” del tutto che da Dio procede per riconvertirsi in lui. Attorno a questi temi Pico raccoglie le testimonianze così della tradizione neoplatonica come della patristica cristiana e della cabala […]. Tornano ovviamente, con tutte le suggestioni esoteriche, i motivi della magia, modo di conoscenza e di intervento nella realtà, la quale non è opaca materia, ma è tutta ravvivata da una vita, una mente: di qui la possibilità di colloquio che si istituisce tra l’uomo e le cose, ove l’uomo sappia appunto cogliere nelle cose il senso loro ultimo, la radice razionale e divina. Se nettissima è la difesa della magia come vertice del conoscere filosofico, altrettanto chiara e precisa la polemica contro l’astrologia: e non solo per sottrarre all’influenza dei cieli l’anima e la libertà umana, ma altresì per contestare la legittimità di istituire un rapporto preciso di causalità tra i cieli e gli eventi del mondo sublunare con la pretesa di poter prevedere il futuro leggendolo nei cieli. A tale polemica antiastrologica, come alle suggestioni ermetiche tanto presenti nell’epoca di Pico, si ricollega la sua celebre esaltazione della “dignità dell’uomo”: questa è fondata nella sua radicale libertà, garantita dal non essere l’uomo di una natura determinata, ma capace di darsi la natura che vuole, dal non avere limite né chiusura, dal suo essere aperto a tutto, capace di divenir tutto (attuando la propria infinita potenzialità), fino ad ascendere con il suo intelletto al termine ultimo, alla congiunzione con Dio; tema questo, dell’ultimo fine e felicità dell’uomo (che si raccorda con quello dell’incarnazione del Verbo come mediazione che ha reso possibile il recupero della dignità e dell’ultimo fine dell’uomo), in cui ancora una volta rifluisce, con una suggestione dell’averroismo sigieriano, l’insegnamento della mistica cristiana ed ebraica»[16].

Se l’ Oratio de hominis dignitate costituisce uno dei massimi testi dell’umanesimo, l’aspetto, comunque, più interessante e fondamentale della cultura di Pico della Mirandola è il profondo interesse verso lo studio dell’ebraico e della cultura orientale. Sulle orme del Manetti, ma – se possibile – con ancora maggior passione, diede grande impulso agli studi ebraici, cercando anche di imparare l’arabo e il caldeo e di approfondire (come s’è visto) lo studio della Cabala[17], e dei Libri ermetici[18], convinto di potervi trovare il segreto per decifrare il senso misterioso della Bibbia e il segreto della creazione. Tale fervore di studi nuovi contribuì, come scrive il Garin, a promuovere l’estensione al mondo orientale dei metodi e degli interessi che gli umanisti avevano limitato al mondo greco e latino, con conseguenze profonde principalmente nel campo degli studi religiosi. Il suo pensiero, ad un tempo mistico e razionalistico, pur non pervenendo ad una formulazione rigorosa, è animato da un’ansia spirituale vibrante e, in ultima analisi, mira a ritrovare in tutte le filosofie e religioni la coincidenza con la religione cristiana.

 

*** NOTE ***

 

[1] Scritto da Buonaccorso di Montemagno il Giovane (Pistoia 1391/93 – Firenze il 16 dicembre 1429), è un’opera in cui si finge che due personaggi, Publio Cornelio Scipione (di nobili natali) e Gaio Flaminio (di censo meno elevato), diano avvio a una disputa dinanzi al Senato sul concetto appunto di nobiltà.

[2] Morì a Napoli il 27 ottobre 1459.

[3] Bartolomeo Fazio (La Spezia, 1410 circa – Napoli, 1457), Figlio di Paolino, notaio e Cancelliere del Comune di Spezia, studiò a Verona, Firenze e Genova. Dal 1420 al 1426 fu allievo di Guarino da Verona, massimo grecista e latinista del tempo. All’inizio degli anni trenta fu notaio del Comune di Lucca e poi della Repubblica di Genova. Cancelliere ed ambasciatore della Repubblica di Genova durante il dogato del ghibellino Adorno, nel 1445, allorquando ci fu un capovolgimento politico a favore della fazione guelfa capeggiata da Giano di Campofregoso che divenne il nuovo doge, Bartolomeo si trasferì a Napoli, dove entrò alla corte di Alfonso V d’Aragona, come suo consigliere e segretario di Stato. Tra le sue opere principali il De rebus gestis ab Alphonso I Neapolitanorum rege libri X (1448-1455), il De bello veneto clodiano (pubblicato nel 1568) e i trattati morali De humanae vitae felicitate e De excellentia ac praestantia hominis.

[4] Da De Voluptate diventerà De vero bono e, nell’ultima più tarda revisione, De vero falsoque bono.

[5] Bartolo da Sassoferrato (Sassoferrato, 1314 – Perugia, 13 luglio 1357), discepolo di Raniero Arsendi da Forlì e di Cino da Pistoia, fu uno dei più insigni giuristi dell’Europa continentale del XIV secolo e il maggiore esponente di quella scuola giuridica che fu definita dei commentatori (o postglossatori). La venerazione delle successive generazioni di studenti del diritto è dimostrata dall’adagio: nemo bonus íurista nisi sit bartolista, non può essere un buon giurista chi non sia un bartolista.

[6] La falsità del documento era stata del resto già sostenuta dal cardinale Nicola Cusano (1401-1464).

[7] Niccolò Tignosi (?? – ??) celebre medico e filosofo aristotelico.

[8] Traduzione che il Ficino iniziò nel 1462.

[9] Mario Martelli, Quattrocento latino e volgare, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, pag. 56-57, Federico Motta editore, Milano, 2004.

[10] In particolare, il Barbaro sosteneva l’importanza e la necessità dell’eleganza formale anche negli scritti filosofici; il Pico, invece, rivendicava il valore dei filosofi scolastici che, rozzi nella stile, si erano preoccupati non già della veste linguistica del loro pensiero, bensì unicamente del contenuto concettuale. Tale lettera costituisce una presa di posizione importante contro quell’umanesimo deteriore che si occupava più di verba che di res, cioè più delle “parole” in se stesse, che non delle “cose”.

[11] Jacques Lefèvre d’Étaples (Étaples, 1450 ca – Nérac, tra il 1536 ed il 1538), presbitero, teologo, umanista, filosofo francese, noto anche con il nome di Jacobus Faber Stapulensis. Profondamente influenzato dal neoplatonismo, fu uno dei traduttori della Bibbia in francese.

[12] Roderic Llançol de Borja, (Xàtiva, 14 gennaio 1431 – Roma, 18 agosto 1503), salito al soglio di Pietro nel 1492, fu uno dei papi rinascimentali più controversi, anche per aver riconosciuto la paternità di vari figli illegittimi, fra cui i famosi Cesare e Lucrezia Borgia, tanto che il suo cognome valenziano, italianizzato in Borgia, è diventato sinonimo di libertinismo e nepotismo, che sono tradizionalmente considerati come le caratteristiche del suo pontificato.

[13] Ermete Trismegisto è un personaggio leggendario di età pre-classica, venerato come maestro di sapienza e ritenuto l’autore del Corpus hermeticum. A lui è attribuita la fondazione di quella corrente filosofica nota come ermetismo.

[14] Disputationes adversus astrologiam divinatricem, pubblicata postuma dal nipote nel 1496.

[15] Alcuni sostennero che fosse stato avvelenato.

[16] In http://www.treccani.it/enciclopedia/pico-della-mirandola-giovanni-conte-di-concordia/

[17] Dottrina elaborata nel II a.C. secolo presso il popolo ebraico, che, mediante segni mistici, pretendeva di spiegare l’origine delle cose e di risalire la verità eterna.

[18] Opere di carattere essenzialmente filosofico e religioso sulla natura e gli attributi della divinità, a quanto pare scritte verso il II-III secolo d.C.


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