Poggio Bracciolini
Giovanni Francesco Poggio Bracciolini era nato a Terranova in Valdarno nel 1380 da Guccio, notaio e farmacista. In gioventù si trasferì a Bologna per compiere studi giuridici, ma a causa delle ristrettezze economiche,dovute ad un rovescio finanziario del padre, fu costretto ad abbandonare gli studi e a fare ritorno in Toscana. Si trasferì a Firenze, dove intraprese gli studi notarili e, per mantenersi, iniziò al lavorare come copista. Anzi, nel 1408, fu il primo a sviluppare ed introdurre quella nuova calligrafia umanistica che soppiantò la vecchia e antiquata grafia gotica.
A Firenze strinse amicizia con molti dei più noti umanisti, tra i quali Coluccio Salutati, che divenne il suo mentore, avviandolo allo studio del greco e del latino. Nel 1403 Poggio si trasferì a Roma, divenendo scrittore (abbreviator) di Papa Bonifacio IX, grazie ad una raccomandazione del Salutati, e successivamente segretario personale, dell’antipapa Giovanni XXIII, eletto al Concilio di Pisa. Contemporaneamente iniziò anche quella ricerca di testi e codici antichi per cui divenne giustamente famoso.
A causa delle vicissitudini del Grande Scisma d’Occidente (1378-1417), si recò, al seguito di Giovanni XXIII, al Concilio di Costanza (1414-1418), trovandosi a viaggiare tra la Germania e la Francia, soprattutto per seguire i lavori del concilio. E proprio durante questi viaggi compì le sue scoperte più celebri: dapprima, a Cluny, due orazioni ignote di Cicerone, poi, nell’abbazia di S. Gallo, l’Institutio oratoria di Quintiliano e le Argonautiche di Valerio Flacco, e infine, in varie città francesi e tedesche, il Dererum natura di Lucrezio, gli Astronomica di Manlio, i Punica si Silio Italico, oltre a moltissime opere minori. Sempre in quest’epoca scrisse anche alcune delle sue lettere più belle.
Ma il Concilio di Costanza si concluse con la deposizione di Giovanni XXIII, e il Bracciolini fu nuovamente retrocesso al ruolo di abbreviator, venendo ben presto in urto con l’ambiente della curia romana. Per tali motivi, nel 1418 lasciò il proprio incarico a Roma e si recò in Inghilterra al seguito del cardinale Enrico Beaufort, vescovo di Winchester, dove rimase quattro anni. Nel 1423 ritornò in Italia e durante il viaggio verso Roma passò per Colonia dove scoprì una copia della Cena Trimalchionis, excerptum dal Satyricon. A Roma fu reintegrato nel suo incarico di segretario apostolico da Papa Martino V, ruolo che continuò a ricoprire anche con i successori Eugenio IV e Niccolò V, fino al 1453. Oltre che nel suo lavoro di segretario apostolico, fu attivissimo anche fu attivissimo anche nel mondo culturale dell’epoca, sia come gestore di uno scriptorium, sia come traduttore[1], sia come scrittore di dialoghi d’argomento morale, sia come polemista con i più illustri umanisti del tempo.
Nel 1436, all’età di cinquantasei anni, dopo aver condotto a lungo una vita libertina e aver avuto tre figli naturali, si sposò con la diciottenne Selvaggia (Vaggia) Buondelmonti, appartenente ad una famiglia della nobiltà feudale fiorentina, che gli diede sei figli (cinque maschi ed una femmina); e, per spiegare questa sua scelta alquanto tardiva di formarsi una famiglia regolare, scrisse il dialogo An seni sit uxor ducenda. Nel 1453, a seguito delle polemiche con il Valla[2], abbandonò la curia romana per fare ritorno a Firenze, presso i Medici, dove – come già il suo maestro Coluccio – ricoprì la carica Cancelliere della Repubblica fiorentina per cinque anni. Morì il 30 ottobre del 1459, pochi mesi dopo la giovane moglie[3], e fu sepolto in Santa Croce a Firenze.
Famoso scopritore di testi classici che erano stati dimenticati in epoca medievale, Poggio Bacciolini recuperò in tal modo una visione della vita legata ad Epicuro e a Lucrezio, ma – soprattutto – contribuì al risveglio della cultura nel solco della tradizione recuperata e della consapevolezza di una sapere storicizzato, che prima di lui era del tutto ignoto. La ricerca dei testi antichi, quindi, non rimase in lui a livello di pura erudizione o di gusto archeologico, ma divenne il mezzo reale per raggiungere una più libera coscienza ed una concezione della vita più spregiudicata.
Pur non essendo scrittore a tempo pieno ed esercitando “l’arte” solo in quei ritagli di tempo che le sue mansioni di segretario apostolico gli consentivano, la Produzione di Poggio è comunque vastissima: compì traduzioni, raccolse epigrafi antiche, scrisse una vastissima mole di opuscoli, invettive, orazioni, trattati morali, elogi funebri, epistole, dialoghi, opere storiche, cioè tutte forme letterarie tipiche degli umanisti, in cui egli agitò e discusse i più caratteristici problemi intellettuali dell’epoca: il significato della nobiltà, la superiorità della forma repubblicana o monarchica, la debolezza della condizione umana, l’instabilità della fortuna, il fondamento delle leggi, il rapporto fra arte e scienza. E da tutto ciò risulta come in lui, non meno che nei grandi umanisti suoi contemporanei, «sia intenso il gusto della vita pratica; ma non meno chiaro appare come in lui tale gusto, più volentieri che nel campo propriamente civile o educativo o magari economico, tenda a esplicarsi attraverso una varia ed estrosa attività di curioso e attento viaggiatore e ricercatore, di accanito polemista, di brillante conversatore: una attività che in nessun altro luogo poteva meglio essere esercitata che in quella Curia romana, dove non a caso egli rimase mezzo secolo, e che rimpiangeva quando era impegnato nelle più importanti ma più onerose mansioni di cancelliere fiorentino. Questo particolare aspetto della personalità del Bracciolini va tenuto presente per intendere e valutare la sua opera letteraria. Anche alla base di tale opera c’è la convinzione, comune a tutti i grandi umanisti della prima metà del Quattrocento, che la cultura, e in particolare la cultura letteraria, debba essere perseguita non come fine a se stessa, ma quale elemento integrante di una operosa vita civile e sociale. […] Questo senso del valore formativo della cultura e delle lettere si configura non di rado, anche negli scritti del B., esplicitamente come meditazione o ammonizione o satira. Ma l’aspetto davvero caratteristico del Poggio scrittore va indicato piuttosto nella sua singolare capacità di osservare con spregiudicata attenzione e cordiale partecipazione la varia scena del mondo terreno e specialmente del mondo degli uomini nelle loro molteplici manifestazioni; e in una disposizione, altrettanto singolare, a comunicare ai lettori tutto il tesoro di fresche e personali impressioni e opinioni in tale modo raccolte. A questo stesso atteggiamento non è certo estraneo un contenuto morale, una fiducia viva nel contributo che quella osservazione e comunicazione possono offrire alla formazione dell’uomo integrale; ma è anche vero che tale atteggiamento, per la sua intima natura, tende a tradursi in disinteressata rappresentazione artistica, in un’arte cordialmente realistica, che assume volentieri la forma del colloquio, della descrizione, della narrazione, del bozzetto, dell’aneddoto, del “motto” calzante e arguto. Adeguato strumento stilistico di questa disposizione morale ed artistica è la prosa latina del Bracciolini: una prosa in cui molti lettori, dal Valla in poi, ora con severità ora con indulgenza, rintracciarono “errori” di lingua e di grammatica, ma che nella libera imitazione del modello ciceroniano, nella ricca varietà di lessico e di costrutti, nella aderenza, specie sintattica, al volgare contemporaneo, si rivela felicemente idonea a esprimere la dignità etica e insieme l’agile concretezza di quel fervido spirito di osservazione e comunicazione che è al centro della personalità dello scrittore»[4].
Altro tema costante nell’opera di Poggio è l’implacabile avversione contro i monaci e l’ozio religioso, giudicato unicamente ipocrisia e vanità; polemica che già compariva nel Salutati, e che è comunque caratteristica di tutto il Quattrocento. Questo atteggiamento polemico, cominciato con il De avaritia (1428-1429), culmina nel feroce libello del 1448 Contra hypocritas, dove egli denuncia i vizi degli ecclesiastici, giudicati quasi tutti ipocriti, lussuriosi, avidi, corrotti e ambiziosi.
Negli ultimi anni della vita scrisse il De miseria humenae conditionis, nel quale sostiene l’infelice condizione dell’uomo: accanto alla vena critica, che aveva sostenuto la veemenza del polemista, compare un tono più grave, un senso di instabilità e di crisi – che attraversa grande parte degli uomini di cultura quattrocenteschi – che sembra trarre nutrimento dalla visione stessa del mondo antico scomparso, dalla consapevolezza che l’incidenza della fortuna ha sulle vicende umane.
Altrettanto fondamentale tra le opere di Poggio è il vastissimo epistolario, da cui emergono per interesse le lettere scritte all’epoca del Concilio di Costanza, giacché da esse si rivela quella concezione della vita, aperta e spregiudicata, di cui si è già detto, ma al tempo stesso riflessiva ed attenta alla complessità degli eventi umani. Nell’epistolario, insomma, emergono e si intrecciano gli amori e gli odî di tutta una vita, ma penetrati da un senso sempre più doloroso di tristezza, scatenata dall’inesorabile decadenza che l’incedere del tempo porta con sé.
Leonardo Bruni
Nacque ad Arezzo nel 1370 (o forse nel 1374), ove la famiglia del padre Francesco godeva di un discreto stato di fortuna e partecipava alla vita pubblica. e forse fu proprio in seguito alle sventure politiche del padre, imprigionato nel 1384, dopo la conquista di Arezzo da parte delle milizie francesi del de Coucy, che Leonardo si trasferì ancora giovanissimo a Firenze, dove studiò retorica con Giovanni Malpaghini[5] e forse iniziò anche gli studi di diritto. Ben presto entrò nell’affettuosa amicizia del Salutati, maestro e guida di tanti giovani intellettuali, e di cui volle essere il continuatore ideale. Dal dotto bizantino Emanuele Crisolora attinse il concetto nuovo che le traduzioni in latino non dovevano, come consuetudine, essere aride versioni letterali, bensì un’elegante rielaborazione del testo.
Grazie all’aiuto del Salutati e del Bracciolini, nel 1405 riuscì ad ottenere un impiego presso la curia romana, dove rimase per dieci anni. Nel 1412 si sposò con Tommasa, che apparteneva ad un’elevata famiglia fiorentina, e nel 1415 tornò a Firenze, appassionandosi sempre più a quella vita civile della repubblica fiorentina che doveva portarlo nel 1427 ad occupare quella carica di Cancelliere della Repubblica, che era già stata di Coluccio, e che mantenne fino al 1444, anno della sua morte.
Figura dominante di tutto il primo umanesimo, visse con intima passione il drammatico duello che tra il 1390 e il 1402 oppose Milano a Firenze, cioè l’espansionismo tirannico di Gian Galeazzo Visconti e l’ideale della libertà repubblicana dei fiorentini: da questo scontro nacque in lui il mito di Firenze libera, che valse a orientare in maniera decisiva non pochi aspetti del suo pensiero, legandolo a quella concezione di un umanesimo civile (così caratteristico degli inizi del nuovo secolo) in cui vita, politica e cultura si fondono e si integrano a vicenda.
Egli fu soprattutto un grande diffusore delle nuove idee del primo umanesimo, mediante le sue traduzioni, le sue lettere (numerosissime), i suoi scritti retorici e storici. Le sue lettere, infatti, pubbliche e familiari, benché inferiori a quelle del Salutati e del Bracciolini, furono dagli umanisti considerate dei veri modelli di stile e ampiamente imitate. Tradusse moltissimo, ma, soprattutto, gli scritti morali, economici e politici di Aristotele e le opere di Platone, dando così l’avvio a quella conoscenza di Platone che si diffonderà sempre più e culminerà nell’epoca rinascimentale.
Con la Laudatio florentinae urbis (scritta dopo il 1402) lancia appunto il mito di Firenze repubblicana; questo breve scritto, come ha osservato il Baron, costituisce, insieme alla successiva Storia fiorentina del Bruni stesso, l’opera precorritrice del nuovo pensiero politico rinascimentale che culminerà in Machiavelli e negli altri grandi storici fiorentini del Rinascimento. Nei famosi Dialogi ad Petrum Histrum – dedicati cioè all’istriano Pietro Vergerio – il Bruni illustrò le discussioni del circolo umanistico fiorentino sul contrasto fra gli antichi e i moderni e su quello fra scrittori in volgare e in latino (e non solo egli esalta i moderni, ma anche difende gli scrittori medioevali). Col De studiis et litteris mostrò di concepire gli studia humanitatis in senso non puramente formale, bensì interiormente educativo; nell’Isagogicon trattò, in forma di elegante dialogo, problemi di etica.
Numerose le sue opere storiche (sul modello liviano), ma suo capolavoro è, comunque, la monumentale Histona florentinae urbis (in 12 libri), che va dalle origini al 1402, continuata poi, dal 1378 al 1440, nei Commentarii rerum suo tempore gestarum, basata su fonti quali diari, cronache, documenti originali. Fondamentale opera della storiografia italiana del Quattrocento, la Storia bruniana ha un’articolazione salda e radicata nella visione della grandezza del popolo fiorentino e della sua vocazione alla libertà repubblicana, che si era consolidata durante la guerra con il Duca di Milano. La tesi iniziale, che resta la tesi di fondo, è quella del contrasto fra le città italiane e l’Impero, che viene rappresentato come l’albero che soffoca ogni libero sviluppo di piante minori: ma il collegamento tra la ripresa delle autonomie locali al crollo del potere imperiale, come un anelito nuovo di libertà, indicano nel Bruni un disegno originale ed ardito.
In conclusione, se gli scritti del Bruni furono così diffusi in Italia e in Europa e considerati modelli di stile, ciò è dovuto al fatto che nessuno meglio di lui riuscì a fissare in tutti i suoi punti un programma di rinnovamento culturale e un paradigma della città ideale. Nei Dialogi definì la discussione dei rapporti col passato; nel De studiis formulò un piano educativo e un ordinamento delle scienze; negli scritti su Firenze enunciò il paradigma della città-stato; nelle vite tracciò l’immagine del cittadino erudito e, al tempo stesso, impegnato nella politica; nelle traduzioni – soprattutto in Platone e nel nuovo Aristotele morale e politico – sviluppò i manuali essenziali per la nuova formazione umana.
In un clima di problematica poetica (e civile al tempo stesso) si collocano le due uniche operette scritte dal Bruni in volgare, la Vita di Dante e la Vita del Petrarca; nelle quali è particolarmente interessante l’affermazione che la lingua volgare è tanto valida quanto quella latina sul piano della possibile realizzazione poetica.
***NOTE***
[1] Specialmente da Senofonte e da Diodoro Siculo.
[2] Vedi pagine seguenti.
[3] Morta a febbraio del 1459.
[4] Emilio Bigi, Bracciolini Poggio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 13, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1971. – http://www.treccani.it/enciclopedia/poggio-bracciolini_%28Dizionario-Biografico%29/
[5] Giovanni Malpaghini (Ravenna, 1346 circa – Firenze, 1417) fu un umanista, allievo del Petrarca e lettore di retorica allo studio fiorentino.
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