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Marco M. G. Michelini | 30 Maggio 2016

Niccolò V

Tomaso Parentucelli nacque il 15 novembre 1397 nella Repubblica di Genova a Sarzana, dove suo padre Bartolomeo esercitava la professione di medico. Trasferitosi a Firenze nel 1415, dopo la morte del padre, divenne precettore nelle famiglie Strozzi e Albizzi, dove fece la conoscenza dei principali studiosi umanisti e dove rimase fino al 1419. Successivamente Tomaso studiò a Bologna, dove conobbe Leon Battista Alberti. Il vescovo di Bologna, Niccolò Albergati, nel 1420, lo aveva accolto nella sua “famiglia vescovile”, incuriosito dalle notizie riguardanti l’intelletto del giovane. Nel 1422 Tomaso si laureò in teologia, all’età di venticinque anni.

Rimasto colpito dalle sue capacità l’Albergati, nel 1423, lo consacrò presbitero, gli diede in cura varie chiese della città e lo nominò membro del capitolo della Cattedrale. Le fortune per il giovane sacerdote si accrebbero quando l’Albergati fu creato cardinale da Martino V nel 1426, evento che gli diede la possibilità di approfondire i suoi studi. Insieme all’Albergati, infatti, Parentucelli fu mandato per conto dei Papi Martino V ed Eugenio IV in viaggio attraverso Germania, Francia ed Inghilterra. Egli fu così in grado di raccogliere numerosi libri, per i quali nutriva una sincera passione intellettuale, ovunque si recò.

Tomaso si distinse al Concilio di Basilea[1], Ferrara, Firenze, sia durante i lavori che si svolsero a Firenze per la riunificazione della Chiesa di Roma con quella ortodossa. È importante ricordare che il soggiorno fiorentino non fu soltanto prolifico per la carriera del Parentucelli, quanto anche per la sua crescita intellettuale. È in occasione di questo Concilio che egli  rafforzò, inoltre, i legami di amicizia con l’élite intellettuale fiorentina (Ambrogio Traversari, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti) e con grecisti del calibro di Giovanni Aurispa[2].

Nel 1444, quando morì il cardinal Albergati, venne nominato vescovo di Bologna al suo posto. A causa dei prolungati disordini civici che rendevano insicura Bologna, Papa Eugenio IV lo trasferì in Germania. Con l’incarico di legato pontificio, Tomaso negoziò a Francoforte un’intesa tra Santa Sede e Sacro Romano Impero, circa l’abolizione, o almeno il contenimento, dei decreti di riforma del Concilio di Basilea. La sua azione diplomatica, coronata dal successo, gli fece ottenere come ricompensa, al suo ritorno a Roma, il titolo di cardinale-prete di Santa Susanna (dicembre 1446).

Pochi mesi dopo Eugenio IV moriva (23 febbraio 1447), affidando sul letto di morte la Chiesa ai cardinali, raccomandando l’unità di quest’ultima e la scelta di un successore che la conservasse. Tommaso Parentucelli gli impartì l’estrema unzione e tenne al termine dei novendiali l’ultima orazione funebre, ripercorrendo le parole estreme di Eugenio IV ed esortando i cardinali a non lasciarsi trascinare da passioni o interessi personali nella scelta. Enea Silvio Piccolomini afferma che il suo discorso fu tanto veemente da sembrare più quello di un angelo che di un uomo e che molti nell’occasione lo profetizzarono pontefice, così come avrebbe fatto Eugenio IV pochi mesi prima della morte.

Al conclave, che si aprì la sera del 4 marzo nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva, il candidato favorito era il cardinale Prospero Colonna, che godeva dell’appoggio di Alfonso d’Aragona, ma la sua appartenenza ad una famiglia così potente nell’Urbe – cosa che poteva indispettire le famiglie rivali, quali quella degli Orsini – fece decadere la sua nomina, spostando i voti sul cardinale Parentucelli. Questi fu pertanto eletto Papa dopo soli due giorni, il 6 marzo. Il neoeletto pontefice prese il nome di Niccolò in onore del suo benefattore.

Gli otto anni del pontificato di Niccolò V furono importanti per la storia politica, scientifica e letteraria del mondo. Il pontefice stipulò con Federico III d’Asburgo il Concordato di Vienna (17 febbraio 1448), tramite il quale vennero abrogati i decreti del Concilio di Basilea contrari alle prerogative papali per quanto concerneva la Germania. Il concordato, che regolò i rapporti tra la Santa Sede e gli Asburgo, rimase in vigore fino al 1806. Il successo della politica pontificia nei confronti della Germania fu confermato dall’incoronazione di Federico III, a Roma il 16 marzo 1452, avvenuta mentre l’imperatore si trovava a Siena per sposare Eleonora del Portogallo. Ma non bisogna dimenticare che questi successi da parte di Niccolò furono favoriti dall’abilità diplomatica del suo legato presso la corte imperiale, Enea Silvio Piccolomini (vedi pagine seguenti).

L’evento che causò maggiore amarezza a Niccolò V fu la perdita di Costantinopoli, presa definitivamente dai Turchi il 29 maggio 1453. Il Papa soffrì dolorosamente questa catastrofe, interpretandolo come un doppio colpo inferto alla Cristianità e alla letteratura greca. «È una seconda morte,» scrisse il Piccolomini, «per Omero e Platone». È difficile ricostruire gli aiuti forniti da papa Niccolò V all’Impero Bizantino. Dalla lettura di un’iscrizione risulta che nel 1452 il pontefice mandò denaro per fortificare le mura di Galata, l’insediamento genovese sul Corno d’Oro. In più ci è conosciuta la sua dichiarazione nel letto di morte, nell’aprile del 1455. Ai cardinali raccolti intorno a sé Niccolò V dichiarò che, ricevuta la notizia dell’assedio di Costantinopoli, egli aveva deciso di venire in aiuto dei bizantini, ma era anche consapevole che da solo poteva fare ben poco contro le soverchianti forze militari dei Turchi. Agli inviati di Costantino XI Paleologo, giunti a Roma nel 1452 per chiedere aiuto, egli pertanto aveva dichiarato in modo «chiaro ed aperto» che quanto possedeva in oro, navi e uomini, era a disposizione dell’imperatore, ma gli consigliava altresì di cercare aiuto anche presso altri principi italiani. Gli inviati bizantini si recarono fiduciosi presso le signorie italiane, ma tornarono dal papa senza aver concluso niente di concreto.

Il pontefice, dunque, non poté fare altro che dare ai bizantini il suo aiuto così quale era. Conformemente a ciò, il 28 aprile 1453 Niccolò V diede ordine all’arcivescovo di Ragusa, Jacopo Veniero di Recanati, di accompagnare come legato a Costantinopoli 10 galere pontificie ed un certo numero di navi fornite dal Regno di Napoli e dalle Repubbliche di Genova e Venezia. Questa flotta italiana unita, che partì con grandi speranze, tuttavia non riuscì ad entrare in azione poiché il 29 maggio si era già deciso il destino della capitale bizantina. In seguito alla caduta di Costantinopoli, Niccolò predicò una Crociata, e si impegnò a riconciliare le mutue animosità tra gli stati italiani, ma senza molto successo.

Il 16 giugno 1452 Niccolò firmò la bolla Dum Diversas, indirizzata al re del Portogallo Alfonso V. Il pontefice riconobbe al re portoghese le nuove conquiste territoriali; lo autorizzò ad attaccare, conquistare e soggiogare i musulmani, i pagani e altri nemici della fede; ad impossessarsi dei loro beni e delle loro terre; a ridurre gli indigeni in schiavitù perpetua ed a trasferire le loro terre e proprietà al re del Portogallo e ai suoi successori.

Il 20 luglio 1447, con la bolla Pastoralis officii elevò il Terzo Ordine Regolare di San Francesco come Ordine canonicamente distinto all’interno della famiglia francescana, dotato di un proprio Ministro Generale. Nel 1449 Niccolò V accolse la rinuncia dell’antipapa Felice V e il suo riconoscimento da parte del Concilio di Basilea, riunito a Losanna. Il giorno 8 gennaio 1454 pubblicò la bolla Romanus Pontifex con cui benediva la colonizzazione delle nuove terre scoperte dagli europei e incoraggiava la schiavitù degli abitanti.

In segno di felicità per l’unità ritrovata con gli scismatici di Basilea, Niccolò V annunciò l’apertura dell’anno santo il 4 settembre del 1449, che sarebbe stato l’avvenimento religioso più importante del suo pontificato. Il documento ripercorreva integralmente le bolle d’indizione di Clemente VI e di Gregorio XI, ma, nella parte dispositiva, indiceva a partire dal prossimo Natale il giubileo, sulla base del potere del Vicario di Cristo e non tenendo conto della scelta fatta dai pontefici precedenti di svolgere il giubileo ogni trentatré anni. Il Papa nominò Penitenziere maggiore il cardinale Domenico Capranica. Il Giubileo si dimostrò un successo: migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte d’Europa affluirono a Roma, soprattutto per le cerimonie natalizie, per quelle della Pasqua e dell’Ascensione, contribuendo al rimpinguamento delle casse papali.

La sempre sotterranea linea politica municipale romana, segnata da quei concetti di quei concetti di libertà comunale e da quelle rivendicazioni autonomistiche che avevano animato un secolo prima Cola di Rienzo, tornò a riemergere improvvisamente nel 1453 con la congiura di Stefano Porcari. Questi, già esiliato nel 1447 dal neoeletto Niccolò V per le sue idee rivoluzionarie, voleva organizzare un colpo di Stato con cui privare il pontefice del suo esercizio nelle questioni temporali, relegandolo nell’esercizio di quelle spirituali, e per fare ciò prevedeva la cattura del pontefice e dei cardinali durante la liturgia dell’Epifania. Il Porcari, però, fu scoperto dagli informatori del Cardinale Bessarione[3] e, condannato a morte dopo un sommario processo, venne impiccato il 9 gennaio ai merli di Castel S. Angelo. Uguale sorte subirono nei mesi successivi altri capi della tentata rivolta, ricercati in tutta Italia.

Niccolò morì il 24 marzo 1455, afflitto dalla gotta; e per quanto uomo dalla forte sensibilità religiosa, non ebbe però la volontà necessaria (o la forza) di spingersi oltre con il programma delle riforme. Fu sepolto nelle grotte vaticane.

Niccolò V viene considerato l’archetipo del papa-umanista giacché con il suo generoso patrocinio, egli impresse un decisivo sviluppo all’Umanesimo. Fino al suo pontificato, a Roma, i nuovi studi umanistici erano stati guardati con diffidenza, come possibili fonti di scismi ed eresie, o addirittura sospettati di un insano interesse verso il paganesimo. Papa Niccolò, al contrario, decise di assumere in curia come notaio il controverso Lorenzo Valla [vedi pagine seguenti][4] ed impiegò numerosi copisti e studiosi (come Pier Candido Decembrio[5], Giovanni Tortelli[6], Giannozzo Manetti[7]), incaricandoli di effettuare la traduzione integrale in latino delle opere greche, sia pagane che cristiane, o di promuovere in senso lato la cultura umanistica. Arrivò a pagare diecimila fiorini per la traduzione metrica di Omero. Questa impresa, avviata poco prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, contribuì enormemente all’espansione dell’orizzonte intellettuale cristiano. Durante il suo pontificato, però, alcuni umanisti espressero dissenso con l’entourage pontificio: Poggio Bracciolini per i violenti contrasti con il giovane e promettente Lorenzo Valla; Flavio Biondo[8] perché parteggiò, nel conclave, per il cardinale Colonna; Leon Battista Alberti[9] non condivise l’umanesimo troppo “materiale” del Pontefice, benché il dissenso rimase sempre tacito.

Seguendo le sue naturali inclinazioni, Niccolò V scelse di usare le rendite del giubileo per ricostruire Roma e per rifondare la cultura. Dopo aver ripristinato le mura leonine nonché quelle di Castel Sant’Angelo, il pontefice avviò i lavori per la costruzione di un nuovo acquedotto. Niccolò V, infatti, era consapevole dell’importanza dell’approvvigionamento idrico della città: l’acquedotto dell’Aqua Virgo, originariamente costruito da Marco Vipsanio Agrippa nel I secolo a.C., venne restaurato. I romani poterono così attingere acqua fresca in un nuovo bacino, progettato da Leon Battista Alberti. Il Pontefice ordinò anche la costruzione di una fontana nella Piazza di Santa Maria in Trastevere, dove non esisteva più un punto di raccolta di acqua dall’antichità. Ma i lavori a cui dedicò particolarmente la sua attenzione furono la ricostruzione del palazzo del Vaticano e della Basilica di San Pietro, dove si sarebbero concentrate le glorie rinate del papato. Niccolò V si spinse fino a far abbattere parti dell’antica basilica, al fine di poter apportare alcune modifiche. Per reperire i materiali da costruzione, egli non esitò a spogliare le costruzioni di Roma antica, asportando, ad esempio, le decorazioni dalla basilica di Nettuno. L’intento era quello di ottenere una cittadella religiosa sul colle Vaticano, esterna alla città laica che aveva il suo fulcro attorno al Campidoglio. A questo progetto si legava indissolubilmente quello di esaltare la potenza della Chiesa, dimostrando inequivocabilmente la continuità tra Roma imperiale e Roma cristiana. A causa della brevità del suo pontificato, l’ambizioso progetto del Pontefice non poté essere portato a termine, tuttavia il suo disegno fece convergere nella città eterna artisti di più scuole (soprattutto toscani e lombardi), che avevano in comune l’interesse per l’antichità e il fascino verso le vestigia romane, i quali contribuirono a determinare, in qualche modo, una certa omogeneità dei loro lavori.

Nel 1451, Niccolò V con lungimirante decisione, costituì una consistente raccolta di codici[10] che divenne il primo nucleo della futura Biblioteca Apostolica Vaticana e costituendo il Collegio degli Abbreviatori, consesso di umanisti volti a collaborare col Pontefice nella stesura di bolle, documenti e altri atti legati al governo della Chiesa. Egli stesso fu uomo dalla vasta erudizione, tanto che il cardinale Piccolomini disse di lui: «ciò che non sa è al di fuori del campo della conoscenza umana». L’impegno che il Pontefice profuse nella ricostruzione della biblioteca fu straordinario e strettamente legato alla sua personalità culturale dalle forti tensioni enciclopediche: vennero commissionati molti manoscritti, realizzato un piano imponente di traduzioni di opere dal greco – soprattutto, ma non soltanto, Padri della Chiesa; vennero acquisiti manoscritti da biblioteche romane, italiane ed europee. Lo spirito che animava Niccolò V era quello di realizzare una biblioteca pontificia dotata di codici latini e greci, adeguata alla dignità del pontefice e della Sede apostolica, ma anche all’utilità comune di tutti gli studiosi. E così stipendiò traduttori per realizzare la versione latina di opere greche, fece lavorare filologi alla migliore definizione di testi classici, fece trascrivere e comprare manoscritti.

È doveroso ricordare anche le molte Università che vennero fondate durante il suo pontificato e per le quali rimane la sua bolla di fondazione: Barcellona e Besançon (1450), Glasgow (1451), Valencia (1452), Treviri (1454) ed i suoi interventi a favore di Università già esistenti (Bologna e Canterbury: 1448). Eppure, nonostante il suo enorme e straordinario impegno culturale, Niccolò V non scrisse mai alcuna opera; non ci è rimasta nessuna trascrizione delle sue orazioni; rimane solo il cosiddetto “canone bibliografico”, realizzato per Cosimo de’ Medici, che è la proposta di una biblioteca ideale; rimangono pochissime lettere e le glosse da lui apposte sui margini dei manoscritti, ancora tutte da studiare; rimane la testimonianza della sua scrittura personale ancora in bilico tra la gotica e l’umanistica.


Pio II

Enea Silvio Piccolomini nacque il 18 ottobre 1405 a Corsignano, in Val d’Orcia, primo dei diciotto figli di Silvio Piccolomini e di Vittoria Forteguerri. La famiglia Piccolomini era uno dei principali casati di Siena, imparentato con i Tolomei, ma era stata esclusa dalla vita pubblica della città nel 1385, a causa della sua appartenenza al partito dei nobili, e costretta a ritirarsi nella signoria di Corsignano; qui versava in difficili condizioni economiche, vivendo del lavoro nei campi.

La sua formazione umana e culturale avviene nell’ambiente di Siena, dove, fra studi di legge e di letteratura, conduce una vita spensierata e gaudente al seguito delle brigate studentesche: stringe allora amicizia con i maggiori umanisti del tempo e scrive i primi versi, in latino e in volgare, di argomento per lo più erotico e profano. Conobbe anche San Bernardino da Siena, le cui prediche lo suggestionarono al punto da mettergli in animo l’idea di farsi frate; ma fu lo stesso Santo a dissuaderlo, non vedendo in lui alcuna vocazione alla vita contemplativa.

Nel 1431, tornato da un infruttuoso viaggio nelle città dell’Italia del Nord alla ricerca di un impiego, il ventiseienne Enea Silvio venne notato per il suo talento dal cardinale Domenico Capranica, vescovo di Fermo, che si trovava a Siena di passaggio verso Basilea, dove intendeva unirsi al concilio. L’adesione del Capranica al concilio era stata dettata dall’intento di combattere papa Eugenio IV, che gli aveva negato la conferma della promozione a cardinale; Piccolomini, da lui assunto in qualità di segretario, gli avrebbe fatto da procuratore davanti all’assemblea, al fine di ottenergli il riconoscimento della dignità cardinalizia. Giunto a Basilea nella primavera del 1432, il giovane letterato senese aderì in pieno al movimento conciliare, sbrigando con successo l’affare del Capranica e andando ben al di là delle personali esigenze di quest’ultimo. Infatti, grazie alla sua vasta cultura e alla sua abilità di oratore e di sottile diplomatico, il Piccolomini diviene ben presto una delle figure di maggior rilievo in quel Concilio che era ormai il centro degli intrighi politici e religiosi di quasi tutta l’Europa.

Quando nel 1433 Papa Eugenio IV sospese il concilio di Basilea, dichiarandolo scismatico in caso di prosecuzione, il Piccolomini combatté energicamente quel gesto e abbracciò l’oltranzismo con cui l’assemblea conciliare continuò nel suo programma di demolizione della monarchia pontificia. Essendosi il Caprarica riappacificato con il pontefice, entrò al servizio di Bartolomeo Visconti, vescovo di Novara, e venne messo a parte del piano, ideato dal duca di Milano, per catturare Papa Eugenio IV mentre si trovava a Firenze e ricattarlo, se non addirittura deporlo o sopprimerlo. Il complotto venne scoperto e Piccolomini fu costretto a dileguarsi per un certo periodo di tempo. Trovò impiego come segretario di un altro prestigioso cardinale, il bolognese Niccolò Albergati; con l’ammissione nella “familia” di questi, Piccolomini si legò di amicizia con il di lui maestro di casa, il futuro Niccolò V.

Nel 1435, Piccolomini seguì il cardinal Albergati in un lungo viaggio in Lombardia, in Savoia e in Borgogna, per sondare la disponibilità di quei sovrani ad appoggiare l’assise conciliare. Al termine della missione, egli solo venne mandato da Albergati dalla Borgogna in Scozia, intraprendendo così un viaggio non privo di pericoli mortali e di avventure galanti, che arricchirono la sua esperienza umana e la sua sensibilità politica, e che più tardi suggestivamente descrisse nei Commentarii.

Tornato a Basilea nel 1436, Piccolomini non vi trovò più l’Albergati, che era stato riguadagnato alla causa papale. L’assemblea conciliare stava inoltre attraversando una progressiva frattura fra l’ala capeggiata dal cardinal Cesarini, propensa alla riconciliazione con Eugenio IV, e una maggioranza fieramente antipapale, sorretta dalla componente gallicana. In tanta incertezza, Piccolomini mantenne salde le proprie posizioni conciliariste e si impose all’attenzione generale grazie alle sue doti oratorie. La sua carriera di funzionario conobbe di conseguenza una notevole progressione e il suo talento diplomatico si evidenziò in alcune legazioni svolte per conto del concilio in città e corti d’Europa. Nell’autunno del 1439, il concilio procedette all’elezione di un antipapa, nella persona del duca di Savoia Amedeo VIII, che prese il nome di Felice V, nominando il Piccolomini suo segretario.

Per mantenere una salda intesa con l’Imperatore Federico III d’Asburgo, Felice V, nel 1442, inviò il Piccolomini alla dieta di Francoforte dove il 27 luglio ricevette la corona di poeta: un gesto, rievocante l’incoronazione di Petrarca, che gli consentì di fregiarsi, nelle sue lettere, di questo glorioso titolo. Apprezzando il suo talento di latinista, l’Imperatore gli offrì un posto nella Cancelleria imperiale: l’abbandono del concilio e dell’antipapa Felice V non gli portarono alcun vantaggio di natura economica; ma le sue idee in materia di politica ecclesiastica subirono, in conseguenza di tale passo, una decisiva modifica. Si riconciliò infatti con papa Eugenio IV, rinnegò – non senza travaglio interiore – la sua posizione conciliare e divenne, anzi, segretario apostolico e convinto fautore della supremazia papale.

Intanto andava maturando nel suo animo la vocazione religiosa, frutto di un mutato atteggiamento spirituale: rifiutò allora il titolo di poeta, gli scritti e gli interessi mondani, e il 4 marzo 1447 fu infine consacrato sacerdote. Il 23 settembre 1450 Niccolò V gli conferì la diocesi di Siena: evento che lo riportò, in una posizione di massimo prestigio, dentro l’orizzonte politico di quella patria lontana a cui egli non aveva mai smesso di pensare, durante la lunga permanenza Oltralpe. A seguito dell’assedio di Costantinopoli da parte dei turchi, il Piccolomini ricevette da Niccolò V la carica di legato apostolico per l’Austria, la Boemia, la Moravia e la Slesia, al fine di contribuire all’organizzazione della riscossa contro gli infedeli. Gli sforzi messi in atto dai vertici della Chiesa di Roma non valsero a salvare Costantinopoli dal suo tragico destino: nessuna potenza cristiana si mosse per difenderla, ed essa cadde, il 19 maggio 1453, senza aver ricevuto alcun efficace soccorso dall’Occidente.

Trasferitosi stabilmente a Roma nell’agosto 1455, pochi mesi dopo l’elezione di Callisto III, agli inizi del 1456 il Piccolomini fu investito della legazione pontificia a Napoli: una missione delicata, che aveva anche per oggetto la tutela dell’indipendenza di Siena. La legazione napoletana fu il banco di prova che diede modo a Callisto III di accertarsi definitivamente dello zelo del Piccolomini, e ciò gli valse, al ritorno da Napoli, la promozione a cardinale, avvenuta il 17 dicembre 1456. Fu quindi autorevole collaboratore dei piani del Papa per l’indizione della guerra santa, e a tale proposito, nel marzo 1457, fu alla Dieta di Francoforte, dove rispose punto su punto alle violente accuse[11] contro il papato, visto come dispregiatore dei diritti della nazione tedesca. E fu sempre Piccolomini a predisporre e coordinare la fortunata missione in Germania del nunzio pontificio Lorenzo Roverella, al quale il cardinale diede anche istruzioni su come debellare il partito antiromano: un’operazione che poté dirsi conclusa già verso il 1458.

Alla morte di Callisto III[12], un accordo tra Francesco Sforza e Ferrante d’Aragona[13], per far fronte all’intromissione della Francia negli affari d’Italia, fece sì che nel conclave indetto il 16 agosto, dopo tre giorni, il Piccolomini fosse eletto al soglio pontificio con il nome di Pio II, con allusione al virgiliano pius Aeneas.

La vastità della sua cultura religiosa e umanistica, i suoi sentimenti di italianità, il prestigio acquisito nella politica internazionale e le potenti relazioni intrecciate, la sua abilità di negoziatore e la sua posizione di strenuo difensore del Papato, l’accostamento alla Chiesa della nazione germanica, che egli era riuscito ad attuare in qualità di legato a latere per la Boemia, la Slesia, e l’Austria, e soprattutto l’energica azione svolta in favore di una Crociata contro i Turchi (sempre più minacciosi dopo la caduta di Costantinopoli) sono gli elementi che stanno alla base di questa sua folgorante carriera ecclesiastica.

Il neoeletto pontefice aveva appena cinquantatré anni, ma era minato nel fisico da dolorose malattie (podagra, catarro) e da un invecchiamento ormai avanzato, evidente nell’incanutimento, che non lasciava presagire speranze di lunga vita. Nonostante tutto questo, nei suoi sei anni di pontificato egli mantenne saldo, quale linea portante, l’impegno incondizionato dell’autorità papale a dirimere i più gravi motivi di decadenza spirituale della cristianità. Con le sue iniziative di riforma, Pio II si atteggiò a papa della restaurazione della monarchia pontificia e dell’unità religiosa dell’Occidente cristiano, in piena continuità con l’operato dei suoi predecessori. Distinguendosi tuttavia da costoro per uno slancio quasi inesauribile nell’affrontare le sfide del momento, egli affiancò alla lotta al conciliarismo e alle pretese autonomistiche delle nationes della cristianità anche uno sforzo estremo, che arrivò al sacrificio di sé, per liberare l’Europa dalla minaccia musulmana, avvertita come una vergogna a cui tutto l’Occidente cristiano avrebbe dovuto reagire unitariamente. Visti naufragare nell’indifferenza generale i suoi sforzi, scrisse la famosa lettera a Maometto II sperando di convenirlo col fascino della cultura e della civiltà latino-cristiana. Nel 1463 emise la bolla che promulgava comunque la guerra santa, ed il 18 giugno 1464, sebbene gravemente infermo, partì da Roma alla volta di Ancona, dove giunse il mese successivo. Ad Ancona Pio II non trovò ad aspettarlo le navi e gli eserciti che sperava, ma solo cinquemila volontari male armati e privi di denaro che presto si dispersero, stanchi di aspettare le galee veneziane che giunsero solo il 12 agosto, comandate dal doge Cristoforo Moro in persona. Tre giorni dopo Pio II cessava di vivere:  la sua salma venne trasportata a Roma, dove venne tumulata nel gioiello artistico da lui eretto all’interno della basilica vaticana: la cappella di S. Andrea, costruita per accogliere la preziosa reliquia della testa di S. Andrea, portata a Roma dal fuggiasco despota di Morea, Tommaso Paleologo, nel marzo 1461.

Anche durante il suo pontificato il Piccolomini non cessò d’essere mecenate e poeta, conservò l’aspirazione umanistica al sereno ozio letterario e alla cultura erudita, il gusto delle bellezze artistiche e naturali (diede anzi volto nuovo alla nativa Corsignano, che prese poi il nome di Pienza, facendone una sorta di tempio architettonico dell’Umanesimo), ma deluse quanti sperarono che con lui tornassero i tempi fastosi del mecenatismo di Niccolo V. La sua opera letteraria e politica si presenta così varia e complessa da sembrare spesso contraddittoria, ma in realtà essa si svolge lungo il progressivo maturarsi di una vasta e tormentata situazione storico-politico-culturale in cui le figure dell’umanista, dell’uomo politico e religioso, del Papa infine, si inseriscono e si integrano secondo una coerente linea storica di atteggiamenti spirituali.

Le opere della giovinezza ci rivelano sin dall’inizio l’aderenza del Piccolomini ai gusti e alle forme dell’Umanesimo, in cui egli s’inserisce con il suo pensiero e la sua azione come una delle personalità più ricche e interessanti. Scrisse in gioventù un canzoniere amoroso e un ampio poema erotico, che è andato perduto; ma sono soprattutto i due componimenti letterari del 1444, la commedia Chrysis e la lunga novella amorosa (sorta di romanzo epistolare) intitolata Historia de duobus amantibus, che ci mostrano già un’attenta conoscenza dell’animo umano e un forte e spregiudicato gusto realistico, in cui l’esaltazione della vita sensuale si vela di un sentimento di dolore nella consapevolezza della caducità del piacere umano.

Ben più vaste e complesse le opere storico-memorialistiche, che ci mostrano la capacità di quest’uomo di porsi concretamente al centro della storia contemporanea e di viverne sino in fondo il dramma di profonda crisi. La sua vasta conoscenza della realtà politica e religiosa del Nord-Europa lo spingeva sempre più a diffidare dei nuovi fermenti che si preparavano nel mondo germanico e ad approfondire il senso della crisi storica, sperando, comunque, di poterla in qualche modo arginare e superare mediante la diffusione della cultura umanistica e il rafforzamento dell’autorità papale e imperiale. Così egli vive il dramma di questa complessa e intricata situazione storica in cui convergono e si scontrano i più disparati elementi: l’avversione del mondo germa¬nico alla cultura paganeggiante dell’Umanesimo e allo splendore mondano della Chiesa di Roma, le nascenti eresie religiose del Nord, il declinante mondo cristiano e l’ormai incalzante potenza musulmana, il crollo dei sogni universalistici di Chiesa e Impero e l’affermarsi delle nazioni; e i suoi maggiori scritti storici (De Ratisponiensi dieta, Historia Friderici III Imperatoris, Historia bohemica) accompagnano via via il maturarsi del suo pensiero e della sua azione, inserendosi nel quadro di una visione che coinvolge tutta l’Europa.

Capolavoro del Piccolomini sono i Commentarii rerum memorabilium (scritti in terza persona come quelli di Cesare), sorta di autobiografia che giunge sino al 1463, in cui emergono tutte le sue doti di memorialista esperto della vita e degli uomini. In quest’opera appassionante e vivace, ricca di spunti mondani e sensuali, nonché di pagine implacabilmente feroci, fatti ed episodi contemporanei rivivono nel ricordo del vasto vagabondaggio politico del Piccolomini, condotto per l’Europa intera. In quest’atmosfera stilistica e spirituale si collocano pure le opere di carattere geografico (quella sui costumi dei Germani, il De Europa, il De Asia), in cui gli elementi geografici e politici si fondono alla luce di un’esperienza viva di uomini e paesi; o un’opera come il De curialium miseriis: satira contro la miseria morale e la corruzione della curia romana.

Gli ultimi anni della vita del pontefice saranno dedicati al sogno di un rafforzamento dell’autorità papale e di una grande crociata che rinnovi i tempi eroici della cristianità. La minaccia turca che incombe sull’Occidente è certamente uno degli elementi più appariscenti del dramma spirituale del Piccolomini, per il quale un eventuale crollo dell’Occidente significherebbe al tempo stesso la fine della civiltà religiosa del Cristianesimo e il tramonto di quella cultura classica e umanistica che deve essere il fondamento della religione stessa. Per il Piccolomini, infatti, Religione e Umanesimo non solo non sono in contrasto ma si integrano a vicenda, proprio perché la religione cristiana deve fondarsi sulle basi di quella cultura e di quella luce razionale (bisogna adorare Cristo «con la saggezza», afferma Pio II), che la nuova civiltà umanistica aveva riscoperto e valorizzato, attingendola dalla rinata letteratura classica come il suo frutto migliore.

E qui sta il punto fondamentale: perché in realtà il dramma che il Piccolomini inconsciamente vive non è tanto quello determinato dal pericolo turco (che, in fondo, rimane una minaccia, più che una realtà autentica), è quello invece insito nel dualismo Religione-Umanesimo: egli infatti non avvertiva l’intima contraddizione implicita tra questi due opposti mondi spirituali: ché il nuovo senso critico avviato dall’Umanesimo portava inevitabilmente alla dissoluzione dell’antico medioevo cristiano e poneva fine ai sogni universalistici di Chiesa e Impero, e, per converso, dava una spinta sempre più decisiva al formarsi delle unità nazionali e delle libere interpretazioni ereticali, mentre l’unità politica e morale della Chiesa si dissolveva nelle ormai insanabili lacerazioni conciliari, nella deformazione di una religione sempre più mondanizzata e conseguentemente corrotta. Contraddizione implicita che i grandi esponenti dell’umanesimo religioso non avvertirono chiaramente, ma pur vissero inconsapevolmente come un profondo dramma del loro spirito.

Perciò l’illusione di poter salvare la Religione sulle basi dell’Umanesimo induce ancora Pio II a scrivere nel 1461 la famosa lettera a Maometto II nella speranza di convertirlo col fascino della cultura e della gloria mondana e ultraterrena: atto conclusivo di quello che, come scrive il Toffanin, era stato il grande sogno umanistico-religioso del Piccolomini, «far confluire la Terra e il Cielo, la Sapienza e la Rivelazione, l’Oriente e l’Occidente, i popoli e le sette in una specie di cristiana plenitudo temporum». Caduta questa speranza Pio II, uomo di pensiero, ma anche, e soprattutto, d’azione, bandirà (invano) la Crociata col sentimento apocalittico di chi si sente chiamato a una grande missione, che deve impedire lo sfacelo di tutta una civiltà storica e religiosa.

***NOTE***

[1] Il Concilio di Basilea fu convocato da papa Martino V (1417-1431) nel 1431, in applicazione del decreto del Concilio di Costanza, che prevedeva la tenuta periodica di un concilio della Chiesa cattolica. I padri conciliari, ancora traumatizzati dal ricordo dello scisma d’Occidente, già regolato dal Concilio di Costanza, propendevano in maggioranza per la superiorità delle decisioni del Concilio sul Papa (conciliarismo). Il successore di Martino V, Eugenio IV (1431-1447), giudicando tale propensione in contraddizione con la tradizione della Chiesa, trasferì, nel 1438, il Concilio a Ferrara. I conciliaristi restati a Basilea tentarono, spalleggiati dalle Università, di schierare la Chiesa contro il Papa, proclamando decaduto Eugenio IV ed eleggendo in sua vece un antipapa, il Duca di Savoia Amedeo VIII sotto il nome di Felice V: si era giunti al piccolo scisma d’Occidente, che venne ricomposto solo dieci anni dopo, durante l’ultima sessione a Losanna, nel 1449, con la spontanea deposizione della tiara da parte di Felice V.

[2] Vedi pagine seguenti.

[3] Bessarione (Trebisonda, 2 gennaio 1403 – Ravenna, 18 novembre 1472), cardinale e umanista bizantino, studiò a Costantinopoli, dove diventò monaco basiliano. Cartofilace (cioè responsabile dell’archivio di una diocesi o di un patriarcato) e diplomatico di successo tra le corti bizantine, ottenne presto la stima dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo. Nel 1437 fu nominato arcivescovo di Nicea e nel 1438 venne in Italia con il cardinale Cusano, prima a Ferrara, poi a Firenze, per discutere insieme alla numerosa delegazione bizantina e l’Imperatore stesso, l’unione delle due Chiese, nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale contro gli Ottomani. Dopo la missione italiana Bessarione tornò a Costantinopoli. Lì trovò un clima ostile tra la popolazione e il clero, in particolare i monaci. Dato questo clima e la nomina a cardinale dal papa Eugenio IV il 18 dicembre 1439, con il Titolo dei Santi XII Apostoli, comunicatagli mentre si trovava a Costantinopoli, Bessarione si recò nuovamente in Italia nel 1440 dalla quale non tornò mai più nell’Impero bizantino. Caduta Costantinopoli nel 1453, si dedicò a soccorrere i dotti bizantini fuggiti dalle mani degli Ottomani. Tra il 1456 ed il 1465 fu Archimandrita di Messina e Barone della Terra di Savoca. Nel 1462 fu nominato primo abate commendatario dell’Abbazia Greca di Grottaferrata. Volendo salvare l’immenso patrimonio della cultura bizantina raccolse numerose opere che altrimenti non sarebbero mai pervenute in Occidente, costituendo una ricca biblioteca, articolata su due scriptoria. Nel 1468 donò la propria biblioteca alla città di Venezia; la raccolta divenne il patrimonio iniziale della Biblioteca nazionale Marciana. Tra le altre, salvò numerose opere contenute nella ricchissima biblioteca del Monastero di San Nicola di Casole, presso Otranto, che finì poi distrutta (ad opera degli Ottomani) nel corso della Battaglia di Otranto del 1480. Nel 1472, nonostante la sua età e la sua scarsa salute, venne inviato dal papa Sisto IV presso Luigi XI di Francia a perorare la causa di una crociata per la liberazione di Costantinopoli. Nel viaggio di ritorno, le sue condizioni peggiorarono e morì a Ravenna, in casa di un suo amico veneziano e podestà del luogo, Antonio Dandolo, secondo alcuni avvelenato su istigazione dei cardinali francesi suoi avversari.La sua salma, traslata in Roma il 3 dicembre dello stesso anno, fu inumata nella Basilica dei Santi XII Apostoli.

[4] Vedi pagine seguenti.

[5] Pier Candido Decembrio (Pavia, 24 ottobre 1399 – Milano, 12 novembre 1477), letterato e storico italiano, figlio di Uberto, che ebbe un ruolo sia importante nella vita politica del Ducato di Milano, sia sul piano culturale, seguì le orme paterne, formandosi nelle belle lettere e nelle arti liberali grazie al contatto con alcuni tra i principali esponenti dell’umanesimo lombardo. Il Decembrio tradusse dal greco in latino i libri dal I al IV e il X dell’Iliade, la Ciropedia di Senofonte, alcune Vite di Plutarco (che confluiranno in un loro riassunto, conosciuto come Epitoma) e le Storie di Appiano. La versione più importante, però, fu quella della Repubblica del filosofo ateniese Platone, già compiuta dal padre, ma che lasciava in realtà molto a desiderare perché non revisionata dal punto di vista stilistico. L’opera di revisione fu dunque assunta da Pier Candido tra il 1437 e il 1440, il quale la dedicò poi al reggente d’Inghilterra Humphrey di Gloucester ,sotto il nome di Celestis Politia. Questa traduzione, benché presentasse ancora alcune lacune, fu di importanza fondamentale per la conoscenza del pensiero politico platonico nell’Europa del XV secolo, tanto che ebbe risonanza europea, diffondendosi in Spagna, Francia, Germania e (visto il dedicatario) in Inghilterra. Si occupò anche di volgarizzare la prima Decade dell’Ab Urbe condita di Tito Livio (1430‑1440), i Commentari di Giulio Cesare (1438) e la Storia di Alessandro Magno di Curzio Rufo (1438). Tuttavia, le sue opere più note sono le Vite dei duchi Filippo Maria Visconti (1447) e Francesco Sforza (1461-62).

[6] Giovanni Tortelli (Arezzo, 1400 – 1466) umanista italiano, laureato in medicina, soggiornò a Costantinopoli dal 1435 al 1437. Laureatosi in teologia, nel 1449 divenne cubiculario papale. Coaudiutore di papa Niccolò V, fu nominato bibliotecario della Biblioteca Vaticana. La sua opera più importante è il trattato di dialettica Orthographia, scritto dopo il 1471.

[7] Vedi pagine seguenti.

[8] Flavio Biondo (Forlì, 1392 – Roma, 4 giugno 1463), storico e umanista italiano, fu il primo a coniare il termine Medio Evo e fu lui ad analizzare per primo gli antichi monumenti di Roma con vero e proprio metodo archeologico. Si trasferì a Roma nel 1433 dove iniziò l’attività di burocrate: fu Notaio della Camera Apostolica, segretario di Papa Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III e Pio II. Fu autore di tre enciclopedie che sono alla base di tutte le opere successive sulle antichità romane. Il primo lavoro di Biondo, pubblicato in tre volumi tra il 1444 e il 1446, fu il De Roma instaurata, una ricostruzione della topografia romana antica e tardo-antica basata sia sull’escussione puntuale delle fonti letterarie antiche, sia sull’indagine archeologica dei resti allora visibili. Nel 1459 pubblicò il popolare De Roma triumphante, che narra la storia della Roma pagana come modello per le attività di governo e militari contemporanee. I più importanti lavori di Biondo in campo storico furono l’Italia illustrata, scritto tra il 1448 e il 1458 e pubblicato nel 1474, e l’Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades, scritto tra il 1439 e il 1453 e pubblicato nel 1483.

[9] Vedi pagine seguenti.

[10] 1200 codici al momento della sua morte, alcuni di eccezionale importanza, che spaziano in molti campi della cultura umanistica.

[11] Lanciate principalmente da Martin Mayr.

[12] 6 agosto 1458.

[13] Il figlio bastardo di Alfonso I di Napoli e succeduto al padre.


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