Zoom
Cerca
Marco M. G. Michelini | 25 Aprile 2016

Il Petrarca e le origini dell’Umanesimo

Col termine Umanesimo gli studiosi indicano il vasto movimento di rinnovamento culturale, artistico e filosofico, iniziato nel XV secolo in Italia, che afferma la dignità degli esseri umani. Esso caratterizzò la civiltà europea nel corso del Quattrocento e si pose come forte rottura rispetto al pensiero della filosofia scolastica e al sapere ereditato nel medioevo. Ciò avviene soprattutto mettendo l’uomo al centro della visione della vita e del mondo e sostituendo così l’antropocentrismo al teocentrismo che aveva contraddistinto l’epoca precedente.

Sotto il profilo letterario l’Umanesimo trova le sue prime origini nell’opera e nella personalità di Francesco Petrarca, il quale mediante la sua più attenta indagine filologica sui testi classici e la sua appassionata capacità di rivivere interiormente i poeti latini e i grandi moralisti (Cicerone, Seneca, Boezio, S. Agostino) giunge per primo alla chiara consapevolezza che tra mondo classico e cultura medioevale vi sono delle sostanziali differenze. I testi classici s’impongono allora alla sua meditazione come patrimonio di una civiltà perduta ma riconquistabile, come monumenti di stile che bisogna ricercare e riportare alla luce, ricostruire linguisticamente dopo l’incuria della tradizione amanuense, approfondire nel loro genuino significato spirituale al di là delle travisazioni allegoriche degli interpreti medioevali. Gli antichi diventano così per il Petrarca dei modelli ideali, nella cui imitazione possiamo attingere sempre nuove forze per un maggior slancio interiore e per una rinnovata operosità intellettuale.

In tal modo il Petrarca pone le basi di due atteggiamenti che verranno via via a contraddistinguere quel fenomeno storico-culturale che chiamiamo Umanesimo: la filologia e il senso storico (cioè la consapevolezza che lo spirito umano concretamente si realizza e continuamente si rinnova nell’infinita varietà della cultura e delle forme di vita), due strumenti indispensabili per ogni autentica conoscenza del passato. Si rompe così l’unità concorde e monolitica del Medioevo dantesco, secondo cui le vicende del pensiero e degli uomini non sono che le fasi ininterrotte di una storia assoluta ed eterna che converge in Dio: col procedere e maturarsi del movimento umanistico gli scrittori acquisteranno sempre più chiara coscienza che le varie epoche e civiltà del passato rappresentano ciascuna uno specifico momento della storia dello spirito umano.

Il maggior interessamento del Petrarca alle cose mondane induce altresì nell’ani­mo un nuovo e mondano sentimento della gloria, che non è più, dantescamente, il sigillo di una missione da Dio assegnata all’uomo, ma è una energia umana autonoma e vitale che spinge l’individuo all’operosità e alle nobili azioni e che costituisce di per se stessa un premio, in quanto trasmette, mediante le opere scritte o le imprese compiute, il ricordo degli uomini attraverso lo spazio e il tempo.

Certamente l’opera del Petrarca non sorge isolata e, a parte tutte le componenti storiche e culturali che sono il frutto migliore di quella cosiddetta Rinascita che si attua dopo il Mille, già fra il XIII e il XIV secolo si verifica uno studio più rigoroso della cultura classica da parte di giuristi, notai, grammatici nei centri dell’Italia settentrionale e che prosegue lungo l’intero Trecento soprattutto in ambiente veneto. Lo stesso Boccaccio contribuisce, sia pure in termini un po’ esteriori e divulgativi ad ampliare la diffusione della letteratura classica, anche se il suo merito principale con­siste pur sempre nell’aver affermato con la sua opera il valore della nuova lingua vol­gare e di aver proclamato per via fantastica un più concreto gusto della vita terrena.

Il ritorno alla centralità dell’uomo

Rispetto alla civiltà del Medioevo, l’Umanesimo – come abbiamo detto poc’anzi – riscopre l’autonomia e la dignità dell’uomo come creatura squisitamente naturale e razionale. Questo è uno dei messaggi che tanto la critica (anche recente) e gli umanisti stessi hanno voluto tramandare: la rigida contrapposizione tra i nuovi tempi ed un Medioevo oscurantista, ignorante dei classici, legato ad una visione trascendente dell’uomo che ne sminuiva le possibilità creative, ne impediva le facoltà di dominare la propria storia, ne mortificava gli impeti di conoscenza, ne frustrava i desideri di dominio sulla natura, legandolo a pregiudizi mistici e ad una interpretazione allegorica del fatto scientifico che diveniva simbolo di verità morali. L’Umanesimo vede dunque «l’affermarsi di una visione antropocentrica che mette l’uomo al centro della vita e del mondo e ne rivaluta molti aspetti prima considerati come marginali o subordinati alla concezione teocentrica medioevale, per cui si comincia a distinguere tra divinae litterae e humane litterae: si distingue cioè tra la letteratura che si occupa di Dio e delle questioni propriamente religiose e quella che invece si deve occupare della dimensione umana e terrena, due piani che fino al Trecento erano strettamente collegati e che ora appaiono separati l’uno dall’altro, dotati di un’importanza assolutamente paritetica. La novità non è assoluta, in quanto già le opere di Petrarca e Boccaccio avevano aperto la strada alla rappresentazione dell’uomo e delle sue vicende non più subordinate alla volontà di Dio (si pensi soprattutto al Decameron e alla sua apparente distanza dall’elemento religioso), tuttavia nell’Umanesimo il processo viene portato alle sue estreme conseguenze e, soprattutto, l’uomo diventa padrone di se stesso e protagonista del suo destino nel mondo, senza le remore religiose o i timori di punizioni divine che ancora caratterizzavano il pensiero degli scrittori precedenti. Ciò non significa che l’Umanesimo sia irreligioso o che i suoi autori assumano posizioni apertamente atee, ma è innegabile che la figura umana venga fortemente rivalutata e non sia più vista come qualcosa di fragile e precario di fronte alla grandezza di Dio, anzi si nutre una fiducia ottimistica nelle capacità dell’uomo di plasmare la propria vita e di ricercare la propria felicità in questa terra con le sue capacità, cosa che ha spinto alcuni studiosi a parlare dell’uomo come un essere quasi “divinizzato” e il cui ruolo nel mondo assume un’importanza da protagonista. Legata a questo aspetto vi è poi anche la rivalutazione del corpo umano che non è più visto quale “prigione dell’anima” o fonte di sporcizia e peccato come avveniva nel Medioevo, ma al contrario è considerato una sorta di macchina perfetta creata da Dio a sua immagine e somiglianza e dunque dotata di armonia e proporzioni geometriche, oggetto di studi di carattere pre‑scientifico e artistico (l’esempio più noto è lo schizzo di Leonardo da Vinci noto come “uomo vitruviano”, divenuta l’immagine simbolo dell’Umanesimo). Del corpo si rivaluta quindi la fisicità e la materialità e vengono anche esaltati i piaceri che esso può dare all’uomo, non più visti come qualcosa di peccaminoso da reprimere e soffocare ma come una parte naturale della vita che è perfettamente lecito assecondare, anche nel caso del piacere sessuale che non solo non viene più condannato in sé ma, al contrario, celebrato come qualcosa ordinato appositamente da Dio per spingere l’uomo all’atto della riproduzione e quindi alla conservazione della specie umana (una posizione simile, in parte, a quella già emersa nel Decameron di Boccaccio)»[1].

Caratteri dell’Umanesimo

Sulla scia del Petrarca anche gli umanisti vedono negli autori del passato i maestri esemplari di una spiritualità altissima e di un modo di vivere ricco di insegnamenti. Perciò mentre si proclama il mito del ritorno all’antico, nasce, decisivo nella civiltà umanistica e rinascimentale, il canone dell’imitazione, il problema cioè di servirsi degli strumenti concettuali e delle forme stilistiche dei classici per rinnovare la cul­tura e la vita al di là delle restrizioni mentali del Medioevo. Alla tradizionale incon­cussa autorità aristotelica si sostituiscono così le molteplici auctoritates degli scrit­tori classici; alla medioevale imitatio Christi subentrano le imitazioni delle forme di vita e di stile degli antichi. Il culto della grandezza di Roma era stato vivo anche nel Medioevo e già prima del Petrarca le opere latine erano state spesso lette, studiate, amate (si pensi anche solo a Dante), sennonché soltanto con l’Umanesimo l’ideale del ritorno all’antico e il canone dell’imitazione diventano il punto di par­tenza per conquistare una nuova autonomia spirituale; solo ora l’indagine filologica e la meditazione sui testi del passato riescono a raffinare a tal punto le doti specu­lative da far sorgere quello che noi moderni chiamiamo spirito critico, cioè la capacità di osservare e indagare con senso oggettivo i vari fenomeni della vita umana e della natura. L’imitazione dei classici nella cultura del Medioevo non era stato che travisamento in panni cristiani e romanzi di formule antiche; non mai coscienza storica di un’umanità diversa e antitetica. Invece l’imitazione degli uma­nisti non rimane (salvo che nei mediocri) fatto esteriore, diventa assimilazione vitale, poi, lentamente, autentica creazione ex novo che troverà il suo culmine nel Rinascimento.

In questo appassionato fervore di studi, per cui non solo si riscoprono e si rileggono i codici antichi, ma si procede a un intenso lavoro di analisi e ricostruzione critico-filologica e di traduzione dei testi greci (soprattutto Platone), ecco che a poco a poco civiltà latina, cultura greca, e, verso la fine del secolo, religione ebraica cominciano a emergere con linee sempre più precise, si caratterizzano e si differenziano nella coscienza degli umanisti, proiettate dinanzi alla civiltà contem­poranea: questa nuova visione prospettica della storia (o coscienza storica) fa nascere di conseguenza sempre più la convinzione e l’orgoglio di distaccarsi dal Medioevo e di vivere un’epoca nuova, e rafforza al tempo stesso negli animi un senso più vivo della natura e dell’uomo, che divengono ora i veri centri di interesse sia nelle forme della cultura che nelle manifestazioni della vita. La natura non è più simbolo di uno spregevole e odiato retaggio peccaminoso, né l’uomo è più la decaduta e impotente creatura che, per risollevarsi, attende la Grazia di Dio, come voleva la teologia medioevale, ma è un essere che mediante la sua virtù, cioè il suo operoso agire e la sua iniziativa individuale, può contendere contro la fortuna, può costruirsi la propria vita, lottare per difenderla nel volgere degli eventi.

È una nuova ottimistica fede che non si disgiunge mai tuttavia dal senso del limite, dalla coscienza che ogni riacquisizione del passato e ogni conquista del presente è frutto di uno sforzo tenace, e che ogni possibilità di trionfo è legata alla capacità di scelta, alla misura e all’equilibrio con cui l’uomo saprà attingere, nell’infinita varietà del reale, le forme vitali capaci di stimolarlo e guidarlo. Il senso del limite, della misura, dell’equilibrio, dell’armonia è senza dubbio una caratteristica dominante dell’Umanesimo (almeno come aspirazione), ma induce spesso nell’animo una sfumatura di tristezza o di malinconia, è frutto di una sottintesa tensione e di un sentimento di crisi, da cui tuttavia continuamente si genera un più caparbio desiderio di lotta per il successo finale contro le forze avverse: «Tiene gioco [= giogo] la fortuna solo a chi se gli sottomette», è la frase celebre dell’Alberti che già anticipa Machiavelli.

Strumento essenziale di formazione umana, per inserire l’individuo come elemento valido e attivo nell’ambito della nuova società, diventano gli studia humanitatis, di cui appunto gli antichi erano stati gli iniziatori (e da cui deriva la parola Umane­simo); quegli studi cioè che concernono le indagini sulla varia e complessa fenome­nologia dei problemi dell’uomo. Le humanae litterae (la letteratura, perché in sostan­za la cultura era fino a quei tempi quasi unicamente letteraria) devono perciò avere ora la funzione di educare l’uomo, dandogli una libera formazione spirituale, in modo che ogni individuo acquisisca quelle capacità critiche e analitiche che gli consentano di scoprire le ragioni delle cose, il più riposto segreto delle svariatissime forme e strutture della vita: nell’intimo dei travagli interiori come nell’orga­nizzazione della società civile; nell’elaborazione di un nuovo ideale di arte e lette­ratura come nella meditazione sui quotidiani problemi politici; nelle riflessioni sulla storia passata come nell’analisi dei fenomeni della natura vivente; nella costruzione di un’opera architettonica come nella soluzione dei problemi della famiglia.

Scompare così (sia pur lentamente) la cultura medioevale astratta, universaliz­zante, deduttiva, aprioristica, intransigente. All’unicità di un sapere enciclopedico e dogmatico si contrappone ora la molteplicità delle scelte possibili nelle infinite forme di una cultura sempre più specificata. Non è certo ancora nata la scienza (almeno nel senso attuale), ma già si diffonde una mentalità di tipo scientifico che si avvia a trasformare il mondo prendendone più concreto e razionale possesso.

La nuova cultura

Gli argomenti preferiti dalla letteratura umanistica sono la descrizione idillica della natura vagheggiata con più spontaneo abbandono; l’esaltazione della poesia e delle lettere come strumento di comunicazione civile o come motivo di gloria; la polemica antimonastica come rifiuto della vita ascetica; il tema della dignità dell’uomo; il contrasto tra virtù e fortuna; la scelta fra governo repubblicano o monarchico (che prende vita all’inizio del secolo con l’apologia della fiorentina libertas contrapposta alla tirannide viscontea); il rapporto fra scienze della natura e discipline dello spirito; la celebrazione del mondo antico; il criterio dell’imitazione dei classici o quello delle traduzioni; il problema del latino e del volgare; l’antitesi fra plato­nismo e aristotelismo.

Questi nuovi interessi che hanno sempre come punto di riferimento l’uomo e la sua problematica vengono ora dibattuti (magari fino a diventare luoghi comuni) in specifiche discussioni e trattazioni, che si esprimono attraverso nuovi generi letterari: epistole, dialoghi, invettive, opuscoli polemici, trattati di tipo svariatissimo[2]. Il dialogo è appunto uno dei più caratteristici generi letterari degli umanisti: simbolo di un mutato atteggiamento spirituale, non più dogmaticamente chiuso e intransigentemente assertivo, ma aperto e dialettico, in cui la verità delle conclusioni emerge da un effettivo confronto di posizioni antitetiche. Questo spiega il gusto polemico degli umanisti, le loro ingiuriose e interminabili diatribe. Ma anche la polemica e l’invettiva assumono ora un valore nuovo: non più quello di semplice dissidio insanabile, ma, piuttosto, quello di una tensione che può risolversi in conciliazione.

Nelle numerose accademie, nei convegni, nelle adunanze, nelle gare letterarie, nei circoli intellettuali i vari esponenti dell’Umanesimo si riuniscono per discutere i temi più attuali. La cultura acquista per tali vie un ritmo dialettico e una mobilità mai raggiunta prima. Le città (Firenze, Pavia, Roma, Ferrara, Napoli) gareggiano tra di loro come centri di rinnovati studi; le università si espandono; le corti mecenatesche sono luoghi d’incontro e di discussione, punti di convergenza artistica; i prìncipi si compiacciono di possedere e arricchire musei, biblioteche, pinacoteche, di proteggere l’arte e gli intellettuali. Sorgono le prime grandi scuole umanistiche che mirano all’educazione come armonica sintesi di doti morali e fisiche, artistiche e spirituali (Guarino Guarirni a Ferrara; Vittorino da Feltre, suo allievo, fondatore a Mantova della Ca’ Zoiosa). Veicolo essenziale di questa più rapida circolazione delle idee è l’epistola umanistica, divenuta ormai (col Petrarca) un vero e proprio genere letterario, espressione di un mondo chiuso, che ha una cultura aristocratica e gusti raffinati, prodotto di un clima intellettualmente traboccante di raffinatezze letterarie, che la rendono artificiosa e sincera ad un tempo, elaborata nello stile eppure a suo modo spontanea; strumento decisivo di comunicazione tra i vivi e modello stilistico per i posteri.

Gli umanisti scrivono quasi esclusivamente in latino (almeno nella prima metà del secolo); e qui si pone un importante problema: il significato e la vitalità di questo linguaggio che a noi sembra in certo modo assurdo, perché non legato alla realtà viva della lingua parlata. Certo tutta la cultura umanistica è estremamente aristocratica, quasi per iniziati, e avulsa da ciò che noi oggi intendiamo per proble­matica sociale (ma si tratta di un atteggiamento che in Italia persisterà fino quasi all’età romantica; né si dimentichi che l’uso del latino come lingua specializzata di una certa eminente cultura continuerà a vivere in tutta Europa fino al primo Settecento).

In effetti la riscoperta della civiltà latina comporta un amore quasi idolatrico della parola classica; ma bisogna tenere presente che gli umanisti ritrovano nella lingua antica un mezzo nobile e superiore per esprimere con precisione e chiarezza la loro nuova e complessa tematica, a cui l’incerto volgare non poteva ancora fornire mezzi espressivi e intellettuali adeguati. D’altronde la ricerca degli umanisti di un linguag­gio formale storicamente ricostruito secondo gli schemi ciceroniani era un modo di reagire a quella che a loro sembrava la barbarie medioevale, e cioè di prender coscienza storica dell’epoca nuova, in gara e in contrasto col Medioevo. È reazione consapevole e impegno polemico che induce gli umanisti migliori, nelle loro indagini grammaticali, sintattiche, morfologiche, lessicali del latino, ad approfondire la sostanza stessa di civiltà che dietro a quelle parole si cela e si realizza. Così attra­verso questi studi linguistici anche il volgare, ancora impreciso e debole, ricava giovamento e acquista a poco a poco una più solida struttura.

Umanesimo e religione

Il problema di Dio non è affatto ignorato dagli umanisti, ma non è più il tema centrale delle loro ricerche, né il punto di partenza e di convergenza delle loro indagini. L’Umanesimo, infatti, non si contrappone (almeno coscientemente) al Cristianesimo; ne porta semmai a ulteriore sviluppo talune premesse implicite: il senso della libertà interiore come mezzo di approfondimento spirituale (maestri S. Agostino e Petrarca). Ciò che rifiuta del mondo medioevale cristiano sono le sovrastrutture intellettualistiche della filosofia scolastica, il concetto della rigenerazione dal peccato come mortificazione ascetica, la concezione biblica dell’impotenza umana. Molti umanisti sono fervidi spiriti religiosi o addirittura uomini di Chiesa, vescovi, papi: anzi vi è in molti di loro un’attesa riformatrice che riporti il Cristianesimo alla sua purezza originaria.

La stessa feroce polemica antimonastica, tema dominante di tutta la pubblicistica del Quattrocento, ha appunto lo scopo non tanto di abbattere le forme della vita ecclesiastica, quanto piuttosto di rinnovarle in vista di un miglioramento religioso. E tuttavia, se è vero che il problema di Dio non è posto mai, o quasi, in discus­sione, il movimento umanistico portava con sé le premesse per un profondo travaglio del mondo cristiano: il nuovo spirito critico, minando il principio d’autorità e sottoponendo a revisione concetti, sistemazioni, istituti, organizzazioni, non poteva non insinuarsi lentamente nelle strutture storiche della religione e non mettere in crisi le basi concettuali della Chiesa stessa, proprio perché cercava di abbattere la sostanza di quella civiltà feudale‑medioevale che nella Chiesa aveva trovato la sua giusti­ficazione ideale e la sua realizzazione pratica. La conclusione sul piano politico‑religioso di questa ansia di rinnovamento e di questa crisi degli spiriti e delle istituzioni sarà l’esplodere della Riforma protestante, a cui la nuova filologia testuale elaborata dagli umanisti fornirà un’arma clamorosa e decisiva per la revisione critica dei libri sacri.

Prima metà del secolo: gli umanisti e l’Alberti

Le idee del Petrarca, fiorite per lo più in ambiente veneto-padovano, comincia­rono a diffondersi a Firenze sulla fine del secolo, grazie agli amici e continuatori della sua opera, i quali tradussero tali idee in temi di più vivo impegno politico e civile, oltre che letterario, anche perché questi intellettuali, figli spesso della bor­ghesia mercantile, vivevano in un ambiente e con una mentalità più direttamente legata al senso pratico della vita e al culto delle libere tradizioni comunali. Da spiriti religiosi ancora nostalgici delle vecchie idee come un Giovanni Dominici, già si distaccano sulla fine del Trecento uomini di Chiesa più aperti alla sensibilità nuova, quali Luigi Marsili e Ambrogio Traversari, entrambi aspiranti (fra ostilità e incom­prensione) a conciliare il Cristianesimo, (ma purificato dalle sue scorie temporali) con il gusto della cultura classica. Così Pier Paolo Vergerio, divenuto vescovo di Capodistria, diffonderà l’Umanesimo nell’Europa orientale.

Si formano intanto a Firenze dei veri centri di ritrovo e di discussione che giovano ad approfondire gli aspetti della nuova cultura: la villa degli Alberti detta il Pa­radiso e il Convento di S. Spirito; poco più tardi il Convento degli Angeli. Figura dominante di questi convegni è Coluccio Salutati: amico del Petrarca, umanista e cancelliere della repubblica, che inviterà nel 1396 il dotto bizantino Emanuele Crisolora a insegnar greco a Firenze, dando il primo avvio alla rinascita degli studi greci in Italia. Pur tra nostalgie e ritorni al pensiero medioevale, egli esalta quel motivo della fiorentina libertas che diverrà fondamentale nel suo allievo Leonardo Bruni e che caratterizzerà il primo periodo dell’Umanesimo, detto appunto civile per il suo concreto impegno sui temi della realtà politica contemporanea. Ciò che conta nel Salutati è il suo atteggiamento di pioniere e maestro, di uomo che congiunge il senso della vita attiva con il culto della lette­ratura e della civiltà classica: il suo sterminato epistolario ne è testimonianza e varrà a diffondere le nuove idee fra tutti i dotti d’Italia.

Leonardo Bruni, umanista appassionato e cancelliere attivissimo di Firenze, supera le incertezze e resistenze del maestro, congiungendo il gusto della cultura classica con un interesse vivo per i problemi storici: la Storia fiorentina, dominata dal tema della libertà di Firenze, già precorre in qualche modo il pensiero politico rinascimentale che culminerà in Machiavelli e ci consente di misurare il progresso dei tempi nuovi nel campo degli studi storici. Mentre nei suoi vari scritti affronta apertamente i più vari temi della cultura uma­nistica, e ne diviene il più ascoltato diffusore in Italia e in Europa, grazie anche al vastissimo epistolario, riesce al tempo stesso a comprendere l’importanza della lingua volgare e ne dà testimonianza nelle Vite di Dante e Petrarca. L’altro mag­giore storico del Quattrocento è Flavio Biondo, umanista dottissimo, autore di numerosi libri di storia e di antiquaria, che nella sua opera principale, Decades, tenta di far luce sul Medioevo partendo dalla crisi dell’impero romano per rintracciarvi le origini dell’età contemporanea.

Se in un Niccolo Niccoli la cultura antica vive come gusto antiquario e filologico un po’ pedantesco, in un umanista ben più vivace e brillante come Poggio Bracciolini l’ansia di ricerca dei codici diviene quasi epopea fortunata e vibrante. Così fra il 1414 e il 1417 egli riporta alla luce dai suoi viaggi in Germania e in Francia opere perdute di Cicerone, l’Institutio oratoria di Quintiliano, il De rerum natura di Lucrezio, per non dire che dei ritrovamenti più celebri. Questo processo di riscoperta, dopo il primo vigoroso impulso, proseguirà ininterrotto per tutto il secolo (nel 1421 il vescovo Landriani scopre a Lodi le opere retoriche di Cicerone).

In Poggio Braciolini la conoscenza della civiltà classica si traduce in un sentimento più libero e spregiudicato dell’esistenza umana, con un gusto quasi epicureo e lucreziano: la medioevale mortificazione ascetica della carne non è che ricordo lontano di idolatrie e fanatismi serenamente obliati. Scrittore militante partecipa con furore accanito alle polemiche culturali del tempo attraverso opuscoli e scritti di ogni genere. Egli si muove tra Firenze e Roma, viaggia in Italia, Germania e Francia, ma ancora una volta lo strumento essenziale di comunicazione è costituito dall’epistolario. Spirito profondamente religioso è invece il fiorentino Giannozzo Manetti che partecipò alla vita politica e scrisse il De dignitate et excellentia hominis, per rivendicare, in polemica con la concezione medioevale, il valore umano e terreno dell’uomo. Questo tema della dignità dell’uomo, che trova nel Manetti un primo entusiastico sostenitore, perdurerà sino alla fine del secolo, quando verrà ripreso con novità e forza d’accenti da Pico della Mirandola.

A Roma, intanto, mentre fiorisce lo splendore mecenatesco di papa Niccolò V, grande protettore di letterati e artisti, nasce l’Accademia romana di Pomponio Leto, circolo culturale di un paganesimo ambiguo e fanatico che amava rievocare il culto delle antiche forme di vita. Ma a Roma si afferma come una delle figure più inte­ressanti dell’Umanesimo Enea Silvio Piccolomini, che dopo una giovi­nezza ricca di esperienze e di cultura perviene al soglio pontificio (Pio II 1458) attraverso una fulminea carriera ecclesiastica, grazie alla sua conoscenza della vita politica e alla sua vasta preparazione religiosa e umanistica. Dagli spregiudicati scritti della giovinezza ai Commentari della maturità egli si rivela acuto conoscitore degli uomini e delle loro vicende, aperto e sensibile alla trasformazione dei tempi, e congiunge il senso della vita concreta con una profonda passione di rinnovamento morale. Il suo sogno è, in ultima analisi, quello di fondere il nuovo razionalismo della civiltà urbanistica col tradizionale mondo cristiano: contraddizione intrinseca, giacché il nuovo spirito critico minava le fondamenta di una civiltà millenaria. L’atto conclusivo di questo inconsapevole dramma sarà la Lettera a Maometto: impossibile sogno di riunire Oriente e Occidente per riedificare su basi più vaste una nuova unitaria religione cristiana. L’epilogo fatale in cui sboccherà questa crisi, sul piano politico, sarà la preparazione e l’attesa vana di una crociata contro i Turchi.

Nella Roma di Pio II si svolge contemporaneamente l’opera del massimo inter­prete di quello spirito critico che è la grande conquista storica dell’Umanesimo: Lorenzo Valla. Tra Pavia, Roma, Napoli si muove questo polemista acerrimo e implacabile, che, sebbene a lungo segretario della curia pontificia, si impegna in una continua battaglia culturale per aggredire alla luce della ragione tutte quelle forme di vita che non sono ormai più consone allo spirito dei tempi mutati. Mentre si scaglia contro l’ipocrisia ascetica, avvertita come scandalo di una morale corrotta e corrompitrice, esalta nel De voluptate il valore dell’edo­nismo e dell’interesse. Nelle Elegantiae della lingua latina ricostruisce e celebra appunto quella filologia che gli umanisti avevano riscoperto e che egli assume come strumento concreto di lotta e di demistificazione contro idoli e ipocrisie. Capolavoro polemico e artistico di questo suo atteggiamento illuministico è la Declamano, in cui dimostra falsa la donazione di Costantino: nessuno dei nostri umanisti aveva ancora scritto con passione così fremente un opuscolo, che, basandosi sulla rico­struzione storico‑filologica, divenisse un atto di accusa spietato contro la corruzione ecclesiastica e religiosa dei tempi, e che fosse al tempo stesso (sia pur tra errori e deformazioni) un così vigoroso esempio di indagine critica.

Sintesi di tutta l’esperienza storica e culturale della prima metà del secolo è però Leon Battista Alberti, perché ne porta a una prima conclusione e ne riassume in sé il duplice aspetto: quello che deriva dalla più aulica letteratura ispirata al culto dell’antichità classica e quello che proviene dal nuovo strato sociale della borghesia mercantile, incline per natura sia ad apprezzare la lingua volgare e le arti meccaniche sia a comprendere l’importanza del denaro come strumento di progresso materiale e spirituale nell’ambito della società civile. Dalle opere architet­toniche ai trattati sulle arti figurative; dalla celebrazione della famiglia intesa come microrganismo di tutto il tessuto politico‑sociale all’esaltazione delle ricchezza nell’Economicus; dal Certame coronario del 1441, in cui tenta di rilanciare il volgare, alle numerose opere, scritte appunto in quella nuova lingua che gli aristocratici intellettuali del primo Quattrocento disprezzavano, ovunque si esprime una fede energica nel lavoro umano, operoso e indomito, e nella virtù dell’individuo che si costruisce la vita con la propria volontà e con la propria iniziativa (concezione che già precorre Machiavelli). Tuttavia, al di là di questa ricerca implacabile di equilibrio e armonia, possiamo vedere nell’Alberti il profilarsi di una crisi e di una tensione inconscia quale traluce dai capolavori Momus e Intercoenales pervasi da un tono eversivo e dissacratore della vita e dei suoi valori: un desiderio di rivolta e quasi di anarchia eluso sul piano del comico e dell’iperbolico, che soltanto uno stremato sforzo di volontà e di impegno razionalizzante riesce a dominare e incanalare nelle vie dell’ordine politico, morale, sociale.

Prima metà del secolo: letteratura volgare

Accanto all’opera volgare dell’Alberti si colloca la Vita civile di Matteo Palmieri, il quale negli stessi anni in cui Leon Battista scrive il Della famiglia insiste anch’egli, sia pur con minore profondità, sui temi umanistici della virtù e del lavoro come simbolo di attività umana moralmente impegnata, come strumento di edificazione civile e sociale, rigettando il vecchio ideale ascetico‑monastico avulso da ogni concreto problema di vita organizzata. Ma a parte l’Alberti e il Palmieri, uomo dotato ancora di una buona cultura, le sorti del volgare sono per lo più affidate, in questa prima metà del secolo, a scrittori di minor rilievo che si muovono in un ambito realistico e popolare.

Dall’intensa attività pittorica e scultoria delle botteghe artigiane provengono i trattatisti delle arti figurative, i quali, mentre ne elaborano i principi teorici, affermano il valore di queste arti che il Medioevo aveva disprezzato come “meccaniche”. Le arti figurative sono una delle più grandi conquiste culturali del Quattrocento: il senso della figura umana e il gusto della natura ritratta con occhio realistico rientrano in quell’atteggiamento tipico dell’Umanesimo che fissò la sua attenzione centrale sull’uomo e sulla natura. Il loro rinnovamento, avvenuto nei primissimi anni del secolo (ad opera di Ghiberti, Jacopo della Quercia, Brunelleschi, poi Donatello e Masaccio), costituisce anzi una forma di umanesimo artistico e di impetuosa rinascita del gusto classico che precede quello letterario e che toccherà il vertice, in armonia con le vicende delle lettere, nel Rinascimento. Dal Libro dell’arte del Cennini ai Commentari del Ghiberti al Trattato della pittura dello stesso Alberti prende avvio una tematica e una proclamazione di fede che culminerà nell’opera teorica e pratica di Leonardo da Vinci.

Numerosi gli scrittori in cui i ricordi biografici e familiari si mescolano alla rievocazione dei fatti storici, con una tendenza alla cronaca minuta, al bozzetto, al particolare fissato con immediatezza di sentimento. Se il fiorentino Giovanni Morelli facendo rivivere, sullo sfondo dei fatti storici, le vicende della famiglia Morelli nei suoi Ricordi, anticipa quel tema che diverrà fondamentale nell’Alberti, più autentica passione di storico dimostra invece Giovanni Cavalcanti, le cui ampie Istorie fiorentine continuano, in un volgare non sempre corretto ma interiormente vissuto, la tradizione degli storici trecenteschi. Suo merito, come storico, è l’aver intuito l’importanza dei fenomeni economici e finanziari e di averli spesso utilizzati per illuminare i fatti politico‑militari (rivelandosi, in questo senso, più acuto persino di Machiavelli). Curiosa figura di biografo è Vespasiano da Bisticci, libraio fioren­tino che visse, per ragioni di lavoro, a contatto con i maggiori personaggi politici, religiosi, artistici, letterari dell’epoca e volle, negli ultimi anni, scriverne le Vite per rievocare appunto le figure gloriose di quel periodo culturale che egli aveva direttamente conosciuto.

In un ambito di poesia popolaresca si muovono ancora le esperienze del teatro religioso (tra cui l’autore più noto è Feo Belcari), che hanno ormai perduto quasi completamente ogni senso intimo del dramma cristiano per arricchirsi invece di aspetti più mondani e spettacolari; questi drammi religiosi costituiscono, comunque, insieme alle rappresentazioni sceniche dei goliardi universitari, gli unici esempi teatrali fino alla Favola d’Orfeo del Poliziano.

Uomo pur dotato di vasta cultura religiosa, San Bernardino da Siena è famoso soprattutto per le Prediche volgari, scritte in un tono popolare e semplice proprio per le esigenze del pubblico a cui si rivolgeva. Lontano ormai dagli astrattismi scolastici o dai toni misticheggianti, pessimistici, escatologici del Medioevo, il Santo si rivolge in un colloquio diretto, anzi quasi in una sorta di dialogo vivacissimo, a quell’ambiente borghese di cui egli comprende ed esprime i quotidiani problemi della vita morale, cercando di indirizzarli verso un ideale di onestà e di giustizia, retto dal “buon senso” comune.

Di scarso interesse è, invece, la lirica d’amore, ispirata a un generico petrarchismo. Più originali semmai i sonetti del Burchiello, umile barbiere‑poeta fiorentino, dalla vita scapestrata e misera, che riprendendo i toni comico‑realistici della poesia trecentesca li esaspera fino al parossismo di un linguaggio bizzarro, sconvolto, assurdo, talora incomprensibile, in cui il senso dell’umano, della vita, della cultura si vanifica per cedere il posto soltanto a una realtà beffarda di cose e di oggetti, e, in ultima analisi, alla sostanza linguistica che li traduce in una sorta di analogia pazza e comicamente stravolta. Il modo di poetare “burchiellesco” diventerà un vero e proprio genere letterario, destinato nel Cinquecento a discutibili fortune.

Seconda metà del secolo

Nella seconda metà del secolo il volgare si afferma decisamente sul piano della cultura poetica, sia perché ha ormai compiuto il suo processo di raffinamento lin­guistico ed espressivo a contatto del rinnovato latino, sia perché le corti mecenatesche dei principi si rivelano più interessate alla diffusione e all’uso di una lingua viva in diretto rapporto con la sensibilità dei tempi. Fiorisce così una schiera di poeti, i quali, pur continuando, in genere, ad elaborare gli elementi della cultura umanistica, si fanno interpreti delle nuove esigenze linguistiche. Tre centri geogra­fici emergono nettamente nell’ambito della corte: Firenze (per opera di Lorenzo de’ Medici), Ferrara (sotto Ercole I d’Este) e Napoli (che gode dell’atmosfera culturale favorita da un principe illuminato come Alfonso il Magnanimo).

Caratteristica generale di questa esperienza poetica è un netto distacco da quei temi di vita politica e civile che erano stati essenziali negli scrittori della prima metà del secolo, e l’accentuarsi di un senso di tensione e di crisi sul piano della pura sensibilità, che si traduce in una certa tendenza e simpatia verso i toni senti­mentali che più decisamente affondano le loro radici nell’irrazionalità fantastica dell’animo umano. Ma crisi e tensione da cogliersi essenzialmente a livello inconscio, ché, anzi, sul piano della volontà consapevole vi è semmai il tentativo di arginarli e inquadrarli secondo i canoni di quell’armonia e di quell’equilibrio (o magari anche solo di quel “decoro”) che erano i principi direttivi della cultura umanistica, nonché dell’ambiente politico della corte.

Se nell’ambito mediceo Luigi Pulci, con la sua formazione popolaresca e volgare, esprime nel Morgante una sorta di spregiudicata e paradossale rivolta plebea, che sembra tradursi, in ultima analisi, nel gesto avventuroso di un linguaggio quasi degradato al livello fisiologico della parola e sollevato sul piano del riso e dell’iperbole, all’estremo opposto si colloca invece l’opera poetica e linguistica di Angelo Poliziano. In lui l’esperienza filologica latina e greca di tutto l’Umanesimo tocca il suo vertice quanto a completezza culturale e a dominio formale, e gioca, sul piano della sensibilità umana, la sua ultima carta nel tentativo di tradursi essa stessa in sostanza poetica. Al di là di questo impossibile sogno, che celebra il culto dell’immagine e della parola antica come momento esclusivo ed eterno di vita, rimane nella Giostra un sentimento adolescenziale dell’amore, tradotto in termini di visione e contemplazione pittorica. Un sentimento di giovinezza quasi come simbolo nostalgico della perduta età dell’oro, che, sostituitosi ormai all’attesa del medioevale paradiso cristiano, esprime come forse nessun altro tema quell’ansia di ritorno alla Natura che fu conquista e tormento di tutto l’Umanesimo. Nella Favola d’Orfeo questo tema diverrà il mito del poeta che mediante il canto dell’arte ricon­giunge la Natura con l’uomo: ancora motivo tipicamente umanistico, che solo nel Sannazaro troverà un autentico appassionato interprete.

Lo stesso Lorenzo de’ Medici è poeta di raffinata cultura che si ispira sia al Pulci che al Poliziano, oltre che ai filosofi del suo studio. Non un calcolo banale di propaganda politica domina l’attività letteraria di quest’uomo spregiudi­cato ma ricco di sensibilità, bensì la ricerca di “equilibrio” tra un sentimento nostalgico di vitalità immediata e istintivamente conforme alle manifestazioni della realtà sociale e una implacabile consapevolezza critica, che quelle forme stesse mette automaticamente in crisi, mediandole e accettandole solo nel gioco della raffinata idealizzazione stilistica. Tensione e crisi implicita in tutto l’Umanesimo; ricerca di un “equilibrio” fra contrapposti elementi, che, nel caso del Magnifico, era, a quanto pare, più facilmente attuabile nell’ambito della concreta storia politica d’Italia.

A Firenze si segnalano altresì i due massimi filosofi del Quattrocento. Marsilio Ficino elabora una specie di visione estetica del mondo (che influirà su tutto il Rinascimento), riprendendo molti dei precedenti temi umanistici e cercando di fondere, sulle basi del platonismo, filosofia e religione in una concezione ottimi­stica e pacificata, e alimentando al tempo stesso un senso della natura come dinamismo vitale che diverrà dominante nell’animo di Leonardo. Pico della Mirandola, che estende la sua sterminata conoscenza dell’antico persino al mondo orientale, traduce in pensiero mistico e razionalistico una profonda ansia di rinnovamento spirituale, nel tentativo di ritrovare in tutte le filosofie e in tutte le religioni la coincidenza con la rivelazione cristiana. Il simbolo più drammatico di questo momento di crisi diverrà, sul piano della concreta realtà politica, il rogo su cui il Savonarola consacrerà quella sua disperata e profetica ansia di rinnova­mento, che troverà un autentico sbocco solo nella Riforma. Un senso di travaglio e di desolato pessimismo quale possiamo ritrovare nella più bella lirica del Quat­trocento: la Canzone alla Morte di Pandolfo Collenuccio, uomo politico e colto umanista, la cui opera di storico intelligente desterà interesse più tardi in ambito protestante.

La corte estense è il centro di raffinata eleganza e cultura in cui il Boiardo scrive il suo poema cavalleresco Orlando Innamorato. Tutto il poema si muove all’insegna del sentimento dell’amore e del meraviglioso, che vi assume quasi il carattere emblematico di una fortuna mobile e irraggiungibile, eppure tena­cemente perseguita con fede inesausta da quella virtù umana che è espressa nella rievocazione nostalgica dello spirito cavalleresco. Ricerca indomita d’avventura che non provoca mai né tormento né angoscia, perché tutta calata nel sentimento vitale della lotta capace sempre di sfidare le forze dell’irrazionale. L’uomo nuovo dell’Umanesimo ha ritrovato in tal modo, a contatto della libera natura e della limpida fantasia, un più sereno e forte equilibrio.

La novellistica aveva avuto il suo esempio più felice in quel racconto dal viva­cissimo intreccio intitolato il Grasso Legnaiuolo (che narra di una burla giocata dal pittore Brunelleschi ai danni di un falegname), ma solo nel Novellino di Masuccio Salernitano i toni ora comici ora tragici, anzi persino orridi e truci, diventano sul piano dell’arte passione intensa di vita, attraverso esasperazioni grottesche e stravolte che sembrano indicare quasi una disperata impotenza ad ade­rire, di fronte alla crisi dei tempi, alla realtà nuova di un mondo morale più libero e più sereno.

Masuccio era vissuto nella corte aragonese, ma non partecipò a quel movimento culturale che diede vita all’Accademia pontaniana e i cui massimi esponenti furono il Sannazaro e, appunto, il Pontano. Il limite più grave del Pontano è di non aver inteso l’importanza della lingua nuova e di essersi rinchiuso con gusto umanistico un po’ tardivo nel culto della lingua latina, in cui tuttavia tradusse, con elegante linguaggio, una tematica culturale ancora abbastanza viva e un sentimento della vita che oscilla fra sensualità e tenerezza. Con l’Arcadia del Sannazaro la lingua volgare ottiene una sanzione definitiva sul piano napoletano e nazionale; ma l’im­portanza dell’opera è essenzialmente nel suo carattere quasi di biografia interiore, che, sia pur attraverso il gioco della finzione arcadica, ci rappresenta l’inconscio travaglio poetico di chi cerca ormai nella fuga verso l’irrazionale un più genuino contatto con la Natura primigenia.

In questo romanzo bucolico‑pastorale il mito della natura e il mito della poesia, centri di attrazione di tutta la sensibilità umanistica, tendono a identificarsi e a concludere il loro processo di convergenza all’insegna del mitologema orfeico, sim­bolo appunto di una originaria felicità di natura riconquistabile ormai solo nell’atto comunicativo del trionfo poetico, e che tuttavia implica ancora crisi e tormento per le sue inconsce implicazioni di ardua, temeraria conquista sul piano della realtà storica e psicologica. Questo problema di una creatività linguistica ci appare altresì, ma in forma spasmodica e ossessionante, in un’opera “bizzarra” come il Polifilo, dove la tensione del linguaggio esplode ora sul piano di una cultura aulica abnorme e sfrenata: parossistica fuga nel regno dell’irrazionale ancora una volta giocata nell’ambito dell’esperienza filologica.

Il nuovo rapporto con la natura

«Il Quattrocento vede l’emergere di un approccio del tutto nuovo alla natura e al mondo fisico nel suo complesso, poiché questo non è più considerato il “libro di Dio” come nel Medioevo e quindi semplice espressione della volontà divina, ma come un organismo regolato da leggi che l’uomo può in alcuni casi cercare di comprendere e manovrare a proprio vantaggio, in un’ottica che pertanto appare fortemente innovativa rispetto al secolo precedente in cui tali posizioni sarebbero apparse quasi sacrileghe. Grande sviluppo assumono ad esempio la magia e gli studi cabalistici, volti a dominare le forze della natura con pratiche ancora superstiziose e incoerenti, mentre più interessante è l’evoluzione della tecnica che dà luogo a scoperte e innovazioni decisamente moderne, tanto nel campo dell’anatomia (con l’osservazione e la descrizione del corpo umano, visto come “macchina meravigliosa” immagine di Dio), quanto in quello delle arti figurative (specie architettura e pittura, con la scoperta della prospettiva) e in quello dell’ingegneria (con la progettazione e, in qualche caso, la realizzazione di macchine decisamente avveniristiche e inimmaginabili qualche decennio prima)»[3].

In questa direzione di un concentrarsi dell’attenzione verso gli elementi scientifici ma anche irrazionali, il secolo può degnamente essere chiuso da Leonardo da Vinci – attivo nel campo della pittura, della scultura, dell’ingegneria e della cultura in genere (benché si considerasse “omo sanza lettere”, in quanto ignaro del latino) – la cui vita è una delle più alte avventure dell’intelligenza e della fantasia, condotta in una passione e tensione spirituale stremata eppure umanamente equilibratissima, perché consapevolmente assunta e sempre controllabile alla luce della razionalità indagatrice. Il vecchio tema umanistico della Natura è divenuto motivo unico ed esclusivo dell’anima di Leonardo, ma senza più nulla di idillico e di evasivo: si tratta ora di una Natura permeata e sconvolta da un segreto dinamismo vitale, dominata da una sorta di ideale tensione cosmica, anzi retta implacabilmente, sin nelle sue più intime fibre, quasi da un fato cosmico provvidenziale, che l’uomo scopre al contatto visivo con gli oggetti e penetra con l’energia appassionata dell’in­telletto. In questa tensione leonardesca, come nella tragedia di un Savonarola o nel travaglio di Michelangelo, si traduce il senso oscuro di un antico mondo che crolla, testimonianza conclusiva di un secolo di esperienza e messaggio di con­quista per la nuova età storica del Rinascimento.

La diffusione della stampa

Tra le innovazioni più importanti del XV secolo, un ruolo di assoluta importanza è occupato dall’introduzione della stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johann Gutenberg (1400 ca. – 1468), che consisteva nell’allineare i singoli caratteri in modo da formare una pagina, che veniva cosparsa di inchiostro e pressata su un foglio di carta. Ma la vera innovazione era rappresentata dalla possibilità di riutilizzare i caratteri. Infatti, con la xilografia, cioè la tecnica precedente, la matrice di stampa veniva ricavata da un unico pezzo di legno e, finché non si rompeva (cosa che accadeva spesso), poteva essere impiegata solo per stampare sempre la stessa pagina. La lega tipografica per i caratteri di Gutenberg, invece, era formata da piombo, antimonio e stagno, raffreddava velocemente e resisteva bene alla pressione esercitata dalla macchina per la stampa (un derivato della pressa a vite usata nella produzione del vino).

La stampa a caratteri mobili «costituì una vera e propria rivoluzione nella diffusione culturale in Occidente e risolse i molti problemi che la tradizione manoscritta aveva posto nei secoli, anzitutto rendendo più facile e veloce la riproduzione dei testi ed eliminando gli errori di copiatura che in molti casi avevano corrotto le opere antiche, creando equivoci e confusioni. Anche se il libro stampato nel XV secolo (il cosiddetto incunabolo) è ancora un oggetto prezioso la cui diffusione è assai limitata, la stampa aumenta comunque il numero di copie che possono essere diffuse di un’opera e risolve i problemi legati alla grafia “oscillante” che rendeva spesso di difficile lettura i manoscritti medievali, creando dei caratteri dell’alfabeto che, pur non essendo ancora standard come in età moderna, tendono ad essere simili e facilitano la decifrazione del testo da parte di un pubblico non necessariamente specialistico»[4].

La stampa contribuisce, inoltre, ad evitare il proliferare di copie manoscritte non autorizzate (o controllate) dall’autore, un fenomeno, questo, che ha creato non poche difficoltà ai moderni studiosi di filologia per ciò che riguarda, appunto, la lezione esatta di numerosi testi (è il caso, ad esempio, della Commedia di Dante, della quale non ci è pervenuto l’autografo), anche se va tuttavia precisato che il concetto di “proprietà letteraria”, o di “diritto d’autore”, nel modo in cui è dai contemporanei inteso, nel XV secolo era ancora del tutto sconosciuto alla civiltà europea e verrà introdotto nella legislazione solamente molto più tardi.

Sebbene nel breve giro di cinquant’anni l’avvento della stampa a caratteri mobili avesse prodotto circa trentamila titoli, per una tiratura superiore ai dodici milioni di copie, questo non deve farci pensare che nel XV-XVI secolo sorgesse una vera e propria industria libraria, anche perché il pubblico a cui le opere stampate potevano rivolgersi era ovviamente poco numeroso e alquanto elitario. Nonostante tutto questo, però, «la figura dello “stampatore” acquista un peso sempre maggiore nella società umanistica e alcuni tipografi contribuiscono non poco alla diffusione della cultura in Italia, tra cui merita citare soprattutto la famiglia Giolito attiva in Piemonte e a Venezia, che realizzò edizioni del Canzoniere petrarchesco, del Decameron di Boccaccio e del Furioso di Ariosto, mentre Aldo Manuzio (1450-1515) creò una tipografia a Venezia che realizzò alcune delle principali edizioni in età umanistica dei classici greci e latini, creando inoltre il prototipo del libro moderno anche con innovazioni legate al tipo di caratteri usati, venendo ben presto imitato da altri stampatori dell’epoca. Infatti, le botteghe dei tipografi nel XVI secolo non furono solo officine artigianali per la realizzazione pratica dei libri, ma divennero dei veri e propri centri culturali che contribuivano efficacemente alla diffusione del sapere (pur essendo l’alfabetizzazione ancora molto limitata)»[5]. Per tali ragioni, ben presto la stampa allarmò gli ambienti ecclesiastici e politici, che vedevano in questo fenomeno un rischio di destabilizzazione del sistema in atto. La Chiesa, dunque, come del resto gli altri governi europei, attuò ben presto un’attiva opera di censura e controllo della diffusione dei testi (in special modo nel secondo Cinquecento, durante il periodo della Controriforma, il che costrinse molti stampatori a trasferirsi nell’Europa del nord), creando l’Indice dei libri proibiti.

Alla diffusione della stampa va poi anche riconosciuto il merito non solo di aver contribuito a fissare la forma e le regole grammaticali della lingua volgare in Italia[6], anche attraverso le discussioni che in epoca rinascimentale portarono alla costituzione di un “canone” linguistico e letterario che influenzò poi profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi[7], ma anche un contributo decisivo all’alfabetizzazione di massa, contribuendo così al fiorire di un’epoca nuova nella comunicazione umana.

***NOTE***

[1] http://letteritaliana.weebly.com/lumanesimo.html

[2] Molti di questi generi letterari, d’altronde, erano già in uso presso gli antichi, e la loro ripresa costituisce perciò un aspetto molto significativo di tale ritorno all’antico.

[3] In http://letteritaliana.weebly.com/lumanesimo.html

[4] In http://letteritaliana.weebly.com/lumanesimo.html

[5] In http://letteritaliana.weebly.com/lumanesimo.html

[6] Il processo di uniformazione linguistica e normalizzazione ortografica subì un forte incremento ad opera dei tipografi, che avevano l’esigenza di raggiungere mercati lontani. In questo modo la patina linguistica regionale che i copisti delle varie regioni aggiungevano alla lingua del manoscritto da diffondere venne progressivamente attenuandosi.

[7] I tipografi infatti si legavano spesso alla collaborazione di scrittori e studiosi d’eccezione, com’è il caso di Aldo Manunzio e di Pietro Bembo.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO»

Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar

Devi essere collegato per lasciare un commento.