Dopo la morte di Anastasio venne unanimemente scelto quale Vescovo di Roma Innocenzo. Poco si conosce di quella che fu la sua vita prima dell’elevazione alla Cattedra di Pietro. Il Liber Pontificalis dice che era originario di Albano Laziale e che suo padre si chiamava anch’egli Innocenzo. Secondo Girolamo, invece, egli era figlio di papa Anastasio, e quindi nato prima che questi fosse consacrato. Ciò che sembra comunque sicuro è che egli abbia fatto parte del clero romano, e che fosse diacono di Anastasio o un membro della sua più stretta cerchia di collaboratori. La sua sollecitudine verso tutte le Chiese è testimoniata dal suo stesso epistolario[1], che rappresenta anche la fonte principale per il suo pontificato, in quanto è più ricco di quello di tutti i suoi predecessori sulla Cattedra romana. Ma esso non ci attesta soltanto la molteplice attività di Innocenzo I ed i suoi frequenti interventi negli affari delle altre Chiese, ma ci rivela anche la sua forte personalità e la piena coscienza che egli ebbe della propria autorità e delle prerogative della sua sede, l’azione che egli dispiegò per l’affermazione teorica e pratica del primato del Vescovo di Roma. In questo senso egli è sicuramente uno dei Pontefici più significativi del V secolo, e quello che di sicuro si avvicinò maggiormente alla figura del più grande Papa del secolo: S. Leone Magno.
All’inizio del suo pontificato, Innocenzo intrattenne normali relazioni con la Chiesa Orientale, la quale data la sua organizzazione regionale, con i centri di Alessandria, Antiochia e i tre Esarcati – allora in via di assorbimento da parte della sede di Costantinopoli – si aiutava con i propri mezzi, ricorrendo al Papa solo in casi estremi. Nel 398 era stato eletto Patriarca a Costantinopoli Giovanni Crisostomo, che era stato preferito dalla corte al candidato presentato da Teofilo di Alessandria, il quale sperava forse in tal modo di impedire l’ulteriore espansione della sede costantinopoliana a danno del primato goduto sino ad allora nella chiesa orientale dalla sede alessandrina.
Nel 400-401, Teofilo, quando aveva bruscamente mutato la sua ammirazione per Origene in condanna, aveva espulso dall’Egitto i suoi oppositori con l’accusa di origenismo, e costoro, rifugiatisi a Costantinopoli, furono caritevolmente accolti da Crisostomo, che pure non li ammise alla sua comunione. Ma essendo costoro perseguitati anche nella capitale dagli emissari di Teofilo, decisero di rivolgersi all’Imperatore per chiedere Giustizia. Arcadio fece svolgere un regolare processo che si concluse con la condanna per calunnia degli inviati di Teofilo e con la citazione del Vescovo alessandrino presieduto da Giovanni. Questa citazione andava contro il diritto vigente, essendo la diocesi d’Egitto sui iuris ed il Vescovo di Alessandria responsabile solo davanti al Concilio d’Egitto. L’Imperatore, però, fu irremovibile e Teofilo, pur senza troppa fretta, dovette cedere; quindi si presentò a Costantinopoli, facendosi accompagnare da ventinove Vescovi d’Egitto. Lavorando poi con scaltrezza e distribuendo denaro a profusione, riuscì in brevissimo tempo a capovolgere la situazione a proprio favore, diventando da accusato accusatore; e in un Sinodo da lui indetto e celebratosi sotto la sua presidenza nella villa della Quercia vicino a Calcedonia (estate del 403) riuscì a far deporre Giovanni Crisostomo ed a farlo esiliare.
Questo primo esilio fu assai breve, sia perché il popolo si era schierato dalla parte del proprio Vescovo sia perché l’Imperatrice, che in quel periodo aveva abortito, aveva dismesso il suo atteggiamento ostile nei confronti di Crisostomo, favorendo il suo ritorno. I nemici del Patriarca, comunque, non cessarono di tramare contro di lui e nel volgere di un paio di mesi riuscirono nuovamente a mettergli contro l’Imperatore, che per la festa della Natività del Signore comunicò a Giovanni che non avrebbe partecipato alla liturgia se prima non si fosse discolpato dalle accuse che gli venivano contestate. Questa volta Teofilo non si presentò a Costantinopoli per giudicare il Crisostomo, ma consigliò ai vescovi suoi amici ritornati nella capitale di farlo condannare[2]. E così accade: nel 404, durante la settimana di Pentecoste, Giovanni Crisostomo, che da circa due mesi era già agli arresti nel palazzo episcopale, venne definitivamente deposto ed esiliato, dapprima a Cucuso in Armenia ed infine a Comana nel Ponto, dove morì nel 407.
È del tutto impensabile che simili avvenimenti fossero sconosciuti a Roma. Infatti entrambe le parti misero al corrente il papa dell’accaduto. In un primo momento arrivò un lettore di Alessandria che recava ad Innocenzo una lettera di Teofilo, nella quale si annunciava l’avvenuta deposizione di Giovanni, senza tuttavia indicare né i motivi della sentenza né il tribunale che l’aveva pronunciata. Successivamente giunsero quattro vescovi amici di Giovanni con tre lettere scritte alcuni giorni prima che Crisostomo fosse esiliato: una di Giovanni stesso[3], la seconda di quaranta vescovi e la terza dei chierici rimastigli fedeli. Innocenzo comprese bene la gravità estrema della questione, ma poiché verso la Chiesa d’Oriente era opportuno muoversi con massima prudenza, egli rispose sia a Giovanni che a Teofilo che conservava loro la sua comunione e suggeriva la riunione di un Sinodo con giudici imparziali per l’esame della vertenza. Successivamente, dopo che Teofilo gli aveva inviato gli Atti del Sinodo della Quercia, egli ripeté[4] al Vescovo alessandrino che egli non poteva sottrarre la comunione a Giovanni sino a che un Sinodo non lo avesse giudicato secondo i canoni del Concilio niceno, che erano i soli ammessi dalla Chiesa romana[5]. Considerata la tradizionale amicizia tra Roma ed Alessandria, ad Innocenzo questa presa di posizione a favore Giovanni Crisostomo dovette costare non poco. Perciò, ricevuta la notizia dell’esilio di Giovanni e della persecuzione dei suoi seguaci, nonché dell’avvenuta elezione di Arsacio a suo successore, riunì in un Concilio i Vescovi italiani e decise di convocare un sinodo di Vescovi orientali ed occidentali a Tessalonica. Riuscì a convincere anche l’Imperatore Onorio della necessità del Sinodo, il quale ne scrisse al fratello Arcadio. Purtroppo, le relazioni tra le due parti dell’Impero erano parecchio tese, al punto che la legazione dei Vescovi che portava la lettera di Onorio, quando giunse in territorio orientale, fu arrestata e condotta a Costantinopoli. I Vescovi d’Occidente furono subito rimpatriati, mentre quelli orientali vennero esiliati. Ciò accadeva nel 406 e nel 407 – come già si è detto – Giovanni Crisostomo moriva in esilio. Innocenzo I, allora, separò dalla sua comunione Teofilo egli altri Vescovi orientali, mettendo quale condizione per la riconciliazione la riabilitazione di Giovanni, ossia la reposizione del suo nome nei dittici. Costantinopoli ed Alessandria soddisfecero alla condizione solo dopo la morte di Innocenzo; Antiochia, invece, si riconciliò con Roma fino dal 414, grazie al Vescovo Alessandro, il quale, subito dopo la sua elevazione, ripose i nome di Giovanni nei dittici ed implorò la comunione del Papa, che fu lieto di concedergliela. Alessandro, inoltre, consultò Innocenzo riguardo ai diritti della sede antiochena. Il Pontefice rispose che si dovevano mantenere ad Antiochia i diritti riconosciuti da Concilio niceno, aggiungendo che il Vescovo di Antiochia aveva giurisdizione sopra la diocesi d’Oriente, essendo stata la città prima sede del primo apostolo. Un fatto questo cheavrebbe potuto rendere Antiochia uguale a Roma, se il suo privilegio non fosse stato soltanto temporaneo, mentre quello di Roma fu definitivo. In questo modo il Papa ribadiva non solo il primato di Roma con discrezione e deferenza per l’apostolicità di Antiochia, ma ribadiva anche i diritti della sede antiochena nei confronti dell’ascesa di Costantinopoli.
Al momento dell’elezione di Innocenzo I, incombeva già sull’Impero in decadenza, su Roma e sul mondo cristiano una grave minaccia: i barbari. Infatti, la divisione che Teodosio aveva fatto prima di morire – ad Arcadio l’Impero d’Oriente, ad Onorio l’Impero d’Occidente – si era rivelata quanto mai nefasta, perché dalla separazione amministrativa si era bene presto passati ad un divisione effettiva dei due Imperi. E per quanto i due Imperatori formassero un collegio, promulgassero insieme le leggi e designassero di comune accordo i consoli annuali, di fatto ognuna delle due parti svolgeva una propria poitica e ognuna pensava solo alla propria difesa senza occuparsi di venire in aiuto all’altra, quando addirittura non dirigeva i barbari verso il territorio dell’altra con l’intenzione di trarne qualche vantaggio.
Questo antagonismo tra Impero d’Occidente e d’Oriente non tardò molto a produrre i suoi venefici frutti. Già nel 395, subito dopo la morte di Teodosio I, i goti di Alarico[6], che vivevano vicino al Danubio ed erano pressati alle spalle dagli Unni, ruppero l’alleanza con Roma e saccheggiarono la Tracia. Stilicone[7] mise insieme un esercito e marciò contro di loro, ma l’Imperatore Arcadio – per timore che Stilicone mirasse in realtà a conquistare il dominio di Costantinopoli – ordinò alle truppe orientali, che formavano una parte dell’armata, di far ritorno in Oriente. Stilicone obbedì e rimandò indietro le truppe, che di fatto non avevano fatto ritorno in Oriente dopo la battaglia del Frigido, indebolendo in tal modo il suo esercito. Successivamente, nel 397 Stilicone sconfisse Alarico in Macedonia, ma il re barbaro riuscì a rifugiarsi sulle montagne. In quello stesso anno sedò anche la rivolta di Gildo[8] in Africa, mentre nel 401 in Rezia sconfisse i Vandali ed altre tribù barbariche dedite alle razzie.
Secondo la maggior parte delle fonti, Stilicone avrebbe combattuto altre due grandi battaglie contro Alarico a Pollenzia (Pollenzo) nel 402 – dove la moglie e i figli di Alarico sarebbero stati fatti prigionieri – e a Verona nel 403. La dinamica di tali battaglie resta tuttavia sconosciuta, nessuna si rivelò decisiva, e Alarico poté sempre sfuggire ad un disastro definitivo. Per cui diversi storici pensano che in realtà Stilicone, a corto di soldati, avesse cercato un accomodamento e forse addirittura un’alleanza con il potente esercito barbarico contro l’Impero romano di Oriente. Tali dubbi sono confermati dalla decisione con cui invece difese l’Italia dall’invasione dei Goti di Radagaiso nel 406, che furono circondati e sterminati presso Fiesole con le ultime truppe romane rafforzate dai Visigoti di Saro[9]. Per difendere l’Italia fu però necessario sguarnire le frontiere della Gallia, e proprio nel dicembre del 406, attraversando il Reno ghiacciato presso Mogontiacum, Vandali, Alamanni, Burgundi, Franchi e Svevi invasero la provincia. L’immagine resta di portata storica epocale, in quanto questi popoli non sarebbero mai più usciti dall’Impero e vi avrebbero fondato, insieme agli stessi Visigoti, i primi regni romano-barbarici. L’invasione, secondo la tradizione storica, causò immani massacri.
In concomitanza con questi avvenimenti, un generale di nome Costantino[10], discese dalla Britannia (oramai completamente abbandonata dalle legioni) con le sue truppe ed avendo momentaneamente ragione sui barbari, fu proclamato Imperatore ad Arles. Stilicone cercò di essere energico com’era stato con Radagaiso, ma non gli riuscì. La Gallia restò abbandonata, e Alarico iniziò a premere sulle frontiere dell’Italia. Era il canto del cigno per Stilicone: la debolezza dell’impero, pur imputabile ad una catena di eventi scatenati dalla sconfitta di Adrianopoli e dall’inutile carneficina del Frigido, era palese. Per di più la sua origine non romana ed il suo credo ariano gli procurarono odio tra i cortigiani imperiali, che complottarono contro di lui. Il 13 agosto 408 l’esercito si ammutinò a Pavia, uccidendo almeno sette ufficiali anziani. Stilicone si ritirò allora a Ravenna[11], ma l’Imperatore Onorio, geloso del suo prestigio, lo fece imprigionare e giustiziare il 22 agosto 408.
La morte di Stilicone si dimostrò fatale, perché Alarico tornò a presentarsi minaccioso in Italia, chiedendo oro e la Pannonia come sede per il suo popolo. Al rifiuto imperiale, il re barbaro mosse su Roma, la cinse d’assedio, portandola sull’orlo della carestia, e non si ritirò se non dopo aver ricevuto dal Senato una grossa somma d’oro. Quindi si trasferì con le sue truppe in Toscana, dove liberò un gran numero di schiavi germanici.
Dopo un mancato accordo con Onorio, trincerato a Ravenna, che aveva respinto le sue nuove richieste, giudicandole troppo gravose (concessione ai Goti di terre nel Norico, nelle Venezie e nella Dalmazia, nonché ulteriori elargizioni di denaro e consegna di vettovaglie), Alarico, che aveva ricevuto rinforzi dal cognato Ataulfo, nel 409 assediò nuovamente Roma, costrinse il Senato a deporre Onorio e a proclamare Imperatore Prisco Attalo, prefetto della città. Questi però non aveva la personalità per esautorare Onorio e, quando rifiutò di mandare truppe nella Provincia d’Africa che si era ribellata, Alarico lo depose e lo tenne in sua custodia insieme a Galla Placidia, la sorella di Onorio.
Nacque così l’idea di una ambasceria a Ravenna per accondiscendere alle richieste del re goto; di essa, composta per lo più da senatori, fece parte anche Innocenzo I. Fu un momento importante questo per la Chiesa di Roma, impegnata come fu in una attività civile che dà un’immagine nuova della figura del suo Vescovo. Tutto, comunque, risultò inutile. Alarico, spazientito dagli indugi dell’Imperatore e infuriato anche per un proditorio attacco di Saro (passato nuovamente con Onorio) al suo accampamento, ruppe bruscamente le trattative con Ravenna e si diresse per la terza volta contro Roma, dove, il 24 agosto del 410, dopo che la porta Salaria era stata aperta a tradimento, riuscì a penetrare, saccheggiandola per tre giorni[12].
Giacché si trovava ancora a Ravenna, al Papa fu risparmiata la vista di un tale scempio. E’ tuttavia probabile, come attesta Sozomeno[13], che Innocenzo avesse avuto delle trattative con il re Goto, alle quali si dovette, molto probabilmente, se nel generale saccheggio della città vennero risparmiate le chiese e le basiliche degli Apostoli, che poterono servire da rifugio alla popolazione. E questo sembrerebbe confermato da alcuni episodi ricordati dal Gregorovius[14] sulla scorta di leggende e notizie storiche dell’epoca. Tutto questo può accreditare il concetto, come osserva il Falconi[15], di un Innocenzo I precursore di S. Leone Magno come defensor Urbis, in un impegno civile della sua persona. E per quanto nelle sue lettere non ricorrano accenni patetici al saccheggio di Roma, quali invece incontriamo presso altri suoi contemporanei[16], ciò è dovuto dal genere delle stesse; onde pare illogico concludere, da quell’assenza, che il Papa fosse indifferente alla rovina dell’Impero e preoccupato soltanto di accrescere la propria autorità.
Appena ritornato a Roma, Innocenzo I dovette sicuramente rimettersi all’opera per riparare quei danni morali e materiali che l’occupazione dei Goti aveva procurato alla città. E senza dubbio, come S. Agostino in Africa[17], anch’egli dovette fronteggiare la violenta campagna dei pagani contro il cristianesimo[18], presentato come responsabile della rovina di Roma. E proprio sotto il pontificato di Innocenzo vennero emanate le più severe leggi di interdizione dell’antico culto pagano, sebbene non si possa determinare con certezza quale e quanta sia stata l’influenza del Pontefice riguardo alla loro promulgazione.
Molti studiosi sono concordi nel sottolineare l’importanza speciale che il pontificato di Innocenzo ha avuto per il progresso del primato del Vescovo di Roma. Sarebbe però errato affermare che questo primato fosse lo scopo unico, o anche solo predominante, di tutta la sua attività, che fu piuttosto ispirata dalla preoccupazione pastorale e dalla coscienza del dovere, che gli incombeva come “apice” dell’episcopato, di promuovere l’osservanza della disciplina ecclesiastica, di salvaguardare l’unità della Chiesa che – in tempi così calamitosi per l’Occidente – rischiava di andare compromessa, ma soprattutto di sorvegliare affinché fosse conservata la purezza della fede. Con questi e per questi obbiettivi Innocenzo I accolse sempre con gioia le richieste di istruzioni circa punti particolari della disciplina ecclesiasti, della liturgia e della vita cristiana che gli venivano rivolte dai Vescovi della sua circoscrizione metropolitana o dalle Chiese occidentali[19]. E nelle sue risposte è possibile notare la ferma volontà di dare ogni spiegazione e dileguare ogni dubbio con una precisione mirabile. Ma poiché nella Chiesa di Roma si erano conservati incorrotti gli usi e le tradizioni stabilitivi da S. Pietro, era chiaro che tutte le Chiese dell’Italia, della Spagna, della Gallia e dell’Africa – fondate da missionari inviati da Pietro o da loro successori[20] – avevano l’obbligo di uniformarvisi.
Questa uniformità Innocenzo la voleva non per accrescere il proprio primato, ma per uno scopo pastorale: non generare scandalo nei fedeli, i quali – al vedere nelle varie Chiese pratiche diverse – potevano essere indotti a pensare o che le Chiese non concordassero tra loro, o che gli Apostoli ed i loro successori avessero seguito usi contrari. Inoltre egli era convinto che l’esatta osservanza da parte degli ecclesiastici delle prescrizioni dei canoni avrebbe fatto cessare nella Chiesa ogni ambizione ed avrebbe dissipato ogni dissenso, facendo regnare la concordia e scongiurando ogni pericolo di eresia e di scisma. In quasi tutte le sue lettere, sia quelle scritte spontaneamente sia quelle sollecitate da altri Vescovi, risuona dunque un unico motivo: il richiamo all’osservanza di una comune disciplina nonché l’ammonimento a denunziargli i trasgressori, giungendo a disporre che per le causae maiores, dopo il giudizio del Vescovo locale, si mandasse una relazione alla Sede Apostolica[21]. Non v’è dubbio quindi che gli interventi di Innocenzo I sulle Chiese d’Italia, Gallia e Spagna abbiano avuto come conseguenza un maggiore riconoscimento della superiore autorità del Vescovo di Roma, sebbene questo non fosse stato il movente unico o prevalente della sua azione.
Sebbene avessero un fine prevalentemente giurisdizionale, di notevole importanza sono pure gli interventi che Papa Innocenzo svolse nell’Illirico orientale, che comprendeva le dieci province delle due diocesi civili di Dacia e Macedonia. Sin dalla prima attribuzione dell’Illirico all’Impero d’Oriente, Roma si era preoccupata di impedire il distacco di quelle Chiese dall’Occidente. A questo scopo – come si è già detto – i Papi Damaso, Siricio ed Anastasio avevano fatto del Vescovo di Tessalonica una specie di loro rappresentante, con l’incarico particolare di presiedere (personalmente o a mezzo di propri inviati) a tutte le ordinazioni dei Vescovi, affinché la scelta cadesse su soggetti degni «secondo gli Statuti del Concilio di Nicea e della Chiesa romana». Nel notificare la sua elezione ad Anisio di Tessalonica, Innocenzo si preoccupò anche di confermare quei diritti che i Pontefici precedenti avevano conferito al suo predecessore ed a lui, interpretandoli però in un senso molto più ampio, e cioè che gli dovessero essere deferiti tutti gli affari ecclesiastici dell’Illirico. Non solo: ispirandosi probabilmente all’istituto del vicario imperiale, con una successiva lettera del 17 giugno 412 al successore di Anisio, Rufo, costituì il Vescovo di Tessalonica suo vicario per l’Illirico, fondando in tal modo il vicariato apostolico di Tessalonica.
Questa lettera è, tra l’altro, un documento rivelatore della coscienza che Innocenzo aveva del superiore potere giudiziario del Papa. Partendo, infatti, sia dall’esempio di Mosè che, pur avendo egli solo ricevuto da Dio l’incarico di liberare e governare Israele, costituì dei giudici per le cause ordinarie onde poter attendere agli affari più importanti ed alle cose divine, sia dall’esempio degli Apostoli che riservarono a se stessi l’annunzio del vangelo, affidando ai discepoli il disbrigo delle altre cose, Innocenzo trasmise al Vescovo di Tessalonica il potere di curare in sua vece gli affari e di decidere nei litigi delle Chiese delle dieci province illiriche. E per meglio stabilire la preminenza del suo vicario sugli altri metropoliti, due anni appresso il Papa inviò una Decretale a Rufo e ad altri diciotto Vescovi macedoni, che avevano inviato lettere alla Sede Apostolica di Roma chiedendo lumi su alcuni punti di disciplina ecclesiastica.
L’istituzione del vicariato rafforzò notevolmente la posizione del Vescovo di Tessalonica specie di fronte al potere crescente e all’attrazione che esercitava allora il Vescovo della capitale orientale. E se l’Illirico non cadde così presto sotto la giurisdizione del Vescovo di Costantinopoli, come avvenne alle Chiese della Tracia, dell’Asia e del Ponto, ciò si deve proprio all’istituzione voluta da Innocenzo che unì più strettamente a Roma le Chiese illiriche.
Nell’ultimo anno della sua vita, Innocenzo I dovette intervenire con tutta la sua autorità anche in campo dottrinale. La Chiesa Africana, infatti, che nella Conferenza di Cartagine del 411 aveva posto fine allo scisma donatista senza la partecipazione del Papa o di un suo legato, non ritenne sufficiente la propria condanna del pelagianismo, ma credette necessario l’intervento di Roma, e questo nonostante che proprio a Cartagine, dove Pelagio[22] e Celestio[23] si erano rifugiati nel 410, alcune proposizioni sostenute da quest’ultimo fossero già state condannate dietro denunzia del diacono milanese Paolino. In buona sostanza la nuova eresia sosteneva la naturale capacità dell’uomo ad ottenere la salvezza con il solo uso del libero arbitrio e senza l’intervento soprannaturale di Dio, e negava – insieme alla sostanza e alle conseguenze del peccato originale – l’assoluta necessità della grazia per le opere soprannaturali. Il peccato originale, nel senso inteso dalla Chiesa, per Pelagio non esisteva; l’uomo, infatti, nasce senza alcuna macchia, con una perfetta integrità di natura simile a quella con cui Adamo uscì dalle mani del Creatore; il peccato del primo uomo non portò alcun nocumento né alcuna conseguenza nella posterità, fu però un cattivo esempio, e intanto si potrebbe parlare di peccato originale in quanto gli uomini peccano a somiglianza di Adamo. Di conseguenza, né il battesimo è di assoluta necessità per la vita eterna (ma è ritenuto necessario per far parte della Chiesa), né è necessaria la grazia per le opere soprannaturali, e neppure la Redenzione deve essere considerata come un riscatto. La grazia è soltanto un’illuminazione interiore; non agisce sulla volontà dell’uomo e non ne trasforma l’anima; la Redenzione è semmai un richiamo, un invito a una vita superiore, ma comunque rimane sempre esteriore, cioè non crea nulla dentro l’uomo.
S. Agostino, non appena si fu liberato dalla controversia donatista, aveva subito incominciato la refutazione degli errori pelagiani e la difesa della grazia. Quando però giunse in Africa la notizia della piena assoluzione ricevuta da Pelagio nel Concilio di Diospoli in Palestina (dicembre 415), i Vescovi africani credettero fosse giunto il momento di passare all’azione disciplinare contro il nuovo errore. Di ciò si occuparono i Concili provinciali di Cartagine e di Milevi (estate 416), che scrissero appunto ad Innocenzo due pressanti lettere, cui cinque Vescovi ne aggiunsero una terza più particolareggiata. In tutte queste lettere è esplicita la richiesta che alla condanna dei Vescovi africani si aggiunga quella della Sede apostolica, la quale sul peccato e sulla grazia ha la stessa dottrina della Chiesa africana, ma la predica con più vigore e maggiore risonanza.
Le risposte di Innocenzo non si fecero attendere. Lodando i Vescovi cartaginesi e milevitani per aver seguito la disciplina ecclesiastica e la norma di rivolgersi alla Sede apostolica nelle questioni dubbie, con particolare riguardo alle questioni di fede, il Papa pronunciò apostolici rigoris auctoritate la condanna di Pelagio e di Celestio, escludendoli dalla comunione ecclesiastica sino al loro ravvedimento[24].
Neppure due mesi dopo l’aver scritto queste lettere, il 12 marzo 417, Innocenzo primo morì e venne sepolto nel cimitero di Ponziano.
***NOTE***
[1] Trentasei di queste formano il primo nucleo delle collezioni canoniche, o lettere encicliche, che sono parte integrante del magistero ordinario dei pontefici.
[2] Crisostomo fu condannato in base al canone 4 del Concilio di Antiochia del 341.
[3] La stessa lettera fu inviata anche ai vescovi di Milano e di Aquileia.
[4] Innocenzo I, Epist. 5.
[5] In realtà si trattava dei canoni di Sardica, che a Roma figuravano come niceni.
[6] Alarico dei Balti (n. ca. 370-m. 410), re dei Visigoti (395-410). Fu il primo vero re dei Visigoti, che dopo circa venti anni di guerra continua e permanente, compresero la necessità della figura di un re, che gestiva il potere supremo e non fosse solo un consigliere e, se necessario, un condottiero. Alarico comparve per la prima volta nelle cronache, nel 390, quando, ventenne, il giovane principe della dinastia dei Balti, guidò i Visigoti, gli Unni ed altre tribù provenienti dalla sponda sinistra del Danubio nell’invasione della Tracia, saccheggiandola; l’Imperatore Romano, Teodosio I, nel 391, intervenne personalmente, ma cadde in un’imboscata sul fiume Maritza, dove rischiò la vita. Nel 392, i Visigoti di Alarico vennero circondati sulla Maritza dal generale Stilicone, ma Teodosio li perdonò e li lasciò tornare nella loro provincia (Mesia) rinnovandogli il trattato del 382. Alarico, alla Battaglia del Frigido, il 5 settembre del 394, mentre le truppe di foederati erano comandate dal goto Gaina, servì fedelmente Teodosio I, guidando l’avanguardia costituita da truppe Visigote, che subì gravissime perdite; ma dopo la vittoria Alarico non ottenne il posto, con il grado di magister militum, nell’esercito romano che gli era stato promesso. Nel 395, fu proclamato re dei Visigoti e dichiarandosi indignato per la mancata nomina a magister militum, li guidò nell’invasione della Tracia, poi si ritirò verso la Macedonia, dove fu sconfitto al Peneo; invase quindi la Tessaglia, dove fu fermato da Stilicone. Successivamente attraversò la Beozia e l’Attica, occupò Il Pireo e costrinse alla resa Atene, dove soggiornò pacificamente senza saccheggiarla. Poi si diresse a Eleusi, dove distrusse il tempio di Demetra, determinando la definitiva interruzione delle celebrazioni dei Misteri Eleusini. Nel corso del 396, tutto il Peloponneso fu occupato, Corinto, Argo, Sparta e molti altri siti subirono la violenza e le devastazioni dei Visigoti. Nel 397, Stilicone sbarcò a Corinto con un esercito e cacciò i Visigoti dall’Arcadia e li accerchiò ad Elice. Ma Alarico riuscì a fuggire e si ritirò sulle montagne verso il nord dell’Epiro, dove l’Imperatore Arcadio, nel 399, gli offrì del denaro e lo nominò magister militum dell’Illirico, in pratica Governatore dell’Epiro già occupato, concludendo così la pace. Alarico approfittò della collaborazione con l’impero d’Oriente per rafforzarsi e, soprattutto, riarmò i Visigoti negli arsenali romani. Nel corso del 400, Alarico lasciò l’Epiro e passando da Aemona, nel 401 arrivò in Italia, e da Aquileia si diresse su Milano. Più volte ricacciato oltre i confini, nel 404 dovette venire a patti con Stilicone, con cui rinnovò il patto di alleanza contro l’impero d’Oriente, e dovette rientrare in Epiro. Ma ben presto abbandonò l’Illiria per stabilirsi tra il Norico e la Pannonia. Morto Stilicone (408) Alarico invase nuovamente l’Italia e dopo il Sacco di Roma (410), passando da Capua e da Nola, si diresse in Calabria a Reggio, dove preparò una flotta, con l’intenzione di conquistare l’Africa, il granaio dell’impero, per poi impadronirsi dell’Italia. Una tempesta disperse e affondò le navi quando erano già in parte cariche e pronte a partire. Allora Alarico lasciò la città diretto a nord, ma si ammalò improvvisamente e morì. Secondo la leggenda venne seppellito con i suoi tesori nel letto del fiume Busento a Cosenza, e gli schiavi che avevano lavorato alla temporanea deviazione del corso del fiume furono uccisi affinché fosse mantenuto il segreto sul luogo della sua sepoltura.
[7] Flavio Stilicone (n. ? ca. 359 – m. Ravenna, 22 agosto 408) fu un magister militum, patrizio dell’Impero romano d’Occidente e console. Nacque nell’odierna Germania da padre vandalo, ausiliario romano, e da madre cittadina romana, ma si considerò sempre un romano, sebbene fosse di confessione ariana. Entrò nell’esercito romano dove fece carriera al tempo di Teodosio I, il quale nel 384 lo inviò presso lo Scià persiano sasanide Sapore III per negoziare la pace e la spartizione dell’Armenia. La missione ebbe successo e tornato a Costantinopoli Stilicone fu promosso al rango di generale, con il compito di difendere i confini dagli attacchi dei Visigoti: compito che svolse per circa vent’anni. Dopo l’assassinio dell’imperatore d’Occidente Valentiniano II nel 392, Stilicone mise insieme l’esercito che poi, sotto la guida di Teodosio, vinse nella Battaglia del Frigido contro le truppe dell’usurpatore Flavio Eugenio. In questa battaglia Stilicone ebbe anche un ruolo di comando, avendo alle sue dipendenze il visigoto Alarico, che guidava un consistente numero di ausiliari goti. Stilicone si distinse particolarmente al Frigido e Teodosio vide in lui un uomo a cui poter affidare la difesa dell’Impero, tanto che, poco prima di morire nel 395, lo nominò custode e difensore dei figli.
[8] Gildo o Gildone (n. ? – m. 398) generale romano del tardo Impero nella provincia africana di Mauretania. Si ribellò all’imperatore d’Occidente Onorio, ma fu sconfitto e costretto al suicidio.
[9] Saro (n. ?-m. 412) fu un generale barbaro dell’Impero romano d’Occidente, che fu coinvolto nelle guerre tra l’imperatore Onorio, i barbari e i vari usurpatori che insorsero in Occidente in quel periodo. Di origine gota e fratello di Sigerico (brevemente re dei Visigoti), rimase fedele ai Romani durante la rivolta dei foederati del 399; Saro divenne poi un ufficiale di Stilicone, il potente magister militum dell,imperatore d,Occidente Onorio. Assieme ai suoi uomini combatté al fianco di Stilicone contro Radagaiso, che aveva invaso la Gallia nel 406 e che venne sconfitto a Fiesole nell’agosto di quello stesso anno. Dietro ordine di Stilicone, nel 407, Saro prese la testa dell,esercito romano a Ravenna e lo condusse in Gallia, contro l’usurpatore Costantino: agendo senza scrupoli, ma in maniera intelligente ed efficace, sconfisse (autunno 407) i generali di Costantino, Giustiniano e Nebiogaste; mise poi sotto assedio Valentia (Valence), dove si era rifugiato Costantino stesso; costretto a ritirarsi per l’arrivo dei rinforzi guidati da Edobico (un capo dei Goti, coinvolto nell’usurpazione di Costantino) e dal magister militum Geronzio (un generale dell’Impero romano, sostenitore dell’usurpatore Costantino, contro il quale si rivoltò in Hispania, nominando imperatore Massimo), ritornò in Italia, comprando il passaggio delle Alpi dai Bagaudi, che ne controllavano i passi, consegnando loro il bottino ottenuto, ma riportando indietro i propri uomini sani e salvi. Impegnato a consolidare la frontiera del Reno e a sedare una rivolta a favore di Onorio in Hispania, Costantino non inseguì Saro. Un nuovo esercito romano era in preparazione in Italia per una seconda campagna contro Costantino, quando Stilicone venne assassinato per ordine di Onorio (22 agosto 408): Saro e i suoi uomini abbandonarono l’esercito, lasciando l’imperatore senza protezione, arroccato nell’inespugnabile Ravenna con l’esercito dei Visigoti di Alarico I libero di muoversi in Etruria. Nel 411, anno in cui Costantino morì, un nuovo usurpatore insorse in Gallia, Giovino (di origine gallo-romana e nipote di Flavio Valente Giovino, generale romano che servì sotto gli Imperatori Giuliano, Gioviano e Valentiniano I), il quale chiamò a sé Saro e i suoi uomini. Giovino, che era stato eletto dai Burgundi e dagli Alani, regnò per due anni. La sua caduta avvenne quando i Visigoti di Ataulfo (Alarico era morto nel 410) si mossero in Gallia con l’intenzione di rovesciarlo, ma fingendo di volersi unire a lui: Saro cadde nella trappola e, malgrado combattesse valorosamente alla testa delle proprie truppe, fu sconfitto e ucciso in uno scontro con Ataulfo. Giovino fuggì, ma assediato e catturato a Valentia, fu giustiziato.
[10] Flavio Claudio Costantino, (n. ?-m. 411), fu usurpatore dell’Impero romano d’Occidente (407–411) contro l’imperatore Onorio. Dopo aver costretto alla ritirta le truppe inviate da Stilicone, nel 408 fece di Arles, sede del prefetto del pretorio delle Gallie, la propria capitale. Sempre nello stesso anno sedò i Spagna la rivolta dei membri della casata di Teodosio, fedeli al legittimo imperatore. Nel 409, dovendo fronteggiare una rivolta in Britannia, scrisse ad Onorio chiedendogli perdono e promettendogli aiuti contro Alarico. Onorio accettò molto volentieri la proposta, riconobbe l’usurpatore co-imperatore e lo associò al consolato. Ma gli eventi precipitarono. Nuove ribellione scoppiarono in Britannia e in Armorica. Geronzio – suo alleato nel 408 – elevò un proprio uomo al rango di Imperatore e nel 410 lo attaccò. Le forse di Costantino furono sconfitte a Vienne (411), ed egli si asserragliò ad Arles. Assediato prima dalle truppe di Geronzio e poi da quelle di Onorio (che vevano sconfitto e messo in fuga Geronzio) fu costretto ad arrendersi; ma sebbene avesse ottenuto la promessa di un salvacondotto e si fosse fatto consacrare prete, fu ugualmente ucciso e la sua testa giunse a Ravenna nel settembre del 411 per essere messa in mostra in città.
[11] Nel 402, proprio per sfuggire alle Minacce di Alarico, l’Imperatore Onorio aveva trasferito la residenza imperiale da Milano a Ravenna.
[12] Il famoso Sacco di Roma.
[13] Salminius Hermias Sozomen (n. Betelia 400 ca.-m. 450 ca.), storico palestinese, noto come Sozomeno o Sozomene, è ricordato essenzialmente per la sua Historia Ecclesiastica, raccolta di annali di storia cristiana.
[14] In Storia di Roma nel medioevo, Roma, 1972.
[15] Falconi C., Storia dei papi e del papato, Milano, 1966-72.
[16] S. Gioralamo, Epist. 126-127-128; S. Agosino, Sermoni 81, 8/9; 296, 6-8.
[17] Le menzogne pagane contro il cristianesimo ispireranno a S. Agostino la poderosa opera apologetica De civitate Dei.
[18] Lo storico pagano Zozimo racconta (Hist. V, 41) che durante il primo assedio di Roma ad opera di Alarico, Innocenzo avrebbe permesso, dietro richiesta del Prefetto di Roma, Pompeiano, che si offrissero sacrifici di propiziazione agli dei, purché segretamente. La notizia è ovviamente priva di qualsiasi fondamento.
[19] Particolare rilievo hanno le sue decretali ai Vescovi Vittricio di Rouen, Essuperio di Tolosa e Decenzio di Gubbio (Epist. 2, 6, 25).
[20] In Epist. 25, 3. Tale credenza è erronea. Ma anche S. Ambrogio (De Sacram. 3, 5) afferma la stessa cosa circa l’evangelizzazione dell’Occidente per opera di Roma.
[21] Epist. 2, cap. III.
[22] Pelagio Britannico o Bretone (n. 350/360 ca.-m. 427 ca.), nato in Britannia (o in Irlanda), fu monaco e teologo di grande cultura. Dal 400 visse a Roma, rispettato da molti personaggi dell’epoca, tra cui anche S. Agostino, che diventò in seguito il suo più acerrimo avversario. A Roma conobbe Celestio di cui divenne amico e con il quale fuggì a seguito dell’invasione dei Visigoti di Alarico, trovando rifugio prima ad Ippona e poi a Cartagine. Successivamente Pelagio si trasferì in Palestina, dove scrisse svariate opere, alcune delle quali sono giunte sino a noi: una lettera alla nobile romana Demetria (residente a Cartagine), con i principi della sua filosofia, e il De Natura, confutato da S. Agostino nel suo De natura et grazia. San Girolamo e Paolo Orosio, un prete spagnolo discepolo di S. Agostino, nel 415 cercarono di far condannare Pelagio in un sinodo a Gerusalemme. Ma l’atteggiamento del Vescovo della città, Giovanni, favorevole a Pelagio, e l’ottima autodifesa di quest’ultimo, fecero sì che il Sinodo si concludesse con un nulla di fatto. Simile risultato ebbe un ulteriore Sinodo convocato nel dicembre dello stesso anno a Diospolis, in seguito alla denunce dei vescovi francesi Eros d’Arles e Lazzaro d’Aix. Condannato infine da Papa Innocenzo e dal suo successore Zosimo, Pelagio morì probabilmente in Palestina nel 427 ca.
[23] Celestio (n. ?-m. 430 ca.), probabilmente nato in Italia e di nobili origini, fu uomo di legge. Divenuto amico di Pelagio, fuggì con lui in Africa, a seguito del sacco di Roma. Quando Pelagio si trasferì in Palestina, egli rimase in Nord Africa, tentando di diventare presbitero a Cartagine; ma la denuncia del diacono Paolino fece sì che egli non riuscisse nel suoi intenti. Si recò pertanto ad Efeso, dove divenne prete e successivamente, per ordine del Vescovo Attico, a Costantinopoli. Espulso anche da Costantinopoli, a causa della condanna di Innocenzo I, torno a Roma per incontrare il nuovo Papa, Zozimo. Nuovamente condannato dopo alterne vicende per le proprie idee, venne colto con gli altri pelagiani da un ordine di espulsione emanato dall’Imperatore Onorio e costretto all’esilio (418). Rientrato in Italia altre due volte (nel 421 e nel 425) e nuovamente espulso, si rifugiò infine a Costantinopoli, dove morì.
[24] Epist. 29, 30.
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