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Marco Michelini | 10 Marzo 2016

A Papa Siricio successe Anastasio I, del quale si hanno solo poche notizie frammentarie proporzionate alla breve durata del suo pontificato[1].

Le lettere di Anastasio che sono pervenute sino a noi riguardano esclusivamente la controversia origeniana, che aveva preso ad agitarsi in Occidente sul finire del pontificato di Siricio, senza che quest’ultimo – nonostante le numerose richieste di un suo intervento – giungesse a prendere in merito una decisione definitiva. A sollevare del tutto involontariamente tale questione era stato Rufino di Aquileia[2], il quale, dopo aver dimorato a lungo in Egitto e Palestina, nel 397 era ritornato in Italia. Dietro richiesta dell’asceta Macario, egli tradusse il primo libro della Apologia di Origene, scritta da Panfilo, e il Periarchon di Origene, premettendovi due prefazioni giustificative del suo lavoro e del metodo seguito nella traduzione. Nella prima di queste prefazioni, Rufino – oltre a presentarsi come il continuatore dell’opera di un altro (non nominato ma facilmente individuabile in Girolamo) – ribadiva la sua tesi, certo errata e poco critica, che quanto di meno ortodosso si trovava negli scritti di Origene, fosse dovuto ad interpolazioni di eretici; di conseguenza, nella propria traduzione, aveva omesso e modificato quei passi che stonavano o che erano in disaccordo con altri passi ortodossi di Origene.

Eusebio di Cremona, giunto a Roma da Betlemme nel frattempo, sottrasse – trasportato dal suo zelo indiscreto contro l’origenismo – una copia della traduzione di Rufino, trasmettendola a quel “circolo” di amici che S. Girolamo aveva in Roma. Costoro, colpiti da quanto era scritto nella prima prefazione, si misero subito in contatto con Girolamo, pregandolo di fare una traduzione fedele del Periarchon e di indicare ciò che era stato modificato da Rufino[3]. Inoltre, poiché Rufino nel frattempo si era ritirato ad Aquileia, gli amici di Girolamo ne approfittarono per iniziare una vera e propria campagna contro di lui, rivolgendo persino un appello a Papa Siricio, il quale però non accolse l’accusa.

Dal canto suo, Girolamo, non appena ricevette la traduzione rufiniana del Periarchon, lasciò da parte ogni altro lavoro, dedicandosi interamente alla traduzione fedele che gli era stata richiesta; e, dopo averla portata a compimento, la inviò a Roma unitamente a due lettere indirizzate una a Rufino e l’altra ai suoi amici romani, scritte entrambe con accenti di pacatezza e di serenità. Nella prima, pur facendo notare a Rufino che era stato indelicato da parte sua l’averlo tirato in causa nella sua prefazione al Periarchon, ribadiva la propria intenzione di non riaprire la vecchia contesa e di voler restare fedele all’amicizia ristabilita[4]. Nella seconda[5], invece, Girolamo si difendeva delle dicerie corse a suo carico, senza tuttavia accusare veramente nessuno; tanto che, sebbene si alludesse a lui chiaramente in più punti, Rufino non veniva mai nominato. Certo non mancavano gli spunti polemici, come dove rilevava l’offesa infertagli nella prefazione (cosa di cui per altro si era lamentato direttamente con Rufino nella lettera a lui indirizzata); o dove rimproverava l’imprudenza di chi aveva voluto tradurre in latino un’opera così pericolosa per la fede delle menti semplici; o dove metteva in ridicolo i propositi epurativi del traduttore. In un punto solo però il tono di Girolamo diveniva realmente aggressivo: quando accusava di menzogna i suoi anonimi nemici. Nel complesso, dunque, questa seconda lettera, interpretata alla luce di quella diretta a Rufino, era tale da portare verso una chiarificazione, che non ad una nuova rottura.

Ma il “circolo romano” filogeronimiano, dopo aver letto il Periarchon nella traduzione di Girolamo, giudicò l’opera pericolosa per la fede e non solo decise di non divulgarla per non propagarne gli errori, ma – con un vero e proprio abuso – intercettò la lettera indirizzata a Rufino, dando invece la massima diffusione alla seconda. In questo modo Rufino rimase all’oscuro delle parole sostanzialmente benevole e concilianti che Girolamo gli aveva indirizzato, venendo a conoscenza solo di quelle dove lo si accusava di eresia e di menzogna. Accuse alle quali egli rispose incolpando Gerolamo d’essere l’abile e sotterraneo manovratore della campagna denigratoria che i suoi amici romani ordivano contro di lui.

Questa era la situazione allorché si spense Papa Siricio, il quale – come s’è già detto – aveva sempre mostrato di accogliere con freddezza, per non dire indifferenza, le richieste del “circolo romano” filogeronimiano di condannare Origene, e per la qual cosa era stato accusato anche da Girolamo di troppa semplicità e inettitudine. L’ascesa al Soglio pontifico di Anastasio I, venne subito sfruttata dai filogeronimiani per scatenare a Roma una velenosa campagna – anche a base di calunnie – contro Origene e contro Rufino, e per trascinare il nuovo pontefice, che era personalmente all’oscuro dell’intricata questione e dell’opera di Rufino, a pronunciare la tanto sospirata condanna. A dare maggior peso a queste istanze, nella primavera del 400 giunse, quasi provvidenzialmete, ad Anastasio una lettera[6] di Teofilo[7], potente patriarca di Alessandria, che insisteva sui mali provocati dalle opere di Origene e riferiva della sua recente condanna. In realtà, Teofilo, che in precedenza aveva manifestato più volte i suoi sentimenti origenisti, aveva di colpo mutato il suo atteggiamento per poter meglio colpire ed annientare i suoi oppositori nel clero e nei monasteri. Solo a tal scopo, quindi, egli aveva fatto condannare l’origenismo in un Sinodo da lui convocato, procurando che la sentenza fosse subito ratificata dall’autorità imperiale, che proscrisse anche le opere di Origene.

Questa lettera impressionò molto Anastasio, che, ignorandone l’ambizione, credeva Teofilo mosso da puro zelo per l’ortodossia; per cui si affrettò anch’egli a pronunciare la condanna di Origene e di tutte le sue false opinioni, notificandola con una lettera a Simpliciano, Vescovo di Milano, affinché vi si associasse e la portasse a conoscenza di tutti i Vescovi dell’alta Italia. E quando morì Simpliciano, nell’agosto dello stesso anno, il Papa scrisse una lettera al suo successore Venerio[8], rinnovando la sua condanna di eresia contro Origene e i suoi scritti.

Secondo quanto ci ha trasmesso Girolamo, Anastasio avrebbe invitato più volte Rufino a comparire davanti ad un Sinodo a Roma, ma questi avrebbe declinato tali inviti adducendo futili motivi. Ma per quanto non lo si possa del tutto escludere, sembra alquanto improbabile che il Papa abbia rivolto una simile “citazione” a Rufino giacché nessuno dei due vi fa alcun accenno: Rufino nel suo breve scritto al Papa in difesa di se stesso, Anastasio nella risposta alla lettera che Giovanni di Gerusalemme gli aveva scritto in difesa dell’amico. Con la risposta a questa lettera si chiude anche l’intervento del Pontefice nella controversia origeniana, che continuò comunque a sussistere, con rinnovata violenza, tra Girolamo e Rufino.

Volendo esprimere un giudizio sul comportamento di Anastasio I nella questione di Origene, esso ci potrebbe apparire completamente appiattito nella quasi supina accettazione della condanna già pronunciata da Teofilo di Alessandria, poiché sembra che egli non abbia potuto penetrare la complessità delle erronee concezioni origeniane, per come vennero messe in luce durante lo svolgersi della controversia. In realtà va riconosciuto al Papa di aver ben compreso che l’origenismo rappresentava una reale minaccia per la purezza delle fede, potendo ingenerare nelle menti più semplici dubbi ed incertezze, e che pertanto la sua azione fu dettata anche dal dovere pastorale di preservare i fedeli da tali pericoli.

Contemporaneamente, la Chiesa Cattolica africana, riorganizzata solidamente all’interno sotto la valente guida del primate Aurelio di Cartagine[9] e di Agostino di Ippona[10], stava svolgendo attiva propaganda e mettendo in opera ogni mezzo per ricomporre quell’unità venuta meno a seguito dello scisma donatista. La speranza dei Vescovi cattolici era quella di riconquistare i donatisti non con l’aiuto dello Stato né, tanto meno, con misure coercitive, ma per mezzo della comprensione e della persuasione, con colloqui e dispute tra singoli vescovi delle due parti che avrebbero dovuto costituire il punto di partenza per trattative più estese. A tale proposito, nel Concilio generale d’Ippona del 393, confermate poi dal Concilio cartaginese del 397, si decise, in deroga alla prassi precedente, di conservare nella loro dignità i chierici donatisti che avessero fatto ritorno alla Chiesa Cattolica, specialmente se vi avessero ricondotto tutti i loro fedeli, con la sola eccezione per quelli che si erano resi rei di ribattezzazione; e di poter conferire gli ordini sacri ai convertiti che da bambini erano stati battezzati nella Chiesa scismatica. Entrambe le decisioni erano state prese per provvedere alla scarsezza di clero che affliggeva la Chiesa Cattolica e per favorire le conversioni; ma prima di metterle in pratica i Vescovi ritennero prudente di chiederne la ratifica a Papa Siricio e a Simpliciano Vescovo di Milano, i quali si pronunciarono contro tali innovazioni. Perdurando però la scarsezza di clero, nel Concilio del giugno del 401 i Vescovi africani riconfermarono i loro canoni, tornando a chiederne l’approvazione a Papa Anastasio e al nuovo Vescovo di Milano, Venerio.

Non sappiamo testualmente quale fosse la risposta di Anastasio, ma la possiamo dedurre dagli atti del seguente Concilio cartaginese che venne celebrato nel settembre dello stesso anno: il Papa ammonì fraternamente i Vescovi d’Africa a non abbassare la guardia contro le insidie degli scismatici e, pur rispondendo negativamente al primo quesito, diede la propria approvazione al secondo. Questo almeno sembra trasparire dal fatto che, nel Concilio, i Vescovi Africani espressero ad Anastasio la propria gratitudine e si occuparono nuovamente della prima questione, decidendo di rispettare il responso romano, lasciando tuttavia ai singoli Vescovi facoltà di conservare nella loro dignità quei chierici donatisti convertiti che avessero dato ampia prova di volere promuovere la riunificazione.

Come già il suo predecessore, anche Anastasio mantenne un rapporto “privilegiato” con il Vescovo di Tessalonica, al quale – con una lettera andata perduta – riconfermò l’ufficio di Vicario della Sede apostolica per l’Illirico orientale, in modo che quella terra non passasse sotto l’influenza ecclesiastica di Costantinopoli. E, se si esclude un regolamento (attribuitogli forse giustamente dal Liber Pontificalis) per esigere da Vescovi, preti e diaconi di strare in piedi a capo chino alla lettura del Vangelo durante la messa, non si hanno altre notizie circa l’operato breve e modesto di questo Pontefice.

***NOTE***

[1] I termini cronologici del pontificato di Atanasio I sembrano definitivamente fissati grazie ai dati offerti dalla controversia origenistica. Poiché la morte di Siricio è avvenuta il 26 novembre 399, come ha dimostrato L. Duchesne (Liber Pontificalis, vol. I, p. CCL s.), l’inizio del pontificato di Atanasio non può avere avuto luogo prima del 27 novembre. Sempre sulla base dei documenti che riguardano la controversia origenistica, F. Cavallera (S. Jerôme, sa vie et son œuvre, Lovanio, 1922, vol. II, p. 38 ss.) ha dimostrato che la morte di Atanasio avvene non al principio di dicembre del 401 (come riportato dall’Annuario pontificio), ma del 402, onde sarebbe giusto il «sedit annos tres», riportato dal Liber Pontificalis (I, 218).

[2] Tirannio Rufino nacque nel 345 a Concordia, presso Pordenone, da genitori cristiani. Mentre attendeva agli studi in Roma fece conoscenza con S. Girolamo. Visse alcuni anni come monaco in un monastero di Aquileia, e qui ricevette il battesimo. Nel 371 viaggiò in Egitto, dove visitò gli anacoreti che si erano stabiliti nel deserto a Nitria e a Scete. Si trattenne poi per alcuni anni ad Alessandria dove, alla scuola di Didimo il Cieco, fu affascinato dall’insegnamento di Origene. Nel 378 si trasferì a Gerusalemme, ove visse da monaco sul Monte degli Ulivi, e ricevette l’ordinazione sacerdotale dal vescovo Giovanni. Con Girolamo, che nel 386 si stabilì a Betlemme, Rufino mantenne cordiali relazioni, incrinate però da un diverso giudizio sull’ortodossia della dottrina origenista, che sfociò in un aspro dibattito pubblico. Nel 397 Rufino tornò in Italia, ma l’invasione dei Visigoti nel 407 lo costrinse a lasciare Aquileia. Morì a Messina nel 410. L’importanza di Rufino nel campo della letteratura cristiana si fonda innanzi tutto sulla sua attività di traduttore. Poiché la conoscenza della lingua greca diventava sempre più rara nell’Occidente, egli si propose di rendere accessibili importanti opere letterarie greche a coloro che si interessavano alle questioni teologiche. Il Commento al Simbolo degli Apostoli è invece un suo scritto originale, nel quale Rufino si pone in dipendenza della catechesi di S. Cirillo di Gerusalemme. Lo scritto offre per la prima volta il testo latino del simbolo apostolico e un elenco dei libri della Sacra Scrittura.

[3] Tra le lettere di S. Girolamo: Epist. 83.

[4] Era comunque sottinteso il monito per Rufino ed i suoi di guardarsi a loro volta dall’offrire occasione alcuna che potesse riaprire la diatriba.

[5] Epist. 81 e 84.

[6] La lettera è andata perduta, vi fanno riferimento però sia Atanasio I nelle due lettere ai Vescovi di Milano, Simpliciano e Venerio, che Girolamo (Epist. 88). Anche il Rescritto imperiale è andato perduto, ma ne dà attestato sempre Atanasio I in una lettera a Giovanni di Gerusalemme.

[7] Teofilo (n. ? – m. 412) divenne Patriarca nel 384, in uno dei momenti di più acuto conflitto tra i cristiani e la società pagana di Alessandria. La sua fama rimane legata alla distruzione del Serapeo (tempio di Serapide, divinità greco-egiziana il cui culto fu introdotto ad Alessandria da Tolomeo I). Secondo quanto narrano gli scrittori Rufino e Sozomeno, Teofilo portò alla luce, durante i lavori di trasformazione di un tempio dedicato a Dioniso in chiesa cristiana, un tempio pagano segreto. Egli ed i suoi seguaci sfilarono per le strade della città con gli oggetti sacri trovati nel tempio compiendo atti di dileggio provocando l’ira dei pagani che aggredirono i cristiani. La reazione della fazione cristiana costrinse i pagani a rinchiudersi nel Serapeo. L’imperatore inviò una lettera a Teofilo chiedendogli di concedere il perdono per le offese recate dai pagani. Quest’ultimo ebbe tuttavia come contropartita la distruzione del Serapeo.

[8] S. Venerio (n. ? – m. 409), discepolo e diacono di S. Ambrogio, divenuto Vescovo di Milano inviò chierici in aiuto ai vescovi d’Africa e si prese cura di S. Giovanni Crisostomo mentre si trovava in esilio.

[9] S. Aurèlio (m. 429/430) Vescovo di Cartagine e primate della Chiesa africana (la “Provincia d’Africa” comprendeva la fascia nord del continente escluso l’Egitto). Si ignorano di lui la data ed il luogo di nascita. Nell’anno 388 divenne diacono e nel 391/392 Vescovo. In ca. venti sinodi e concili combatté con alacre puntigliosità il donatismo e il pelagianismo e volle la riforma della disciplina ecclesiastica e del culto.

[10] S. Agostino (n. Tagaste 354 – m. Ippona 430), teologo e filosofo, Padre e Dottore della Chiesa Cattolica (detto anche Doctor Gratiae). La sua era una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Dalla madre una educazione cristiana ma, dopo aver letto l’Ortensio di Cicerone, abbraccò la filosofia aderendo al manicheismo. Insegnò dapprima retorica a Tagaste (373), quindi a Cartagine (374-383), a Roma ed infine a Milano (384-387) dove, per l’influenza di S. Ambrogio e di S. Simpliciano, maturò la propria conversione al cristianesimo. Battezzato il giorno di Pasqua del 387 da S. Ambrogio, ritornò a Roma e vi restò parecchi mesi, occupandosi principalmente della confutazione del manicheismo. Si imbarcò per l’Africa nel 388 e, dopo un breve soggiorno a Cartagine, ritornò a Tagaste. Nelle sue prime opere (387-390), ispirate allo spiritualismo neoplatonico, sostenne che fede ragione, avendo entrambe come fine la felicità, convergono. Ordinato sacerdote nel 391, divenne vescovo di Ippona nel 395 e da quel momento si dedicò quasi esclusivamente alla discussione di temi teologici e pastorali, in polemica con le tesi del donatismo e del pelagianismo. Tra il 397 ed il 401 scrisse le Confessioni (opera in 13 libri), che rappresentano una appassionata biografia nella quale i temi dell’interiorità e della lode a Dio si intrecciano con l’analisi filosofica della memoria e del tempo. Tra il 413 ed il 426 scrive il De civitate Dei contra Paganos, che rappresentava la risposta di Agostino ai pagani che attribuivano la caduta di Roma (410) all’abolizione del Paganesimo. Considerando il problema della Divina Provvidenza applicato all’Impero romano, egli allargò l’orizzonte e, in un lampo di genio creò la filosofia della storia, abbracciando con uno sguardo i destini del mondo raggruppati intorno alla religione cristiana. Sul finire della sua vita (426-428) scrive le Retractationes, che rappresentano una revisione, un riesame dei propri lavori ripercorsi in ordine cronologico, spiegando l’occasione della loro genesi e l’idea dominante di ognuno: una guida di inestimabile valore per comprendere l’evoluzione del suo pensiero.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «IL PAPATO NELLA STORIA»

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