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Marco M. G. Michelini | 15 Febbraio 2016

Molti vescovi orientali, non senza esitazioni e reticenze, avevano accettato il termine “consustanziale”. D’uso a quanto pare normale in Occidente[1], ufficiale in Egitto, dopo l’intimazione di papa Dionigi al vescovo d’Alessandria[2], esso sollevava altrove molte obiezioni. Gli si rimproverava il carattere troppo materiale, se non materialistico[3], nonché l’uso sospetto che ne avevano fatto certi eretici, a cominciare dagli gnostici, e in epoca più recente Paolo di Samosata[4], a proposito del quale l’uso trinitario di questo termine era stato solennemente condannato.

Le discussioni ben presto molto vivaci che si svolsero negli ambienti ecclesiastici all’indomani del Concilio di Nicea non erano certo fatte per mettere a tacere queste prevenzioni.

I difensori del “consustanziale”, già sospetto a molti, contribuivano a farlo apparire inquietante. Tant’è vero che quando Marcello di Ancira aveva criticato le posizioni di un propagandista, Asterio, di tenenza se non formalmente ariana per lo meno dubbia, Eusebio di Cesarea rimase scandalizzato dall’argomentazione di Marcello, ai suoi occhi impregnata di sabellianismo, e controbatté immediatamente con un grande trattato. Ma Eustazio di Antiochia accusò a sua volta Eusebio di corrompere la fede Nicena; al che Eusebio protestò la propria buona fede ritorcendo contro Eustazio l’accusa di sabellianismo. Ovunque sorgevano processi di tendenza e reciproche accuse; e pur tuttavia la confusione non era che all’inizio!

È estremamente difficile riassume in modo chiaro e preciso gli sviluppi della crisi ariana e riuscire a comprendere la struttura polifonica della realtà storica dell’epoca, cogliendone e combinandone tutti i diversi aspetti. In primo luogo andrebbero considerati il tempo e lo spazio: le generazioni si succedono ed i problemi si trasformano; l’opposizione costante è tra l’Occidente latino, Egitto compreso, incrollabilmente fermo sulla definizione di Nicea, e l’Oriente greco, molto più incerto, dove si è estremamente sensibilizzati al pericolo sabellianista, pericolo che gli occidentali impiegheranno vent’anni a scoprire. In secondo luogo si debbono tenere presenti gli uomini e le idee: le questioni personali interverranno spesso a complicare i problemi di ordine dottrinale; quando Atanasio[5] diviene vescovo di Alessandria, il “consustanziale” acquista un campione infaticabile, ma la sua stessa energia e, come vedremo, la violenza del suo carattere gli attireranno spesso molti nemici e lo metteranno spesso in situazioni difficili. E infine va considerata la struttura bipolare della società cristiana: da un lato i vescovi discutono, i Concili cercano di definire, ma dall’altro c’è l’Imperatore che interviene a favore degli uni o per fare deporre gli altri; basta che cambi l’Imperatore, o che lo stesso cambi di opinione, e la vita della Chiesa ne risente immediatamente il contraccolpo.

La politica religiosa di Costantino, dopo il Concilio di Nicea, aveva assunto atteggiamenti sempre più tolleranti nei confronti di Ario e dei suoi seguaci. Sotto l’influsso di Eusebio di Cesarea e soprattutto di Eusebio di Nicomedia, uomo abilissimo nell’insinuare e nell’insinuarsi, che era riuscito a farsi trasferire dalla sua sede a quella della nuova capitale, questa “coalizione”, che doveva presentare fin dall’inizio una maggioranza, intraprese ben presto la sistematica eliminazione da tutto l’Oriente di coloro per i quali l’ortodossia restava definita dalla formula di Nicea: dalla Palestina alla tracia una buona decina di sedi episcopali videro così il loro titolare deposto e sostituito, magari non senza qualche difficoltà, in una serie di sinodi tra il 326 e il 335[6]. Questa politica finì per trionfare, tanto che Costantino, in occasione dei suoi triennali, convocò il Concilio di Tiro‑Gerusalemme[7], dove si diedero convegno tutti i nemici del vescovo Atanasio di Alessandria. E, come s’è già detto, di nemici Atanasio ne aveva moltissimi, soprattutto a causa del suo non facile carattere; inoltre la sua condotta, quale risulta non solo dai documenti riguardanti i meleziani, ma anche da testi scoperti più di recente, giustificava almeno in parte certe accuse di carattere politico, giacché egli non era indifferente alle aspirazioni politiche del suo popolo, il quale a sua volta gli era molto devoto. Il Concilio di Tiro, in sua assenza, depose Atanasio[8] e Costantino, a conferma della sentenza, lo fece esiliare a Treviri.

Ciò che deve essere notato è che tutti i processi così istituiti non si appoggiavano tanto su pretesti di ordine teologico bensì su accuse o calunnie di carattere strettamente personale, morale o politico. Eustazio di Antiochia fu accusato di adulterio in base alla testimonianza di una prostituta e – fatto ancora più grave – di avere divulgato spiacevoli pettegolezzi sulle origini dell’Imperatrice madre Elena. Atanasio di Alessandria, non solo si vide rimproverare le violenze esercitate sui meleziani recalcitranti[9], ma – per indurre Costantino ad infierire – anche di essersi vantato di poter impedire il trasporto del frumento da Alessandria a Costantinopoli.

Tutte queste testimonianze, vere o false che fossero, garantirono la più completa tranquillità di coscienza al partito dei vincitori; tanto che, quando la Chiesa di Roma, invitata a sua volta a pronunciarsi sulla questione, vorrà rimettere in causa la deposizione dei suoi amici niceni, i vescovi orientali rifiuteranno sempre decisamente di lasciar contestare sentenze emesse a loro avviso a pieno titolo di regolarità.

Il successore di Silvestro, Marco[10], ebbe un pontificato assai breve[11] e non appare quindi probabile ch’egli avesse il tempo di occuparsi dell’arianesimo; del resto, come è stato ampiamente dimostrato, una sua corrispondenza con S. Atanasio[12] è falsa. Il Liber Pontificalis gli attribuisce la concessione al vescovo di Ostia del pallio e del diritto di consacrare il Papa. Il suo nome è altresì legato al Titulus Marci e ad un’altra chiesa sulla via Ardeatina. Inoltre risale al suo tempo la prima redazione del Calendario ufficiale della Chiesa romana con le notizie sulle sepolture dei martiri e dei vescovi e sulle feste.

La morte di Costantino[13], seguita dalla tragedia di palazzo in cui perirono due degli eredi designati[14], nonché dalla nuova divisione dell’Impero tra i figli dell’Imperatore[15], permise ad Atanasio di fare ritorno in Alessandria. Ma gli eusebiani, favoriti dall’imperatore d’Oriente, Costanzo II, continuarono a sostenere Pisto. Per ottenergli la comunione degli Occidentali, mandarono a Roma il prete Macario ed i diaconi Esichio e Martirio, con gli Atti del Concilio di Tiro. Dal canto suo Atanasio nel 338 tenne ad Alessandria un Concilio e diresse ai vescovi una sinodale, che i preti alessandrini portarono a Roma.

I messi delle due opposte fazioni si incontrano presso il nuovo papa, Giulio I[16], e per i rappresentanti di Atanasio fu molto facile smascherare Pisto. Il prete Macario, lasciò Roma nascostamente senza attendere il contraddittorio con gli alessandrini. Giulio I, che aveva già trasmesso ad Atanasio gli Atti che gli erano stati comunicati, accettò la proposta – forse avanzata dai diaconi Martirio ed Esichio – di un nuovo Concilio, lasciando agli interessati la libertà di accordarsi circa la sede.

La posizione di Pisto, però, era ormai troppo compromessa. Gli ariani decisero quindi di surrogargli un personaggio meno compromesso, Gregorio della Cappadocia, che venne insediato in Alessandria a viva forza, con l’aiuto del prefetto Filagrio. Atanasio fu costretto a salvarsi con la fuga e si recò a Roma per protestare contro il sopruso di cui era stato vittima. Questo viaggio, oltre che per le vicende che abbiamo appena elencato, è di grande importanza storica poiché è molto probabile che Atanasio portasse allora a Roma le prime notizie dirette e precise del grande movimento ascetico egiziano. Inoltre esso poteva essere interpretato come accettazione dell’invito al Concilio, e siccome a Roma c’era anche Marcello di Ancira, papa Giulio I ne approfittò per emanare una nuova convocazione per un Concilio a Roma, che agli orientali fu portata dai preti Elpidio e Filosseno.

Nel frattempo all’interno dell’Impero andava delineandosi un nuovo scenario politico. La guerra scoppiata tra Costante e Costantino II per il completo dominio dell’Impero d’Occidente, si concluderà nel 340 con l’eliminazione di quest’ultimo. Si ripropone dunque in ambito politico la stessa contrapposizione che abbiamo già visto ed esaminato all’interno della Chiesa: un Occidente di fede nicena con un Imperatore, Costante, anch’esso di fede nicena; un Oriente ariano con un Imperatore, Costanzo II, che se pure talvolta oscillerà alla ricerca di una posizione d’equilibrio, resterà praticamente sempre sotto l’influenza di teologi filoariani.

La risposta dei vescovi orientali al Papa si fece attendere a lungo. In essa criticavano che la lettera papale fosse stata indirizzata al gruppo di Eusebio ed obbiettavano non solo ch’era stato stabilito poco tempo per preparare il Concilio, che la situazione politica interna consigliava un rinvio, e che comunque il Concilio risultava superfluo in quanto Marcello ed Atanasio erano già stati condannati a Tiro. Pur dimostrando la massima deferenza per la Chiesa di Roma, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, gli Orientali affermavano tuttavia che la posizione di una Chiesa non dipende da elementi materiali, quali il territorio o il numero dei fedeli, e pertanto Giulio avrebbe dovuto accettare quelle sentenze, così come loro avevano accettato la condanna di Novaziano.

La risposta degli eusebiani dovette essere letta con grande meraviglia e sdegno dal Papa, che convocò ugualmente il Concilio e rispose agli Orientali ribattendo le loro asserzioni e comunicando le proprie decisioni:

  1. Troppo breve il tempo per preparare il Concilio? La situazione politica esigeva che si promuovesse al più presto la pacificazione della Chiesa;
  2. Inutile il nuovo Concilio? Chi ha condannato con giustizia non teme un secondo procedimento;
  3. La sentenza di Tiro doveva valere come cosa giudicata? In base a tale principio, allora, non si dovevano riammettere a Tiro coloro che erano stati condannati a Nicea;
  4. Il Concilio di Tiro non aveva formulato un giudizio imparziale: Atanasio era stato condannato, in sua assenza e senza difesa, in base ad accuse calunniose; inoltre i vescovi di Egitto e Libia gli erano favorevoli;
  5. Gregorio, eletto irregolarmente, era destituito;
  6. Marcello di Ancira aveva presentato un professione di fede ritenuta soddisfacente;
  7. Non i vescovi Occidentali, bensì quelli Orientali turbavano e violavano la pace della Chiesa, costringendo altri vescovi a rifugiarsi presso la Chiesa di Roma, di cui non si era chiesto il parere.

Questa lettera, conservataci da Atanasio, suscita – circa il suo valore dottrinale –qualche diversità di vedute. Secondo alcuni, Giulio I non rivendica la sua autorità in quanto successore di Pietro, anche se l’intenzione di affermare la propria preminenza vi appare chiaramente, benché in forma implicita. Secondo altri, invece, la vera ragione del dissenso tra gli Orientali e gli Occidentali, consisterebbe nel fatto che i primi riconoscevano come più autorevole (anzi supremo) un Concilio convocato dall’Imperatore, e ciò in base ad una nuova concezione giuridico­‑gerarchica del Concilio, che si sarebbe affermata appunto con Costantino e quale conseguenza della situazione in cui si trovava ormai la Chiesa. Giulio I, tuttavia, avrebbe opposto a questo un altro concetto: degno successore di Milziade, egli avrebbe voluto un nuovo Concilio ecumenico, e quindi supremo in virtù della sua universalità e non della convocazione imperiale. Ora, l’interpretazione su accennata mette in luce un elemento di verità e coglie bene la tendenza, iniziata con Costantino e rafforzatasi poi tanto in Oriente, verso la sottomissione della Chiesa allo Stato: il cosiddetto cesaropapismo bizantino. Chiaramente un Concilio ecumenico senza l’intervento dell’Imperatore, cui aspirava Giulio I, non poteva essere convocato che dal Papa; il quale di fatto, seppur non ottenendo l’ecumenicità, lo convocò. E il non avere invocato la propria autorità di successore di Pietro dipese probabilmente dal fatto che Giulio I aspirava sinceramente alla pacificazione: non era perciò opportuno ricorrere ad un argomento che avrebbe potuto urtare la sensibilità delle altre Chiese ch’erano anch’esse di fondazione apostolica[17]. Per di più era opportuno rassicurare gli Orientali stessi che la sentenza non sarebbe stata pronunciata dal Papa solo e in quanto tale, bensì da un Concilio e che l’invito loro rivolto a parteciparvi ne garantiva l’imparzialità.

La reazione dell’episcopato orientale si ebbe nel Concilio di Antiochia, riunitosi nel 341, in occasione della dedicazione della grande basilica[18] costruita nella città da Costantino e terminata sotto il suo successore. Il Concilio emanò ben quattro formule di fede, delle quali una è nella sostanza ortodossa, due respingono l’arianesimo aperto[19], una condanna Marcello di Ancira. In pratica gli Orientali non prendono una vera e propria posizione di fronte all’ortodossia definita da Nicea e – sulla scia dei conservatori del 325 – evitano di precisare il grado di rassomiglianza tra Dio e il Logos. Il perno della discordia rimane quindi l’aggettivo consustanziale, su cui insisteva Atanasio per evitare ogni equivoco, e sul quale gli eusebiani nutrivano tutte le animose perplessità di cui s’è già detto. A tutto ciò va poi aggiunta l’ostilità nei confronti di Papa Giulio, che traspariva sia dalla riconfermata condanna di Marcello, sia – in maniera ancor più evidente – dai canoni 4 e 13 del Concilio, che colpivano il Sinodo Romano ed escludevano l’appello alla S. Sede.

D’altro canto, se Costanzo II appoggiava i vescovi orientali, Costante sosteneva quelli occidentali, e proprio a lui questi si rivolsero dopo Antiochia. L’accresciuto potere di Costante fece nascere delle trattative tra i due Imperatori fratelli, che portarono alla decisione di tenere un nuovo Concilio, al quale potessero partecipare agevolmente i vescovi di entrambe le parti, e che avesse sede in una città posta sul confine dei due imperi: Serdica o Sardica[20].

Il Concilio si tenne nel 343 e vi parteciparono numerosi vescovi: gli Occidentali, a cui si erano uniti Atanasio, Marcello di Ancira ed un altro vescovo condannato, Asclepiade di Gaza, erano in maggioranza. La presidenza toccava al vecchio Osio di Cordova ed il Papa vi era rapprentato da due legati, Archidamo e Filosseno. Trovandosi in minoranza, gli eusebiani, dichiararono di non poter ammettere la presenza di coloro ai quali avevano tolto la comunione e lasciarono il Concilio, radunandosi a Filippopoli, nel territorio di Costanzo II. Da lì rinnovarono le condanne già formulate a Tiro e ad Antiochia, estendendole anche a Giulio I e ad Osio di Cordova, promulgarono un nuovo Simbolo di fede sulla linea dei precedenti[21] ed indirizzarono una circolare ai vari vescovi occidentali, tra i quali quello donatista di Cartagine. Per contro, tutti i vescovi rimasti a Serdica, riaffermarono la piena legittimità della loro assemblea e, scomunicando a loro volta i capi dei dissidenti, Basilio di Ancira e Teodoro di Eraclea[22], confermarono il Credo niceno.

Inoltre i padri conciliari di Serica si preoccuparono di chiarire la posizione giuridica: tanto la loro quanto quella degli Orientali. I primi due canoni da loro emanati, aggravando la legislazione di Nicea, comminano la scomunica al vescovo che abbandoni la propria sede per passare ad un’altra, anche se chiamato dai fedeli di questa. Per ciò che riguarda il giudizio sui vescovi, il diritto d’appello e l’intervento del vescovo di Roma, si stabilisce che a lui debbano rivolgersi i giudici stessi se il condannato interpone appello alla loro sentenza, o che possa ricorrevi il condannato stesso; il Papa, qualora gli sembri necessario ed opportuno, rimanderà il giudizio ai vescovi di una provincia vicina a quella dove si è tenuto il primo. Qualora il vescovo ricorrente lo richieda, e il Papa lo ritenga conveniente, egli può inviare al giudizio di revisione un proprio rappresentante[23]. Sebbene venissero scritti di seguito a quelli di Nicea, i canoni di Serdica comunque non ebbero applicazione pratica neppure in Occidente. Lo scopo principale per cui essi furono emanati fu quasi sicuramente quello di tradurre in precise norme di legge quella che era la prassi ormai seguita, per cui al Papa veniva riconosciuta, se non l’autorità di giudicare in persona come istanza suprema, almeno quella di rinviare il condannato ad un nuovo giudizio o di non accogliere il ricorso.

Il fallimento del Concilio di Serdica non condusse di fatto, come si sarebbe potuto temere, ad una aperta rottura tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. L’aspirazione a ricomporre l’unità era assai forte, nonostante l’intransigente difesa di Atanasio del Credo niceno, o l’intolleranza manifestata da parte di alcuni gruppi della corrente ariana. A ciò tendevano anche gli Imperatori per evitare che i dissensi religiosi si ripercuotessero sull’insieme dei rapporti tra le due parti dell’Impero. Essendoci in gioco, rivalità, ostilità personali e questioni disciplinari, l’accordo non era facile da raggiungere. Si cercava pertanto – da parte degli Orientali – una nuova formula che, pur evitando il consustanziale niceno, difeso strenuamente da Atanasio, sapesse esprimere in modo soddisfacente per entrambe le fazioni l’unità di sostanza delle Persone Divine; fermo restando che tutti i vescovi erano pronti a condannare chiunque, nell’affermare tale unità, non avesse altresì riconosciuto chiaramente la distinzione tra le singole Persone.

Del resto l’equivoco dogmatico non poteva protrarsi infinitamente, anche perché il pericolo dell’atteggiamento unilaterale che prevaleva in Oriente era destinato a mostrarsi in tutta la sua evidenza. Non è nostro compito esaminare nei particolari l’ulteriore svolgimento della controversia ed il modo in cui vennero superate le difficoltà inerenti alla iniziale imprecisione del linguaggio teologico. In questa sede ci limiteremo ad esporre la parte che in essa ebbero i vescovi di Roma ed il loro comportamento in merito. Così, vediamo Giulio I accogliere nuovamente Atanasio quando questi, morto l’intruso Gregorio, ottenne dall’Imperatore Costanzo, su intervento del fratello Costante, il permesso di ritornare ad Alessandria. Del pari lo vediamo accogliere quei due vescovi Occidentali – ma dell’Illirico, regione di confine – Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum che, dopo essersi schierati con gli eusebiani, nel Concilio tenutosi a Milano nel 347, presenti i legati romani, condannato Ario e ritirate le accuse contro Atanasio, accettarono di scrivergli. Dal canto loro gli Occidentali avevano ormai condannato Fotino di Sirmio (345), mentre Atanasio si svincolava dalla solidarietà con Marcello di Ancira.

Se non che la ribellione di Magnenzio[24] e l’uccisione dell’Imperatore Costante venivano a sconvolgere nuovamente la situazione dell’Impero. Legalmente questo veniva di nuovo riunito sotto Costanzo II, ma ciò non sarebbe stato di fatto tale se non dopo la sconfitta dell’usurpatore. Ciò nonostante, la tendenza all’unione veniva ad essere rafforzata, presso gli Orientali, da considerazioni di opportunità: era chiara la convenienza di ricercare l’amicizia della sede Romana e, con ciò stesso, rendere meno saldi i vincoli che l’avevano legata ad Alessandria, cercando al tempo stesso di chiarire i rapporti con quest’ultima. Per tale motivo i vescovi d’Oriente scrissero a Giulio, accettando che il caso di Atanasio potesse essere riesaminato. Ma la lettera giunse a Roma dopo la morte del Papa, avvenuta il 12 aprile 352.

*** NOTE ***

[1] Tertulliano già parla in latino di unità di sostanza.

[2] Vedi pag. 42.

[3] Nel linguaggio comune il termine greco homooùsios si usava a proposito di due oggetti, ad esempio due monete, fatti dello stesso metallo.

[4] Nato nel 200 ca. e di umili origini, Paolo di Samosata divenne vescovo di Antiochia nel 260. Si interessò alle dottrine adozioniste, sviluppate da Teodato di Bisanzio e rielaborate da Artemone alla metà del III secolo. Fu accusato, quindi, di adozionismo in tre sinodi tenuti tra il 264 ed il 268: i primi due finirono con un nulla di fatto, ma nel terzo, tenuto ad Antiochia nel 268, egli fu accusato di eresia dagli origenisti, con a capo Malchione, rettore della scuola di letteratura greca di Antiochia, il quale scrisse una lettera a papa Dionisio e ai principali vescovi del mondo cristiano. Di questa missiva ci sono pervenuti alcuni brani non precisamente lusinghieri per P., accusato di essersi arricchito illecitamente e di circondarsi di donne. Il sinodo di Antiochia condannò P. e lo depose dalla carica di vescovo e al suo posto fu nominato Domno, figlio del vescovo Demetriano, predecessore di P. Nonostante la condanna, tuttavia, P. rimase al suo posto, godendo della protezione di Zenobia, regina di Palmira (267-272), regno di cui Antiochia faceva parte. P. svolgeva, infatti, la funzione di tesoriere della regina. Nel 272, l’Imperatore Aureliano mosse guerra al regno di Palmira e avendo conquistato Antiochia, accolse la supplica dei cristiani della città di assegnare la sede vescovile al legittimo titolare. Alcuni autori suppongono che Aureliano, solitamente non particolarmente tenero con i cristiani, avesse applicato alla lettera l’editto di tolleranza di Gallieno e avesse deciso di assegnare la sede a coloro che erano in sintonia con Roma e i vescovi italiani. P. scomparve dalla scena e morì pochi anni dopo, probabilmente nel 275. I suoi seguaci, denominati paoliani o paulianisti, rimasero attivi fino al IV secolo, quando furono condannati dal Concilio di Nicea e riassorbiti in seguito dal Cristianesimo ufficiale. E’, invece, priva di fondamento l’ipotesi che a Paolo di Samosata possono essersi ispirati i Pauliciani, setta dualista del VII secolo, il cui nome derivava probabilmente da uno dei fondatori, Paolo l’Armeno, oppure dalla particolare importanza data da questa setta alle lettere di San Paolo. Secondo P., il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano una sola persona (prosopon), ma il Figlio e lo Spirito Santo, essendo rispettivamente il Verbo (Logos) e la Saggezza (Sophia), erano senza ipostasi (stato): in pratica l’unica persona era il Padre, mentre le altre figure erano degli attributi o appellativi impersonali del Padre. Gesù Cristo, a sua volta, era sostanzialmente un uomo con una sua personalità, nato senza peccato dalla nascita. Il Logos, che lo ispirava, pur dimorando in Lui, si era unito a Lui non in sostanza, ma solo in qualità. P. quindi teneva rigorosamente separate le due nature di Cristo, sebbene questo concetto rischiasse di concepire due persone, l’una divina e l’altra umana, diverse tra loro e unite tra loro solo per volontà del Cristo stesso. Ma P. preferiva correre questo rischio, piuttosto che ammettere la presenza di due Dei, eresia denominata diteismo.

[5] Atanasio di Alessandria, Padre e dottore della Chiesa, santo (Alessandria 295/298-373). Intorno ai trent’anni divenne vescovo di Alessandria, una delle grandi metropoli del mondo antico. Il suo nome e la sua vita sono interamente legati alla difesa della fede cristiana contro l’arianesimo e contro le intromissioni del potere imperiale. Per Atanasio il centro della fede cristiana è la novità unica e assoluta della persona e dell’opera di Gesù Cristo, l’unico Figlio di Dio, che non conosce nessuna estraneità rispetto al Dio creatore e Padre ed è con lui l’unico Dio. Proprio questo Figlio è giunto fino a noi nella debolezza della nostra condizione umana, che in tal modo riceve la Rivelazione della sua originaria dignità e la possibilità di attingerla (incarnazione del Verbo ). È questa convinzione che fa comprendere la singolare connessione fra il suo impegno teologico-polemico contro gli ariani (I tre discorsi contro gli ariani; Le lettere a Serapione) e la cordiale e profonda sintonia spirituale che ebbe con il movimento monastico, allora in grande sviluppo attorno alle figure carismatiche di Pacomio e di Antonio abate , del quale divenne il primo biografo (La vita di Antonio). Il suo impegno in difesa della fede gli costò per ben cinque volte l’esilio. Quando morì, dopo aver ricevuto in dono testamentario il mantello di Antonio abate, la sua memoria divenne subito oggetto di venerazione. Fu tra i primi vescovi non martiri a ricevere culto pubblico. Già nel 379 Gregorio Nazianzeno lo collocò nella linea dei profeti, apostoli e martiri per la sua sofferta e lucida fedeltà alla novità assoluta di Gesù Cristo sull’orizzonte della storia umana. La Chiesa d’Occidente lo ha riconosciuto, con Basilio, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo , come uno dei quattro grandi Padri della Chiesa orientale.

[6] È difficile precisare la data di questi avvenimenti, così per la deposizione di Eustazio di Antiochia o di Marcello di Ancira.

[7] Luglio – Settembre 335.

[8] In suo luogo il Concilio nominò vescovo di Alessandria Pisto, già condannato a Nicea con lo stesso Ario.

[9] Come abbiamo già avuto modo di dire, le accuse di violenza presentavano un fondo di verità, ma furono sicuramente ingigantite al fine di conseguire e giustificare la deposizione.

[10] Romano, figlio di Prisco.

[11] Dal 13 gennaio al 7 ottobre 336.

[12] Nelle Decretali pseudoisidoriane.

[13] 22 Maggio 337.

[14] I Cesari Delmazio ed Annibaliano, suoi nipoti.

[15] A Costantino II la Gallia, la Spagna e la Britannia; a Costanzo II l’Oriente e l’Egitto; a Costante, il più piccolo, Italia, Africa, Illirico, Acaia, Tracia e Macedonia.

[16] Romano, figlio di Rustico, eletto nel febbraio del 337.

[17] Gli Orientali s’erano radunati ad Antiochia e Giulio I riconosceva come apostolica anche Alessandria.

[18] Per tale motivo il Concilio è anche noto come Concilio Della Dedicazione, o, nel latino a sua volta trascritto dal greco, in Encaeniis.

[19] Non a caso infatti la prima formula del Concilio di Antiochia inizia con le parole: «Noi non siamo seguaci di Ario».

[20] L’odierna Sofia.

[21] Cioè quelli di Antiochia.

[22] Eusebio di Cesarea era morto nel 340 ed Eusebio di Nicomedia nel 341.

[23] Non è chiaro se questo giudizio con la partecipazione del legato papale costituisca ancora un secondo grado di giurisdizione, oppure un terzo.

[24] Ufficiale dell’Imperatore d’Occidente Costante, prese parte alla congiura che portò al suo assassinio e fu proclamato Augusto dai soldati (350). Ma l’Imperatore d’Oriente Costanzo II si rifiutò di riconoscere questo usurpatore di origine barbara e per di più pagano e lo sconfisse prima in Pannonia, poi in Gallia, ove Magnenzio fu ucciso (353).


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