A Giulio I, il 17 maggio 352, successe Liberio, al quale toccò affrontare quella non facile situazione. La vittoria dell’Imperatore Costanzo rendeva impossibile il moderarne l’azione nei confronti di Atanasio; e sebbene l’offerta dei vescovi orientali[1] nascondesse chiaramente un tranello, e quindi il tentativo di strappare all’Occidente la condanna di questi, non era più possibile per il romano Pontefice respingerla. In altre parole, Liberio, per poter meglio sostenere Atanasio, da una parte doveva cercare di evitare con ogni mezzo l’aperta rottura con gli Orientali, e – al tempo stesso – fare sì di apparire rigorosamente neutrale. La via di risoluta intransigenza intrapresa dodici anni prima dal suo predecessore non era più percorribile, e ciò può servire a farci comprendere l’agire di Liberio, che non solo aderì alla richiesta degli Orientali, ma che – mediante un’ambasceria – convocò a Roma Atanasio, sotto minaccia di scomunica. Questi, ovviamente, ricusò, o ciò rese possibile al pontefice di inviare ad Arles dall’Imperatore i vescovi Vincenzo e Marcello[2] per richiedere ed ottenere la convocazione di un nuovo Concilo ad Aquileia.
Ma alla corte erano presenti anche i vescovi Ursacio e Valente, tornati entrambi alle loro vecchie idee ed intenti, che esercitarono una notevole influenza sull’animo di Costanzo, il quale ordinò che la questione fosse risolta nella stessa Arles. I vescovi della Gallia, del tutto ignari delle questioni teologiche implicite alla vicenda[3], si pronunciarono tutti per la condanna di Atanasio, con la sola eccezione di Paolino di Treviri, il quale venne esiliato. Persino i legati papali firmarono quella condanna. Liberio ne fu addoloratissimo, tanto che ne scrisse al vecchissimo Osio ed inviò all’Imperatore Costanzo i vescovi Lucifero di Cagliari[4] ed Eusebio di Vercelli[5]. A seguito del vivace scambio di pareri che da tutto questo risultò, l’Imperatore trasse una nuova decisione: autorizzò il Concilio chiesto da Liberio, ma ordinò che, invece che ad Aquileia, si tenesse a Milano.
La maggioranza vescovi riuniti a Milano nel 355, probabilmente influenzati da Valente ed Ursacio, credette che Atanasio fosse l’unico e vero ostacolo ad una completa pacificazione tra le comunità religiose. Lucifero di Cagliari cercò di resistere ed Eusebio di Vercelli fece di tutto per riportare la discussione nell’ambito del terreno dogmatico, chiedendo la riconferma del Simbolo niceno. Ma quando Dionisio[6], vescovo di Milano, fu sul punto di firmarlo e Valente glielo impedì con la forza, scoppiò un vero e proprio tumulto. L’Imperatore, allora, convocò i vescovi ed impose loro di scegliere tra il condannare Atanasio e l’esilio. Eusebio, Lucifero e Dionisio scelsero l’esilio, e sulla cattedra di Milano venne messo l’ariano Aussenzio[7].
In tal modo l’ortodossia nicena veniva sconfitta anche in Occidente. Papa Liberio si preparò a resistere, ma era chiaro che l’Imperatore avrebbe ben presto preteso che anche la Sede di Roma accettasse la sua imposizione. E infatti Costante tentò dapprima con le minacce[8], poi con le lusinghe[9] e infine con la violenza: nello stesso autunno del 355 il prefetto della città, Leonzio, ricevette l’ordine di arrestare il Papa segretamente, per timore del popolo, e di tradurlo alla corte imperiale.
Il resoconto del colloquio tra Liberio ed il potentissimo sovrano ci è conservato dallo storico e teologo Teodoreto[10]. Il Pontefice resistette alle pressioni dell’Imperatore, rifiutò la sua offerta di una grossa somma a titolo di rimborso delle proprie spese, né cedette alla sua collera dovuta al livore verso Atanasio. Costante, allora, esiliò Liberio a Berea, in Tracia, sotto la sorveglianza del vescovo Demofilo – ariano convinto – ed insediò sulla cattedra di Pietro l’acidiacono Felice II.
Ma l’equivoco dogmatico non poteva protrarsi indefinitamente, poiché quell’atteggiamento unilaterale che, dopo il Concilio di Milano, pareva avere prevalso in tutta la Chiesa, fece insorgere, all’altra estremità della rosa dottrinale, una sorta di neoarianesio più radicale di quello di Ario stesso: l’anomeismo. La comparsa di tale dottrina si può far risalire al 350 circa, quando Aezio[11] venne elevato al diaconato. Unendo all’eredità dei vecchi collucianisti una solida formazione filosofica, una notevole padronanza dell’argomentazione dialettica e un gusto quasi eccessivo per essa, egli adottava una posizione senza adattamenti o sfumature: identificando l’essenza divina con la nozione di ingenerato evidentemente tipica del Padre, ne risultava che il Figlio, lungi dall’essergli consustanziale (o quanto meno simile), appariva totalmente diverso (anòmoios), da cui l’appellativo della sua dottrina, cioè anomeismo. Una posizione così rigida – posizione che il suo discepolo Eunomio[12] non avrebbe certo contribuito a temperare – provocò, come contraccolpo, la formazione di un terzo partito, a sua volta frazionato in più tendenze di fronte allo sviluppo, o meglio al progresso dell’analisi teologica. In pratica, se si rifiuta l’anòmoios (cioè il “diverso”, il “dissimile”), fin dove può arrivare la rassomiglianza? Una di queste fazioni non esiterà ad affermare che il Verbo è in tutte le cose simile al Padre, senza alterazione, ed in particolare, per ciò che riguarda la sostanza, è di una sostanza simile al Padre, cioè homoioùsios[13]. Da questi omeusiani, il cui principale rappresentante fu il vescovo Basilio di Ancira[14] ed alla cui dottrina aderì anche il vescovo Macedonio di Costantinopoli[15], si separano a più riprese diversi gruppi in posizione più arretrata rispetto a questa tendenza molto vicina all’ortodossia nicena, tutti più o meno subordinazionisti e che si attenevano alla formula vaga che il Figlio è simile al Padre (hòmoios), da cui il nome di omeisti, capo dei quali era Acacio[16], allievo di Eusebio di Cesarea.
Così nell’agitazione e confusione che caratterizzano l’ultimo periodo del regno di Costanzo II, i concili si susseguono e si moltiplicano di continuo (soprattutto nei pressi della residenza imperiali a Sirmio, sul fronte del Danubio), le formule si susseguono alle formule, le tendenze si contrappongono alle tendenze, e questo non solo perché i vari partiti si affrontano sul piano teologico, ma soprattutto perché l’Imperatore – non potendo o non volendo prendere una posizione – continua ad esitare: in questo Oriente diviso il solo problema è sapere a quale teologia intenderà aderire Costanzo. La formula approvata dal Concilio di Sirmio del 357 è nettamente subordinazionista; ma sempre a Sirmio, nel 358, prevarrà la formula di Basilio di Ancira, la stessa che Papa Liberio, ormai distrutto dagli anni d’esilio, accettò di ratificare.
Certo la fermezza quasi eroica dimostrata da Liberio a Milano non avrebbe lasciato presagire la sua resa, della quale non è possibile dubitare sia per le molteplici testimonianze, sia per le quattro lettere[17] conservateci da Ilario di Poitiers[18]. Nella tradizione e nella leggenda, la figura di Liberio divenne così quella del “papa eretico”, e ciò venne usato anche come argomento nelle discussioni sull’infallibilità del Pontefice[19].
Cosa possa avere indotto Liberio a cedere, non è difficile da immaginare: da una parte la gravosità dell’esilio, il trovarsi solo e privo dei suoi più fidi consiglieri, le pressioni dei vescovi Demofilo e Fortunaziano di Aquileia, le preoccupazioni per la sua Chiesa abbandonata all’intruso; ma dall’altra – e più probabilmente – la constatazione che fra gli stessi Orientali veniva acquistando forza e credito una corrente più moderata, che attorno appunto a Basilio di Ancira si sforzava di trovare una formula di fede conciliativa, per ristabilire l’unità, pur continuando a respingere Atanasio. Forse, l’atteggiamento intransigente di quest’ultimo a Liberio parve più che fermezza ostinazione, convincendolo che larga parte nel provocare il dissidio avesse una questione di persone, e che valesse la pena di sacrificare un uomo – anche se di grandissimi meriti – pur di salvare l’unità della Chiesa.
Ma il cedimento di Liberio non poteva rappresentare per Costanzo quel trionfo in cui egli aveva sperato. Il Papa, infatti, poteva ora rivendicare il diritto di rientrare a Roma, dove l’Imperatore aveva insediato Felice; e sebbene questi fosse inviso sia al popolo che al clero, non era pensabile che Costanzo potesse abbandonarlo al suo destino, senza neppure cercare di sostenerlo. La soluzione fu quindi dettata dal compromesso: a Liberio fu dapprima concesso di soggiornare presso la corte, dove gli vennero richieste nuove garanzie, e solo successivamente – dal momento che il popolo romano lo chiedeva a gran voce – fu concesso di rientrare in sede, però con la strana disposizione che egli governasse insieme a Felice, come collega, la Chiesa Romana. Si può anche pensare (ma forse è eccessivo) che tale assurda misura fosse scaturita da un perfido calcolo di Costanzo per rimandare nuovamente in esilio Liberio, o magari Felice (secondo la convenienza), quale provocatore di disordini. Resta comunque il fatto che i disordini scoppiarono: la maggioranza del clero e del popolo si pronunciò per Liberio; Felice, riuscì dapprima ad impadronirsi della Basilica Iulii, in Trastevere, poi fu costretto a fuggire e a rifugiarsi in un suo podere a Porto, dove morì il 22 dicembre 365[20].
Ma ancora una volta il vento era destinato a cambiare e le diverse tendenze si scontrarono violentemente nel corso del duplice Concilio di Rimini (per gli Occidentali) e di Seleucia Isaurica (per l’Oriente). Il fatto che il vescovo di Roma non fosse chiamato non tanto a presiedere, ma neppure a partecipare al Concilio, più che ad una perdita di prestigio di Liberio, va attribuito alla strana situazione creata da Costanzo, la cui decisione di convocare quel Concilio era dovuta ad un’abile manovra di Acacio contro Basilio di Ancira. L’assemblea di Rimini (luglio 359) venne pertanto presieduta da Restituto di Cartagine e dopo complesse vicende, sia per le manovre di Ursacio e Valente, sia per quelle dei funzionari imperiali, finì per appoggiare l’arianesimo più spinto di Acacio. Ma la decisione definitiva non poteva che essere presa a livello imperiale: nel Concilio di Costantinopoli (apertosi il 1° gennaio 360) Costanzo II si schiera a favore dell’omeismo acaciano e proclama in forma solenne quella che ormai deve essere considerata la fede dell’Impero. L’adesione dell’episcopato viene ottenuta con la persuasione o con la forza, mentre coloro che resistono e non si piegano vengono deposti o esiliati. È questo un atto veramente importante, che mette fine al periodo di elaborazione dottrinale: il credo omeista del 360 definisce quello che si può chiamare l’arianesimo storico, così come verrà ormai professato dalle comunità o dai popoli ostili all’ortodossia cattolica e al simbolo di Nicea.
Successivamente la morte di Costanzo II (361) e l’ascesa al trono di Giuliano[21] l’Apostata venivano a complicare ulteriormente la situazione. Giuliano regnò soltanto fino al 363, ma il suo nome resta legato al più energico tentativo di restaurazione della tradizione pagana. Tutti i figli di Costantino avevano continuato a favorire il cristianesimo, e Costanzo II era anche giunto ad emanare un legislazione contro i pagani, benché – come si è visto – avesse applicato nei confronti della Chiesa un pesante cesaropapismo. Giuliano, invece, fece ogni sforzo per rovesciare la situazione e per respingere ai margini il cristianesimo che, ai suoi occhi, appariva come una religione persecutoria, intessuta di intrighi e di beghe dogmatiche. Spirito seriamente religioso, egli aveva trovato nella tradizione neoplatonica e stoica, che costituivano le più alte manifestazioni del pensiero pagano ellenistico, le giustificazioni più consone alla sua religiosità; ispirandosi alla figura ideale di Marco Aurelio, egli tentò di reincarnare il principe di tipo augusteo, dando l’esempio di una vita integerrima, di un altissimo senso del dovere, e rinunciando persino ad apparire come una divinità agli occhi dei sudditi.
Dal punto di vista politico, Giuliano cercò di risanare l’amministrazione colpendo gli abusi, prendendo provvedimenti per alleggerire l’ormai insopportabile pressione fiscale, scegliendo oculatamente i funzionari tra i pagani più colti e degni di stima. Dal punto di vista religioso, e nell’ottica di restaurare i culti pagani come religione ufficiale, egli si ispirò ad un monoteismo solare in cui confluivano mitraismo[22] e neoplatonismo[23], monoteismo che peraltro non escludeva il culto degli dèi delle varie tradizioni nazionali, come quello di Jahvè; inoltre intraprese una serie di misure per riorganizzare le gerarchie sacerdotali pagane e la beneficenza a imitazione della Chiesa cristiana.
Pur scrivendo apertamente contro i cristiani, Giuliano non emanò una legislazione persecutoria contro di loro; di fatto però accadde che il favore concesso dalle autorità alla tradizione pagana permise atti di violenza ed eccessi, come ad esempio in Alessandria dove la folla massacrò il vescovo Giorgio. Il preciso disegno dell’Imperatore di ridurre il peso del Cristianesimo nella vita pubblica si concretò in alcune disposizioni che prevedevano la restituzione ai templi pagani dei terreni confiscati in precedenza, e soprattutto nella legge che vietava ai cristiani il pubblico insegnamento (ad esempio, il celebre retore romano Mario Vittorino fu costretto a dimettersi) e riduceva o annullava i molti privilegi concessi in età costantiniana all’alto clero. Pur facendosi all’apparenza interprete della tolleranza religiosa, al punto che molti cristiani poterono mantenere i loro alti incarichi statali, in realtà quella tolleranza era il frutto di una politica geniale e perfida, poiché con l’amnistia generale tutti i vescovi esiliati rientrarono nelle loro sedi ed i partiti smantellati da Costanzo poterono ricostituire le proprie forze; si scatenarono così nuovamente tra ariani, donatisti e niceni quei dissidi interni e quelle lotte che già avevano seriamente compromesso la compattezza del mondo cristiano, in quel momento più necessaria che mai.
E come allora nella città di Roma cristianesimo, paganesimo ed ogni attività politico‑amministrativa procedessero paralleli, ci viene mostrato da un importante documento, che prende il nome di «Cronografo dell’anno 354», istoriato dal celebre calligrafo Furio Dionisio Filocalo, e in cui accanto al calendario ufficiale con le indicazioni delle festività pagane ed ai fasti consolari con la lista dei prefetti di Roma, si trovano un ciclo pasquale, l’elenco dei Papi fino a Liberio e le date delle deposizioni dei martiri, dal III secolo in poi, e di quelle dei papi. Queste due liste sono disposte secondo l’ordine del calendario, ma a partire non dal primo gennnaio, bensì dal 25 dicembre: cioè da giorno in cui la Depositio martyrum segna «Natus Christus in Bethleem Iudeae». E Siccome nella Depositio episcoporum è registrato al 27 dicembre il Papa Dionisio e alla fine dell’anno – cioè l’8 dicembre – Eutichiano, mentre vi sono ricordati, ma fuori dell’ordine i Papi Marco e Giulio, è chiaro che entrambi questi documenti dovettero essere redatti sotto il pontificato di Marco ma, per ciò che riguarda almeno il secondo, aggiornati fino sotto Liberio. Risulta quindi chiaro che al tempo di Marco era già festeggiata in Roma la festività del Natale al 25 dicembre, mentre mancano indicazioni di ciò per l’epoca precedente. Anzi, poiché le prime generazioni di cristiani non sembrano essersi eccessivamente preoccupate di celebrare la nascita del Salvatore e di fissarne la data esatta, e poiché il 25 dicembre – giorno in cui cadeva allora il solstizio d’inverno – è anche quello della festa di natività del dio Sole, non appare del tutto improbabile che la celebrazione della nascita del Redentore, chiamato dai profeti Sol iustitiae, fosse introdotta anche con il proposito di contrapporre alla festa pagana la festa cristiana, cui andava allora probabilmente unita la commemorazione dei Ss. Innocenti. Il che dimostra ulteriormente come di avvertisse, dopo Costantino, la necessità di mantenere viva negli animi dei fedeli la coscienza della loro separazione dai pagani. Va aggiunto che alla festa sembra palesemente alludere il discorso che Papa Liberio tenne nell’occasione del solenne consacrarsi a Dio di una fanciulla appartenente ad una famiglia aristocratica: Marcellina, orfana di un prefetto delle Gallie, e sorella di quel S. Ambrogio che ci ha conservato il discorso del Papa. Il ricordo del quale è anche legato a quello della basilica romana che porta appunto il nome di liberiana, ed altresì quello, strettamente unito alla festività del Natale, di S. Maria ad praesepe[24], più comunemente nota come S. Maria Maggiore.
Comunque, con il ritorno in sede di Liberio, la Chiesa di Roma perse, comprensibilmente, parecchio del suo prestigio: per Atanasio, infatti, e per tutti gli altri vescovi aderenti alla stretta ortodossia nicena che soffrivano l’esilio, come Ilario di Poitiers, Liberio aveva cessato d’essere un alleato e compagno di sofferenze; e, d’altro canto, non conveniva certo alla Chiesa orientale che Roma guadagnasse ulteriore influenza. Per di più gli orientali erano tutti assorbiti dagli sforzi verso la conciliazione, di cui Atanasio stesso divenne uno dei promotori, chiarendo nel Concilio da lui tenuto in Alessandria il significato del termine hypóstasis, sicché potevano essere altrettanto ortodosse le espressioni «tre ipostasi» e «una ipostasi», purché fosse chiaro che nel primo caso il sostantivo veniva interpretato nel senso (che poi prevalse) di «persona», e nel secondo nel senso di «sostanza» o di «essenza». Papa Liberio non si lasciò sfuggire l’occasione che gli si offriva di riprendere una posizione eminente e si associò al tentativo di pacificazione rivolgendosi ai vescovi italiani, ma la sua azione non suscitò echi notevoli.
Contemporaneamente, però, nascevano anche nuove tendenze e nuovi dissensi, poiché alcuni ortodossi e semiariani non riconoscevano la piena divinità dello Spirito Santo, mentre il Vescovo Apollinare di Laodicea, rigorosamente niceno quanto alla Trinità, sviluppava una dottrina molto meno sicura per quanto concerne la cristologia: nell’Incarnazione, il Verbo divino svolge la funzione di principio vitale, normalmente svolta in un uomo comune dalla spirito – il che, obbietterà l’ortodossia, menoma e lascia imperfetta l’umanità di Cristo. In questa situazione, Papa Liberio ottenne forse ancora che tre Vescovi «omeusiani» accettassero la fede nicena, ma nemmeno questo valse a ridargli utorità.
L’arianesimo, comunque, non era ancora vinto. Il regno di Giuliano l’Apostata fu fortunatamente troppo breve perché la reazione pagana avesse il tempo di approfondire le sue devastazioni. Quello del suo successore Valentiniano[25] corrispponde ad un periodo di restaurazione e di stabilizzazione: in Occidente questo Imperatore, personalmente cristiano e niceno, ma poco incline ad intervenire nelle dispute teologiche, appare soprattutto preoccupato di riunire tutte le forze dell’Impero per fare fronte ai barbari. Sul piano religioso adotta un atteggiamento pacifista e tollerante ed in tutte le province latine, in cui l’ortodossia nicena è fortemente maggioritaria (ad eccezione dell’Illirico), lascia in carica i pochi vescovi omeisti imposti da Costanzo.
Per contro in Oriente suo fratello Valente[26] si atteggiava, come già Costanzo e per le stesse ragioni, ad Imperatore teologo, aderendo all’arianesimo moderato degli omeisti (così come era stato definito a Costantinopoli nel 360) e rendendo la vita dura non soltanto agli anomei, ma agli omeusiani ed ai seguaci di Nicea. Egli iniziò, insomma, una nuova campagna di intimidazione, con deposizioni di vescovi ed esilii. Il vecchio Atanasio venne espulso per la quinta volta da Alessandria[27] e poco tempo dopo il suo rientro in sede Papa Liberio venne a morte[28] e fu sepolto nella basilica di S. Silvestro sulla via Salaria.
L’elezione del successore rianimò i dissensi, sopiti durante gli ultimi tempi del pontificato di Liberio, determinando in seno al clero ed al popolo romano la formazione di due fazioni contrapposte: la prima formata dal clero già obbediente all’antipapa Felice II, l’altra favorevole a proseguire la politica conciliante del defunto pontefice verso gli eretici. Le due fazioni si riunirono separatamente. I primi – un gruppo di sette preti e tre diaconi, fautori di Felice, ai quali non garbava la mitezza di Liberio – alla testa di un ristretto numero di fedeli elessero, in tutta fretta, nella Basilica Iulii[29], il diacono Ursino, che fecero subito consacrare, contrariamente ai canoni, dal solo vescovo Paolo di Tivoli. Per contro, la maggioranza del clero e del popolo, nella basilica di S. Lorenzo in Lucina, elesse Damaso, uno spagnolo di famiglia patrizia, che godeva il favore delle classi aristocratiche e che fu consacrato dal vescovo di Ostia il primo ottobre. Le due basiliche divennero così le roccaforti delle due fazioni. I sostenitori di Damaso assalirono gli avversari e ci furono scontri con morti e feriti.
«L’ardore di Damaso e Ursino per occupare la sede episcopale», racconta Ammiano Marcellino[30], «superava qualsiasi ambizione umana. Finirono per affrontarsi come due partiti politici arrivando ad uno scontro armato con feriti e morti; il prefetto, incapace di impedire o soffocare il tumulto, dovette tenersi fuori dalla mischia. Damaso ebbe la meglio: la vittoria, dopo molti assalti, arrise al suo partito; nella basilica di Sicinnio, dove i cristiani si erano riuniti, furono trovati 137 morti, e passò molto tempo prima che gli animi si calmassero. Non c’è comunque da meravigliarsi, considerando lo splendore di Roma, che un premio così ambito accendesse il desiderio di uomini così maliziosi e determinasse le lotte più maliziose e ostinate. Una volta raggiunto quel posto, si gode in santa pace della fortuna assicurata dalle donazioni delle matrone, si va in giro su un cocchio vestiti elegantemente, si partecipa a banchetti il cui lusso supera quella della tavola imperiale». Del resto, questo malcostume ecclesiastico non è denunciato soltanto da Ammiano Marcellino[31], ma anche da S. Girolamo[32], che ci ha lasciato ulteriori particolari in proposito. «Ci sono alcuni che si fanno consacrare diaconi e preti solo per poter fare visita liberamente alle donne», denuncia il Santo in un suo scritto. E ancora: «Pensano solo a vestirsi bene e profumarsi di mille odori. I calzari debbono essere perfetti. Si arricciano i capelli con il calamistri; le dita sono sfolgoranti di anelli e per timore di sporcarsi le scarpe di fango li vedi camminare come in punta di piedi. A guardarli andare in giro in questo modo li prendi più per vagheggini che per chierci. L’operosità e la scienza di molti consiste esclusivamente nel conoscere nomi, case e tenore di vita delle matrone».
Il prefetto della città a cui fa riferimento Ammiano Marcellino, si chiamava Vivenzio e vista la situazione pensò prima di tutto a salvare se stesso e si ritirò in campagna per qualche tempo, in attesa di vedere come si sarebbero sviluppati gli eventi. Egli fece ritorno in città soltanto quando le acque si furono calmate, e visto che il vento sembrava spirare in favore di Damaso, cioè del gruppo più numeroso, espulse Ursino e i suoi due diaconi, Amanzio e Lupo. L’ordine parve quindi ristabilito, per cui l’Imperatore Valentiniano I consentì ad Ursino e ai suoi di rientrare in Roma, minacciando però pene severissime in caso di nuovi disordini. I subbugli, tuttavia, ricominciarono: Damaso ottenne, per mezzo dei defensores Ecclesiae romanae, di cui si trova per la prima volta menzione, che gli fosse restituita la basilica Liberiana; ma gli ursiniani continuarono a tenere S. Agnese. Così che, per ristabilire l’ordine, Valentiniano inviò definitivamente in esilio Ursino, che tuttavia non abdicò mai alle sue pretese; ciò, naturalmente, costituì un ostacolo non lieve agli sforzi di Damaso di riacquistare, anzi di accrescere il prestigio della Chiesa di Roma, che caratterizzano questo lungo pontificato.
A chiarire la posizione dogmatica del Pontefice, doveva servire il Concilio convocato a Roma nel 368 in cui venne condannato il filo-ariano Aussenzio, vescovo di Milano; va comunque notato che tale decisione rimase lettera morta, poiché l’Imperatore non fece bandire Aussenzio dalla città. Naturalmente Damaso non poteva insistere su questo punto e – tanto meno – poteva mettersi in urto con Valentiniano. A complicare la situazione, intervenne nuovamente Ursino. Questi, stabilitosi dapprima in Gallia, poté fare ritorno a Milano per concessione dell’Imperatore, e da lì riprese ad ordire una trama assai pericolosa contro Damaso. Nel 370 egli riuscì a corrompere un ebreo di nome Isacco, prima convertito al cristianesimo e poi tornato al giudaismo, istigandolo ad accusare Damaso di gravi delitti[33] presso il tribunale imperiale.
Il vicarius urbis, Massimiano, fu costretto ad istituire il processo contro il Pontefice, che il nuovo Imperatore Graziano[34] avocò a sé, forse anche in seguito all’intervento del prete Evagrio[35] che da Antiochia aveva seguito in Occidente Eusebio di Vercelli, rimanendovi anche dopo la morte di questi. Nel 372 Damaso fu assolto ed i suoi accusatori, Isacco ed Usrino, finirono in esilio, rispettivamente in Spagna e a Colonia.
Oltre alle difficoltà dovute a queste accuse, Damaso dovette affrontare anche quelle create dai numerosi gruppi di dissidenti presenti in Roma (dei quali abbiamo già accennato), tra i quali anche i seguaci del vescovo Lucifero di Cagliari. Costui, che era stato esiliato dopo il Concilio di Milano, prima di ritornare in patria, all’epoca dell’Imperatore Giuliano, aveva assunto un atteggiamento assai rigido, in netto contrasto con quello conciliante preso da Atanasio nel Concilio alessandrino del 362, al quale Lucifero non volle partecipare. Anzi, recatosi ad Antiochia, dove era ritornato dall’esilio Melezio[36], che era a capo di una tendenza intermedia conciliante tra gli ariani ed il piccolo gruppo ortodosso capitanato dal prete Paolino, Lucifero diede la consacrazione episcopale a quest’ultimo, aggravando la situazione e provocando quello scisma, che divenne subito nuova ragione di contrasti tra Occidente ed Oriente. Non solo, poiché Lucifero cominciò a sentirsi il solo campione dell’ortodossia tradita persino da Atanasio, è facile immaginare che i suoi sentimenti nei confronti di Damaso – e più ancora del suo predecessore Liberio – non potessero essere che di avversione. Così, sentendosi attaccato da tutte le parti, il Pontefice non riuscì a comprendere i nuovi sviluppi di quella situazione e finì con il sostenere Paolino anziché Melezio, sul quale invece convergevano le speranze di unità di tutto l’Oriente. Il grande Basilio di Cesarea[37], che aveva pensato di rivolgersi a Roma per ottenerne l’appoggio in favore di Melezio, ne rimase sconcertato e definì l’atteggiamento del Papa troppo intransigente. Va considerato comunque che a tale comportamento non fu certamente estranea sia l’azione temporeggiatrice di Atanasio prima e, dopo la morte di lui, del fratello e successore Pietro, il quale – per la politica filo‑ariana dell’Imperatore Valente – era stato costretto a lasciare Alessandria per rifugiarsi a Roma, sia l’atteggiamento assunto da Evagrio di Antiochia (che, ritornato in patria, sosteneva Paolino contro Melezio), sia le informazioni che dall’Oriente San Gerolamo mandava in Occidente.
Damaso fu comunque molto energico nella repressione delle eresie tanto che non si fece scrupolo di ricorrere in caso di necessità anche al potere secolare. Tuttavia, nel 380, consigliò dapprima moderazione nel trattare con il priscillianismo[38], una eresia esoterica spagnola che aveva tratti dualisti e sabelliani; ma in sinodi successivi non esitò a condannare sia l’apollinarismo[39] che il macedonianismo[40]. Inoltre, in virtù della sua forte personalità, ma anche dei favori che godeva presso la corte imperiale e l’aristocrazia[41], egli cercò di abbattere molti dei pregiudizi che tante famiglie aristocratiche pagane nutrivano nei confronti dei cristiani.
Altro obbiettivo che Damaso riuscì a perseguire con metodo ed efficacia fu quello di imporre il primato della sua sede. I Concili di Roma del 369 ed il Concilio di Antiochia del 378 gettano le basi della futura supremazia della Chiesa di Roma su tutte le altre sedi. Riguardo al giudizio degli ecclesiastici, viene sancito che questi dovranno essere diretti o dal vescovo di Roma o, per le regioni più lontane, dal metropolita. Se invece l’accusato fosse un metropolita, egli avrebbe dovuto essere giudicato o dal vescovo di Roma o da giudici da lui designati. Quanto poi a quest’ultimo – e quindi a Damaso personalmente – non poteva essere considerato inferiore agli altri, cui era invece era superiore in virtù di una prerogativa spettate ad una Sede apostolica; pertanto suoi giudici potevano esere soltanto il suo Concilio o il Concilium imperiale. Inoltre, venne stabilito che un vescovo potesse considerarsi legittimo solo se riconosciuto dal vescovo di Roma. Rifacendosi a tutti questi diritti del Pontefice, S. Ambrogio indicò in una formula lapidaria l’essenza del Cristianesimo per l’Oriente e per l’Occidente: «Dove è Pietro, là è la Chiesa». Il che non faceva altro che riproporre la frase di Gesù tramandataci dal Vangelo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», come lo stesso Damaso, appunto, ricorderà nel Concilio romano del 382: «La Santa Chiesa di Roma ha la precedenza su tutte, non grazie alla deliberazione di questo o quel concilio, ma perché il primato le fu conferito dalla frase di Nostro Signore e Salvatore e riportata nel Vangelo».
In virtù di questa autorità recuperata, anche grazie all’appoggio di un trascinatore di masse come S. Girolamo, l’arianesimo cominciò gradatamente a perdere terreno. Del resto, i mutamenti intervenuti a livello degli Imperatori facevano sì che l’eresia non potesse essere più tollerata. Morto Valente nella disastrosa battaglia di Adrianopoli[42], Graziano, rimasto solo a reggere le sorti dell’Impero, in una lettera al vicarius urbis Aquilino, accettò quasi tutte le richieste del Concilio romano del 378, tacendo però sul punto del privilegio speciale del vescovo di Roma. Quando poi Graziano si associò nell’Impero, affidandogli l’Oriente, il generale di origine spagnola Teodosio[43], cristiano fervente e, da buon occidentale, niceno convinto, s’ebbe un vero e proprio capovolgimento della situazione religiosa. Il 28 febbraio del 380, infatti, Teodosio I promulgò a Tessalonica un editto che imponeva ai suoi sudditi l’ortodossia cattolica, definita riferendosi alla Cattedra di Pietro, al suo titolare Damaso ed al suo alleato il vescovo Pietro d’Alessandria[44]. Come sempre la volontà imperiale detrminò un visibile cambiamento: così, appena arrivato a Costantinopoli, Teodosio espulse dalla sede episcopale l’ariano Demofilo insediandovi quello che fino ad allora era stato soltanto il capo di una piccola comunità ortodossa della capitale, Gregorio di Nazianzo[45].
Meglio informato della situazione in Oriente, e convintosi che non si poteva imporre l’ortodossia né il ritorno all’unità con semplici misure di forza, l’Imperatore riconobbe Melezio come vescovo di Antiochia e gli affidò la presidenza del Concilio da lui convocato per aiutare a restaurare l’ortodossia: fu il secondo Concilio Ecumenico riunitosi a Costantinopoli nel 381. A questo Concilio, che condannando i seguaci di Macedonio o “pneumatomachi”[46] completava il Credo di Nicea affermando la divinità dello Spirito Santo, Damaso rimase estraneo. Di fatto, vi si manifestò il contrasto tra Alessandria e Costantinopoli, tanto che Gregorio di Nazianzo – per evitare le polemiche sia sulla sua ascesa al patriarcato, sia sulla sua elezione a presidente del Concilio dopo l’avvenuta morte di Melezio – si ritirò e quale nuovo vescovo della capitale dell’Oriente e “nuova Roma”, cui veniva assegnato nella gerarchia delle sedi patriarcali il secondo posto, venne eletto Nettario. Teodosio emanò un secondo decreto d’unione con Nettario, Timoteo d’Alessandria[47], Gregorio di Nissa[48], Diodoro di Tarso ed altri cinque vescovi. Antiochia di Siria, stante il perdurare dello scisma che Gregorio di Nanzianzo aveva inutilmente cercato di ricomporre, non venne nominata: ma neppure Roma.
Varie cose, e tra loro il colpo inferto alla sede di Alessandria, così strettamente unita a Roma e all’Occidente durante tutta la controversia, non potevano piacere agli Occidentali. Ambrogio, il vescovo di Milano succeduto nel 374 ad Aussenzio per volontà popolare e strenuo difensore dell’ortodossia, protestò fermamente contro la decisione conciliare che vietava ai vescovi di ingerirsi negli affari ecclesiastici di sedi che fossero poste in diocesi dell’Impero diverse da quelle cui apparteneva la loro, e – pur avendone tenuto uno ad Aquileia condannandovi due ariani – chiese un nuovo Concilio ecumenico. Gli Imperatori preferirono convocarne due, uno a Costantinopoli ed uno a Roma, ove vennero anche S. Epifanio vescovo di Salamina di Cirpo e Paolino di Antiochia, accompagnati da S. Girolamo, che da quest’ultimo aveva avuto l’ordinazione sacerdotale. Ed il Concilio di Roma, mentre riaffermava le condanne dell’apollinarismo e del macedonianismo, e pur ratificando l’elezione di Nettario a Vescovo di Costantinopoli, tenne il punto nei riguardi di Paolino che veniva riconosciuto come vescovo legittimo di Antiochia.
Ma un’altra cosa non poteva essere gradita a Damaso: la giustificazione che il Concilio del 381 aveva dato non solo delle prerogative di Costantinopoli, ma anche di quelle di Roma, facendole cioè dipendere dal fatto che si trattava delle due capitali dell’Impero. Ciò contrastava con quanto i Pontefici romani avevano sempre sostenuto e che il Concilio di Roma del 378 aveva confermato: il primato del Vescovo di Roma dipendeva dal fatto che era il successore di Pietro, indicato da Gesù quale capo degli Apostoli. A roma, inoltre, aveva trovato il Martirio non solo S. Pietro, ma anche S. Paolo. A ciò si ricollega anche uno dei molti epigrammi che questo papa scrittore e «poeta dei martiri» fece incidere presso la basilica di S. Sebastiano, cioè là dove secondo la tradizione avevano abitato i due Santi Apostoli, venuti sì dall’Oriente ma, in virtù del sangue versato nel martirio, cittadini di Roma. Né la venerazione di Papa Damaso per le memorie di S. Pietro e di S. Paolo si fermò qui, poiché egli fece anche raccogliere le vene d’acqua che inumidivano i sepolcreti del Vaticano, e che servirono ad alimentare la fontana nell’atrio e il fonte battesimale della basilica di S. Pietro, da lui fatti costruire.
Damaso, insomma, riuscì a rendere veramente dinamica la comunità di Roma coinvolgendola in un’opera di struttura ecclesiastica che forse non ha precedenti. Continuò l’attività costruttrice dei suoi predecessori, come dimostrano le Chiese fatte da lui edificare: quella dei Ss. Nereo e Achilleo e il titulus Damasi (overo S. Lorenzo in Damaso), costruita secondo alcuni sul luogo della casa abitata dal padre – che un’iscrizione appunto ricorda – oppure presso la Curia ove era stato assassinato Cesare, e accanto alla quale sarebbe sorto anche il nuovo edificio per gli archivi della Ciesa di Roma, che egli stesso aveva fatto riordinare. Inoltre, con l’intento di dimostrare che la vera gloria di Roma non era pagana ma cristiana, pose mano alla restaurazione delle catacombe e con i suoi epigrammi, magnificamente incisi dal celebre calligrafo Filocalo, ricordò numerosi martiri romani e ne promosse il culto.
Artista circondato da artisti, Damaso fu per quei tempi un Papa mecenate – il primo della storia – che cercò di affermare anche con lo splendore della decorazione e delle cerimonie il prestigio del pontificato romano. Glielo permetteva del resto il considerevole patrimoni di cui la Chieda di Roma disponeva, tanto che il prefetto Pretestato poteva prorompere nella celebre esclamazione: «Fatemi Vescovo della città di Roma e sarò subito cristiano».
Ma uno dei meriti più cospicui di Damaso, e che tutto sommato rientra in questo aspetto mecenatistico della sua personaltà, è quello di avere riconosciuto il valore di un uomo come S. Girolamo, di cui egli fece il proprio segretario per rispondere a chi dall’Oriente e dall’Occidente lo consultava. Al dottissimo esegeta, esperto di greco e di ebraico, il Papa domandò pensieri e spiegazioni su termini e su passi della Bibbia. Oltre a ciò S. Girolamo tradusse per lui due omelie di Origene sul Cantico dei Cantici e cominciò la versione del trattato di Didimo Cieco sullo Spirito Santo. Sempre per impulso del Papa egli s’impegnò anche nella revisione del testo latino dei Salmi e del Nuovo Testamento, un’opera unica per il processo di cristianizzazione dell’Oriente e dell’Occidente. E proprio la Volgata latina composta da S. Girolamo costituisce forse l’opera più duratura composta sotto il pontificato di Damaso, destinana a restare nei secoli la base di un punto di riferimento comune di tanti popoli diversi per lingua, riuniti però nella lettura in latino della prola di Cristo.
Ma non tutti i dotti cristiani di Roma erano favorevoli a Damaso. Tra questi, talvolta in competizione con S. Girolamo, era anche l’ignoto autore di una specie di Questioni sul Vecchio ed il Nuovo Testamento e di un Commento alle epistole di S. Paolo che furono poi pubblicate da Erasmo da Rotterdam, il quale negò giustamente l’appartenenza di questi scritti a S. Ambrogio ed affibbiò all’ignoto scrittore il nomignolo – rimastogli poi – di Ambrosiastro. Ed è forse dovuto a questa mancanza di unanime consenso presso l’intellighentia cristiana il cauto comportamento di Damaso nel già citato caso del priscillianismo. Del resto, la Chiesa di Roma aveva ormai in Italia, anzi presso la corte di Milano ed assai autorevole in essa, un altro grande esponente: S. Ambrogio. Fu questi ad assumersi il compito di rispondere alla protesta del pagano Simmaco contro l’editto dell’Imperatore Graziano che nel 382 fece definitivamente togliere dall’aula del Senato romano la statua della Vittoria. E sempre ad Ambrogio toccò difendere, dopo, l’assassinio dell’imperatore Graziano, i diritti del piccolo Valentiniano II[49] presso l’usurpatore Massimo. Dopo tante lotte, Damaso – ormai vecchio – doveva sentirsi stanco. Morì, infatti, quasi ottantenne l’11 dicembre del 384 e venne sepolto, con la madre e la sorella, nella basilica sulla via Ardeatina.
Quale successore di Damaso venne eletto il romano Siricio, figlio di triburzio, che era stato diacono sotto Liberio e sotto Damaso. I diaconi in Roma erano sette, e sopraintendevano ciascuno alla carità della Chiesa in una delle sette regioni in cui, probabilmente, era stata suddivisa la città fin dal tempo di Papa Fabiano. Inoltre, i diaconi avevano funzioni amministrative importanti ed erano i più stretti collaboratori del pontefice; per tali motivi venivano scelti a tale ufficio uomini d’età matura. In ragione del loro piccolo numero, assai inferiore a quello dei presbiteri, che all’epoca dovevano essere circa una settantina, i diaconi avevano acquistato grande autorità, tanto che l’Ambrosiastrone notava la loro iattanza.
Se vane rimasero, al momento dell’elezione, le brighe di Ursino – delle quali abbiamo testimonianza in una lettera dell’Imperatore Valentiniano II al suo prefetto Piniano – è assai probabile che la scelta di Siricio non fosse propriamente gradita a S. Girolamo, sempre apertamente critico con il clero romano in genere, e che dovesse alquanto dispiacere al gruppo delle nobili pie e colte dame romane[50] che ne seguivano gli insegnamenti sulla Sacra Scrittura e sull’ascetismo. Ma l’ideale della rinuncia e della mortificazione, sempre predicato in senso pienamente cristiano, ad alcuni pareva troppo simile a quello del manicheismo – fondato su premesse nettamente dualistiche – e per tale motivo era guardato con sospetto. In particolare, l’esaltazione della verginità, appariva agli occhi di costoro un modo di screditare il matrimonio e la procreazione, tanto che un certo Elvidio pretese di sostenere che anche la Madonna, dopo la nascita verginale di Gesù, aveva vissuto con S. Giuseppe come qualsiasi altra moglie. S. Girolamo, naturalmente, confutò duramente questa teoria, difendendo non solo la verginità perpetua di Maria, ma esaltandone lo stato di assoluta castità al di sopra di quello coniugale. Nonostante tutto ciò, S. Girolamo aveva in Roma chi lo critiava; e se in un primo momento poté anche sembrare che sarebbe toccato a lui succedere a Damaso, che era stato suo protettore, in realtà, fin dai primi mesi del pontificato di Siricio, egli dovette sentrisi a disagio, visto che nell’agosto del 385 lasciò Roma per la Plestina.
Frattanto Siricio Raccoglieva l’eredità di Damaso e dovette sentirsi subito impegnato a proseguire nel solco tracciato da suo predecessore, visto che due mesi dopo la sua elezione (febbraio 385) scriveva al vescovo Imerio di Tarragona una lettera che, sebbene non possa essere definita – come è stato fatto da molti – la prima Decretale[51] giunta fino a noi, contiene la netta affermazione del primato del Vescovo di Roma, erede e portavoce di S. Pietro, e da lui protetto. La lettera è in pratica una risposta alle questioni che Imerio aveva sottoposto a Papa Damaso, che però era morto senza potergli rispondere, e contiene la prescrizione che gli ariani ritornati alla fede ortodossa non debbano essere ribattezzati, ma sottoposti soltanto allimposizione delle mani; che il battesimo sia impartito solo a chi si sia iscritto almeno quaranta giorni prima ed abbia compiuto un degna preparazione; che non si possano benedire le nozze di una fanciulla se non con il giovane al quale è stata promessa con gli sponsali solenni benedetti dal sacerdote; che vescovi, presbiteri e diaconi debbano osservare il celibato, oltre ad altre disposizioni di valore universale. Lo stesso tono – quasi da monarca assoluto – che accumola recise espressioni di comando e di divieto, si osserva anche in tutte le altre lettere di questo Papa, compresa quella in cui comunica ai Vescovi africani le decisioni del Concilio romano del 386, che aveva affermato una volta di più il primato del Vescovo di Roma sugli altri.
Per quanto Siricio non dovette nutrire grande simpatia per S. Girolamo, che – come già detto – lo ricambiava ed in certe lettere sembra polemizzare con lui, non si deve tuttavia credere che questo Papa fosse un avversario dell’ascetismo, basando questo giudizio sul fatto che egli combatté con ogni mezzo il manicheismo, che in Roma aveva ancora molti seguaci. Va inoltre considerato che, proprio in quegli anni, arrivò a Roma dall’oriente il monachesimo sotto forma – appunto – di esagerato ascetismo; ma che poi, in realtà, i monaci – inseriti nella vita di una grande città come Roma – condussero un’esistenza disordinata, abbandonati com’erano a se stessi e senza regole precise. Tra costoro costoro ebbe particolare rilievo la figura di un certo Gioviano, il quale, dopo aver vissuto a lungo il monachesimo con digiuni e macerazioni, non solo ricadeva negli errori di Elvidio, ma giunse anche a formulare una personalissima dottrina all’insegna della dissolutezza. Per lui nessuna differenza esisteva tra castità e lussuria: il vero cristiano, infatti, non giungerebbe mai a compiere alcun peccato, se ha profondamente assimilato il senso del batesimo. Ed è chiaro che con simili premesse ogni cosa diventava lecita. Contro di lui, con scritti rimasti famosi nella letteratura cristiana dell’epoca, si Levarono S. Girolamo e S. Ambrogio, e nel 392 – in un sinodo convocato a Roma – Siricio lo condannò come eretico, facendolo espellere dalla comunità con i suoi seguaci.
Sempre S. Ambrogio ebbe una parte importante nel Sinodo convocato a Capua da Siricio nel 391, nel quale venne condannato Bonoso di Naisso in Dacia, il quale sosteneva che, dopo la nascita di Gesù, maria avrebbe avuto altri figli. S. Ambrogio, del resto, Vescovo di una delle due capitali, godeva di grande autorità in tutto il mondo cristiano e presso la corte. A lui Valentiniano II affidava le missioni contro l’usurpatore Massimo; a lui toccò una parte principale nella questione di Priscilliano e nella protesta contro la sua condanna a morte[52]; a lui toccò di combattere e debellare definitivamente l’arianesimo in Occidente, resistendo alle ingiunzioni dell’Imperatrice madre Giustina; a lui di consigliare e redarguire Teodosio in ben note occasioni. Almeno uno dei discorsi pronunciati da S. Ambrogio in tali occasioni fu da lui mandato alla sorella Marcellina, ch’era monaca a Roma; in esso si sosteneva l’indipendenza dell’autorità ecclesiastica dall’autorità civile: un’affermazione che dovette essere accolta dal Papa con grande soddisfazione[53]. Si può pertanto comprendere come Siricio non si opponesse all’estendersi della giurisdizione metropolitana di Milano su tutta l’Italia settentrionale (esclusa Ravenna) e sulla Rezia, anche sotto il successore di S. Ambrogio, S. Simpliciano[54].
Con S. Ambrogio, Sirico fu anche daccordo nella questione dello scisma di Antiochia, dove, alla morte di Paolino avvenuta nel 388, il partito di questi aveva voluto dargli un successore. Il problema fu dibattuto nel Sinodo di Capua e in quello di Cesarea in Palestina, e nel 398 Siricio riconobbe Flaviano[55] quale Vescovo legittimo, ponendo in tal modo fine allo scisma.
Siricio seguitò anche l’attività edilizia incrementata dal suo predecessore Damaso: fece ulteriori lavori nelle chiese di S. Clemente e S. Prudenziana, e – soprattutto – ricostruì su nuove strutture la basilica di S. Paolo, come ricorda una scritta su una colonna di cipollino, conservata sotto il portico settentrionale: «Siricius episcopus tota mente devotus». Morì il 26 novembre del 399 e fu sepolto nella Basilica di S. Silvestro, sulla via Salaria, presso il cimitero di Priscilla. Benché venerato come Santo già nei primi secoli dopo la sua morte, il suo nome fu omesso dalla prima edizione del Martirologio Romano (1584), a causa delle critiche di S. Girolamo e di S. Paolino di Nola. Il suo nome vi fu inserito nel 1748 da Papa Benedetto XIV, il quale scrisse anche un piccolo trattato per dimostrare la sua santità.
***NOTE***
[1] Cioè la proposta di riesaminare il caso di Atanasio.
[2] Il primo vescovo di Capua ed il secondo di un’altra chiesa della Campania.
[3] Non è un caso che Ilario di Poitiers non avesse ancora sentito parlare del Credo niceno e del termine homousios.
[4] Lucifero (? – Cagliari 370 d.C.), benché venerato come Santo dalla Chiesa Cattolica, fu personalità alquanto controversa tanto che la questione della sua Santità fu largamente dibattuta già dopo la sua morte. I suoi seguaci, detti luciferiani (il più noto di essi è Gregorio di Elvira), furono attaccati da Girolamo nel suo dialogo polemico Altercatio Luciferiani et Orthodoxi (“Litigio tra luciferiani e ortodossi”) del 378, dove Girolamo attacca il rigorismo dottrinale e disciplinare di Lucifero con sarcasmo, arrivando a chiedersi (con riferimento alla frase di Cicerone che aveva definito i sardi “mastrucati latrunculi” (cioè “ladruncoli coperti di pelli”), se ritenessero che Cristo fosse morto solo a vantaggio della “mastruca Sardorum”, e non anche per la salvezza di quanti erano caduti nell’eresia ariana, purché pentiti del loro errore. Successivamente lo stesso Gerolamo, nel De viris illustribus (392), dice che Lucifero non volle rinnegare quanto era stato stabilito nel Concilio di Nicea, e che questi era un uomo dotato di “fortezza d’animo” e di “disposizione al martirio”. Da parte sua Ambrogio, nella sua opera De excessu fratris Satyri (375), parla di Lucifero come di uno scismatico. Nella sua opera “Storia della Sardegna”, e più precisamente alla nota n° 508, il Manno riporta che alcuni autori scrissero del ravvedimento e della santità di Lucifero, mentre altri la combatterono, e che anche ai suoi tempi la questione era ancora aperta, tanto che, nel 1639, l’arcivescovo di Cagliari Monsignor Ambrogio Machin aveva scritto la Defensio Sanctitatis beati Luciferi. In un’altra nota, la n° 510, il Manno afferma che Urbano VIII, con il decreto del 20 giugno 1641, avrebbe ordinato a tutti di astenersi dal trattare in pubblico la questione della santità di Lucifero e dal condannare o difendere il suo culto fino a nuova decisione della Santa Sede. La posizione del Manno è quindi quella di lasciare sospesa la discussione, e semmai di leggere il De servorum Dei beatificatione di Papa Benedetto XIV.
[5] Eusebio (Sardegna, 283 circa – Vercelli, 371) fu il primo vescovo di Vercelli e fu uno dei principali esponenti della lotta contro la diffusione dell’eresia ariana: è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Secondo la tradizione agiografica, si sarebbe trasferito con la madre e la sorella minore a Roma dopo il martirio di suo padre: nell’Urbe fu prima lettore e sarebbe stato ordinato sacerdote da papa Marco e consacrato vescovo da Giulio I (345). Non si hanno notizie del suo episcopato prima del 354, quando viene menzionato in una lettera da Sant’Ambrogio che lo elogia per aver imposto agli ecclesiastici della sua diocesi la vita comune, come per i monaci, secondo il modello delle chiese orientali: per questo motivo, è anche onorato come co-fondatore del loro ordine dai Canonici regolari di Sant’Agostino.
[6] Dionisio, anche conosciuto come Dionigi, fu eletto nel 349 circa nono vescovo dell’odierno capoluogo lombardo, succedendo ad Eustorgio I. Le informazioni riguardanti la sua vita sono frammentarie. In ottimi rapporti con l’Imperatore Costanzo II ancora prima di salire al soglio vescovile, Dionisio – in un primo tempo – non esitò a sottoscrivere la condanna contro Sant’Atanasio ed i fedeli della dottrina trinitarista anche perché, come racconta Sant’Ambrogio nelle sue opere a parziale discolpa di quest’ultimo, questa condannava sostanzialmente Atanasio per lesa maestà nei confronti dell’Imperatore. Dionisio morì in esilio nel 360, poco prima che l’Imperatore Giuliano l’apostata, in ottica anti ariana, ne autorizzasse il rientro in patria. Le sue reliquie furono consegnate da San Basilio Magno al nuovo vescovo di Milano, Sant’Ambrogio e giunsero nella città nella primavera del 576 dopo che il gelido inverno di quell’anno aveva reso impraticabile ogni strada fino a Pasqua. Dionisio viene venerato come Santo dalla Chiesa Cattolica, da quella Ortodossa e da quella Copta.
[7] Aussenzio (m. 374), secondo una tradizione originario della Cappadocia mentre altre fonti lo ritengono goto proveniente dalla città di Durostorum (l’odierna Silistra) sul delta del Danubio, fu un teologo ariano che resse dal 355 al 374 il vescovado di Milano. Sant’Ambrogio apprezzò le sue capacità retoriche, pur considerandolo moralmente “peggiore di un Giudeo”. Aussenzio fu un seguace di Ulfila, l’«apostolo dei Goti», che tradusse la Bibbia in goto e convertì questa popolazione al cristianesimo ariano. Fu ordinato diacono ad Alessandria d’Egitto nel 343 da Gregorio di Cappadocia, instauratosi sul seggio del patriarcato dopo il primo esilio di Atanasio. Si spostò successivamente a Milano, diventando discepolo di Dionisio, vescovo della città. Quando Costanzo II depose il vescovo ortodosso Dionisio, Aussenzio, favorito dall’Imperatrice Giustina, fu eletto vescovo di Milano e presto diventò uno dei più acerrimi avversari delle tesi sostenute dal Concilio di Nicea. Sebbene scomunicato da papa Damaso nel 369, rimase vescovo di Milano e nel 386 sfidò Ambrogio in un pubblico dibattito, nel quale domandò per gli Ariani l’utilizzo della Basilica Portiana. I giudici, che erano i favoriti di corte dell’Imperatrice, gliela concessero; ma Ambrogio, rifiutando di cederla, pose sotto assedio la Basilica con una gran moltitudine di milanesi tanto che, temendo tumulti, l’Imperatrice Giustina fu costretta a riconsegnarla al culto cattolico. Salito al trono Valentiniano I, di fede cattolica, ad Aussenzio fu permesso di rimanere alla guida della sua diocesi ma dovette subire l’onta del pubblico attacco delle sue dottrine da parte di Sant’Ilario di Poitiers che contrappose al suo pensiero religioso il proprio “Liber contra Auxentium”, dal quale, se pur in un prospetto di contrapposizione, si possono ricavare molte notizie biografiche sul vescovo di Milano. L’unica sua opera rimastaci, le «Lettere di Aussenzio», è stata preservata ai margini del manoscritto De fide di Sant’Ambrogio e, insieme al “Vangelo” di Ulfila, sono le maggiori testimonianze delle credenze ariane scritte dai sostenitori di tale dottrina in un’epoca dove le decisioni del Concilio di Nicea continuavano ad alimentare un forte dibattito fin ai più alti livelli delle gerarchie ecclesiastiche.
[8] Fece arrestare il prete Eutropio e il diacono Ilario, latori delle lettere papali.
[9] Mandò a Roma l’eunuco Eusebio che, unitamente alla condanna di Atanasio, portò al Papa ricchi doni, che tuttavia Liberio ricusò.
[10] Teodoreto di Ciro (ca. 393-ca.457), vescovo di Ciro e teologo, nacque ad Antiochia e fu, già da piccolo, educato per la carriera ecclesiastica e teologica. All’età di 23 anni, nel 416, T. entrò nel monastero di Nicerte, vicino ad Apamea e nel 423 fu nominato vescovo di Ciro, in Siria. Dal 430, T. fu coinvolto nella controversia cristologica tra Nestorio e Cirillo d’Alessandria, schierandosi contro quest’ultimo nel Concilio di Efeso del 431, nel quale chiese la deposizione e scomunica di Cirillo e contro il quale scrisse nel 436 la sua Anatropé (Confutazione): in essa T. ribadì la dualità della natura di Cristo e accusò Cirillo di mischiare le due nature di Cristo per formare una singola natura divina. Perseguitato e accusato di nestorianesimo dai monofisiti, T. rispose scrivendo il suo libro più importante, l’Eranistes (il mendicante), in cui attaccava il monofisismo, accusato di mendicare le idee da eresie precedenti. Nel famigerato Concilio di Efeso del 449, fu condannato assieme a tutti gli altri teologi della scuola di Antiochia con l’accusa di nestorianesimo. Papa Leone Magno annullò le decisioni di questo Concilio, ma in contrasto con il pensiero papale, l’Imperatore lo ritenne valido. Tuttavia l’inattesa morte dall’Imperatore Teodosio II (450) rimise in gioco gli Ortodossi, che ottennero dall’Imperatrice (Santa) Pulcheria, essa stessa fervente cattolica ortodossa, e dall’Imperatore Marciano (450-457), la convocazione di un Concilio a Calcedonia nell’Ottobre 451. In questo concilio vennero condannati sia il monofisismo che il nestorianesimo, e, sebbene malvolentieri, T. accettò di votare la condanna di quest’ultima eresia. Quasi 100 anni dopo la sua morte, T. venne associato a Nestorio e condannato postumo, nel 544, dall’editto dell’Imperatore Giustiniano (527-565) contro i Tre Capitoli, e dal II Concilio di Costantinopoli del 553.
[11] Aezio, nacque a Celesiria (oggi Beqa’a) all’inizio del IV secolo. La sua dottrina ebbe varia fortuna: nel 357 l’anomeismo ebbe la meglio ed i vari discepoli di A. occuparono posti di rilievo; tuttavia, la reazione dell’opinione pubblica fu talmente energica, che successivamente (358) l’Imperatore Costanzo decise di bandire A. e i suoi seguaci. Il concilio di Seleucia del 359, aggiornato a Costantinopoli nel 360, vide la strenua opposizione degli aeziani, ma l’esilio di A. fu confermato. La situazione cambiò nuovamente nel 361 con la morte di Costanzo e l’ascesa al potere di Giuliano, detto l’Apostata (361-363), il quale proclamò un’amnistia generale per tutti i cristiani, permettendo ad A. di rientrare ad Antiochia, dove morì nel 367. Scrittore prolifico, A. scrisse 300 trattati, di cui ci restano frammenti della sua opera principale, di ispirazione anti-nicena, il Syntagmation, tramandati da Epifanio.
[12] Eunomio di Cizico, pupillo di Aezio, condivideva con questi lo spirito estremo dell’arianesimo. Morì in esilio a Dakora nel 394. Delle sue opere ci è giunta la professione di fede ad Theodosium, scritta nel 383. Altre sue opere vengono citate da Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. I suoi seguaci furono chiamati eunomiani.
[13] Ma questo non equivale ad avvicinarsi – all’infuori che per uno iota – al consutanziale di Niecea?
[14] Basilio, vescovo ariano di Ancira, successe a Marcello nel 336, durante il concilio di Costantinopoli, a forte ispirazione ariana, presieduto da Eusebio di Nicomedia, dove Marcello fu condannato per sabellianismo e dichiarato decaduto dalla sua sede vescovile. Marcello, però, fu varie volte reintegrato e nuovamente condannato, tanto che solo nel 353 venne definitivamente sostituito da B. L’Imperatore Costanzo dapprima (358) aderì alla dottrina dell’homoioùsios di B. e, influenzato da quest’ultimo, fece bandire Aezio e i suoi seguaci.Tuttavia nei Concili che seguirono, B. cadde in disgrazia e fu esiliato nel 360.
[15] Macedonio (m. ca.362) era un presbitero di Costantinopoli, di fede ariana. Alla morte di Eusebio di Nicomedia, la fazione ortodossa di Costantinopoli aveva approfittato della situazione per insidiare il proprio candidato Paolo, creando tumulti e uccidendo il comandante della guarnigione imperiale, Ermogene. Tuttavia, a queste notizie, l’Imperatore Costanzo, che si trovava ad Antiochia, tornò immediatamente a Costantinopoli, cacciando Paolo e nominando M. come vescovo della città. M. si allineò ben presto sulle posizioni semiariane di Basilio di Ancira. Per questo, nel 360, venne deposto dal concilio di Costantinopoli, a maggioranza omeista. Alla figura di M. è legata una particolare eresia chiamata pneumatomachia (cioè ostilità allo Spirito Santo), che alcuni autori pensano essere stata fondata da M. stesso, e perciò denominata anche macedonianismo. Pare invece che M., dopo la sua deposizione da vescovo, avesse contribuito alla diffusione di questa eresia, già esistente da qualche anno, come rielaborazione del subordinazionismo ariano: infatti gli aderenti a questo pensiero credevano che lo Spirito Santo fosse una creatura di Dio, superiore agli angeli, ma non certo consustanziale al Padre e al Figlio. L’eresia fu combattuta da Atanasio di Alessandria in quattro lettere inviate al vescovo Serapione di Thmuis e nel sinodo di Alessandria del 362. Alla morte dell’indomabile Atanasio nel 373, la lotta contro i pneumatomachi, capeggiati da Eleusio di Cizico, venne continuata da Didimo il Cieco e da Basilio il Grande, il quale cercò inutilmente di convertire il macedoniano Eustazio, vescovo di Sebaste; ma fu soprattutto la condanna al concilio di Costantinopoli del 381 a togliere consensi ai pneumatomachi. Tuttavia, la tentazione di rimettere in auge la subordinazione dello Spirito Santo rimase per molto tempo, se si pensa che ancora nel XII secolo, al II concilio Lateranense del 1139, si dovette ribadire la divinità dello Spirito Santo.
[16] Acacio diventò vescovo di Cesarea (in Palestina) nel 340. Dapprima, per volontà di Costanzo II, egli vide imporre la sua formula del hòmoios a tutto l’impero. Ma poi, nel 364, tali tesi vennero rigettate, ed A. fu condannato da Valentiniano I assieme agli altri vescovi più in vista. Morì, secondo alcuni autori, nel 366.
[17] Queste quattro lettere attribuite a Liberio hanno fatto molto discutere sia sulla loro datazione, sia sulla loro autenticità.
[18] Sant’Ilario di Poitiers (Poitiers 315 ca. – 367 ca.), vescovo e dottore della Chiesa, nacque da genitori pagani, si convertì al cristianesimo e intorno al 353 fu eletto vescovo di Poitiers, dove intraprese un’energica lotta contro l’eresia ariana assai diffusa nella sua diocesi. Esiliato in Frigia dai suoi oppositori pagani nel 356, Ilario partecipò al sinodo di Seleucia del 359, in cui tenne un dotto e vigoroso discorso in difesa dell’ortodossia. Tornato a Poitiers nel 361, continuò a combattere l’arianesimo fino alla morte. Della sua copiosa produzione teologica in latino l’opera maggiore è il De Trinitate (12 libri). Ilario è il più originale ed acuto fra i pensatori occidentali predecessori di Sant’Agostino. Lo stile è pesante e monotono. Gli inni sono i primi in lingua latina di cui è noto l’autore (precorre Sant’Ambrogio, il maggiore innografo latino). Degli inni raccolti nel liber hymnorum ne sono pervenuti tre, caratterizzati dalla varietà dei metri, dalle libertà prosodiche e dalla predilezione per i carmi abecedari (la prima strofa inizia per a, la seconda per b, e così via) e dalla costante tematica antiariana.
[19] Naturalmente una simile argomentazione è priva di qualsiasi solidità, poiché Liberio non si pronunciò parlando ex catedra.
[20] Questi contrasti lasciarono tracce profonde nella tradizione leggendaria – che, anche in seguito alla confusione di Felice II con un martire omonimo, oscurò la memoria di Liberio quale eretico e persecutore di cattolici – e negli animi, come si vide durante il pontificato seguente.
[21] Flavio Claudio Giuliano, detto l’Apostata, Figlio di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino (Costantinopoli 332 – Ctesifonte 363). Nel 337 il cugino Costanzo, salito al trono, fece sterminare la famiglia per timore di congiure, risparmiando Giuliano e il fratellastro Gallo: Giuliano fu dunque relegato in Asia Minore ed educato cristianamente, sotto la sorveglianza oppressiva del Vescovo di Nicomedia e degli eunuchi di corte che gli inculcarono un cristianesimo fatto di riti esteriori. Intorno al 344 cominciò a seguire le lezioni del noto retore Libanio, usando gli appunti degli allievi di questi per il divieto esplicito fattogli da Costanzo di seguirne le lezioni. Nel 351 Giuliano fu segretamente iniziato ai misteri mitriaci dall’amico Massimo e, giunto ad Atene nel 355, strinse amicizia con il neoplatonico Prisco, che lo accostò ai misteri eleusini. Associato al governo da Costanzo II come Cesare (6 novembre 355), venne inviato in Gallia dove i Franchi e gli Alamanni minacciavano seriamente i confini. In quest’occasione egli dimostrò capacità eccezionali, riuscendo a sconfiggere i barbari in due campagne sulla Mosa e sul Reno (357), a rinsaldare i confini, a eliminare le sedizioni e ad ingraziarsi le popolazioni locali con un’avveduta politica amministrativa che gli permise di alleviare la pressione fiscale. Questi successi allarmarono Costanzo, il quale nel 359 richiese al Cugino forti contingenti militari per una spedizione in Oriente. Ma le truppe si rifiutarono di abbandonare la Gallia ed acclamarono Giuliano come Augusto. La situazione precipitò e si sarebbe addivenuti sicuramente ad uno scontro armato, che tuttavia non ebbe luogo poiché Costanzo II morì improvvisamente indicando come suo successore lo stesso Giuliano.
[22] Religione di origine orientale, penetrata nell’Occidente in età imperiale, che onorava il sole, cioè Mitra, come principio del bene e della luce.
[23] Filosofia a sfondo religioso che riprendeva i temi della più antica filosofia di Platone, accentuandone il pathos mistico; per i neoplatonici Dio, o l’Uno, era una realtà assoluta ed inattingibile, che per emanazione dava vita a realtà inferiori e infine alla materia.
[24] Santa Maria Maggiore è la prima basilica voluta non da un Imperatore, o dal suo entourage politico o familiare, ma da un papa, Sisto III (vedi). Se all’origine delle basiliche costantiniane c’è l’accoglienza del cristianesimo all’interno dell’Impero romano, in Santa Maria Maggiore, prima fondazione papale, c’è la funzione apostolica e missionaria della Chiesa che, attraverso la lezione dell’arte, si rivolge e vuol essere capita da quella parte che a Roma, nel V secolo, resta ancora tenacemente pagana: l’aristocrazia colta. Sisto III la fece edificare con moduli di derivazione classica e Santa Maria Maggiore è oggi, fra le quattro basiliche maggiori, quella che maggiormente conserva la prospettiva semplice e lineare della primitiva costruzione paleocristiana, nonostante le alterazioni e le trasfigurazioni subite nei secoli. È edificata nel luogo che, secondo la tradizione, la stessa Vergine avrebbe indicato a papa Liberio (352-366). I mosaici medioevali della facciata, come poi vedremo, narrano questa leggenda di fondazione e proprio dal nome di questo papa prende anche il nome di basilica Liberiana.
[25] Valentiniano I (n. Pannonia 321 – m. Brigezione 375), proveniva dall’alta ufficialità, che – nel 364 – lo scelse come Imperatore. Affidò l’Impero d’Oriente al fratello Valente e poi si associò al trono il figlio Graziano. Arginò invasioni barbariche in Gallia ed in Britannia (369) e morì durante una campagna contro i quadi.
[26] Valente (n. 328 – m. Adrianopoli 378), fratello minore di Valentiniano I, ebbe la parte orientale dell’Impero Romano (364). Sconfitto dai Visigoti, morì in battaglia.
[27] 5 ottobre 365 – 31 gennaio 366.
[28] 24 settembre 366.
[29] S. Maria in Trastevere.
[30] Storico latino (n. 330 ca – m. 400 ca), scrisse trentuno libri di Storie (dei quali restano i libri XIV-XXI) da Nerva alla battaglia di Adrianopoli (378), continuazione dell’opera di Tacito.
[31] Essendo un scrittore pagano, egli avrebbe anche potuto essere spinto a farlo per animosità contro i Cristiani.
[32] S. Girolamo o Gerolamo originario della Dalmazia (ca 347-420), padre della Chiesa. Dal 382 al 384 fu segretario di papa Damaso. Tra il 390 e il 405 ca tradusse in latino, dall’ebraico, l’Antico Testamento (versione poi nota come Volgata), adottata come versione ufficiale dal Concilio di Trento (1546).
[33] L’accusa era probabilmente di adulterio o, addirittura, di omicidio.
[34] Flavio Graziano (Sirmium 359 – Lione 383), primogenito di Valentiniano I, che lo nomina Augusto a otto anni, nel 367, iniziò a regnare con il padre e lo zio Valente. Alla morte del padre, nel 375, le truppe di stanza in Pannonia proclamarono il suo fratellastro Imperatore e Graziano lo associò al trono con il titolo di Valentiniano II. Valentiniano II, bambino di quattro anni, e la madre Giustina governarono quindi parte dell’Occidente (Italia, Illiria ed Africa con sede a Milano) mentre Graziano governò il resto dell’impero da Treviri. In seguito alla morte dello zio Valente, Graziano governò anche la parte orientale dell’impero; sentendosi impreparato a fronteggiare da solo la pressione barbarica, nominò il 379 Teodosio Imperatore d’Oriente. Nel 383 Magno Massimo venne proclamato Imperatore dalle legioni di Britannia; sbarcato in Gallia, sconfisse vicino a Parigi Graziano, conquistando buona parte di questa provincia. Graziano, impopolare tra le truppe, che passarono dalla parte di Magno Massimo, si recò nella Gallia meridionale, ma a Lione fu assassinato dal magister equitum Andragazio.
[35] Evagrio di Antiochia (m. dopo il 392) aveva sostenuto nel 362 mansioni pubbliche. Succedette a Paolino promulgando lo scisma di Antiochia e nel 381 forse partecipò al Concilio di Aquileia voluto da S. Ambrogio.
[36] Melezio (m. nel 381 ca) nacque a Melitene, in Armenia minore, e diventò vescovo di Antiochia nel 360; egli svolse un ruolo di primaria importanza durante le profonde scissioni nella Chiesa di Antiochia del IV secolo. Chiamato ad Antiochia a ricoprirne la carica di vescovo, benché fosse già stato nominato vescovo di Sebaste in Armenia, trovò nella città una situazione molto tribolata da anni di lotta tra ortodossi ed ariani, contraddistinti, nell’ultimo periodo, 358-360, dal vescovato di Eudossio, in seguito vescovo di Costantinopoli. L’elezione di Melezio alla carica di vescovo fu un accordo di compromesso raggiunto con i voti congiunti di ariani e ortodossi, ma ciò nonostante egli trovò una notevole opposizione da parte degli eustaziani. Chiamato dunque ad occupare una sede scottante, Melezio cercò di barcamenarsi tra le due opposte fazioni, rimediando comunque, all’inizio del 361, pochi mesi dopo il suo insediamento, una condanna all’esilio da parte dell’Imperatore Costanzo II.
[37] Nato intorno al 330 in Cappadocia, a Cesarea, oggi la città turca di Kaysery, Basilio proveniva da una ricca famiglia dalla profonda spiritualità. Oltre ai genitori anche tre dei suoi nove fratelli sono annoverati tra i santi. Studiò a Costantinopoli e ad Atene, dove conobbe Gregorio Nazianzeno, al quale fu legato da profonda amicizia. Prima di essere vescovo nella sua terra natale, aveva vissuto in Palestina e Egitto, dove aveva visitato i celebri eremiti. Attratto dal richiamo del deserto e della vita monastica, abbandonò la carriera pubblica e praticò l’eremitaggio in una sua proprietà sul fiume Iris (Neocesarea); qui, in solitudine, attese alla composizione di una regola monastica, che in seguito venne adottata dall’ordine monastico (soprannominato dei “monaci basiliani”) da lui fondato nel 360 ca. Alla Regola di Basilio, cardine del monachesimo orientale, obbediscono tuttora ordini sia cattolici sia ortodossi. Visse appena 49 anni ma la sua intensa e profonda attività di predicatore gli valsero il titolo di «Magno». Ricevette l’ordinazione sacerdotale verso il 364 da Eusebio di Cesarea cui successe sulla cattedra vescovile nel 370. Durante il servizio episcopale si impegnò attivamente contro l’eresia ariana. Morì nel 379 a Cesarea dove fu sepolto. Tra le sue opere dottrinali si ricorda soprattutto il celebre trattato teologico sullo Spirito Santo.
[38] Priscilliano (ca.345 – ca.385), un nobile ed erudito spagnolo, stabilì, nel 385, il non invidiabile primato di essere stato il primo eretico messo a morte dalla Chiesa Cristiana, anche se per ordine dell’Imperatore usurpatore Massimo Magno Clemente (383-388). Egli, probabilmente, imparò le dottrine gnostiche manichee da un certo Marco, un egiziano di Memphis e sviluppò un movimento ascetico molto popolare, al tempo, in Spagna. Il movimento attirò le simpatie di due vescovi, Istanzio e Salviano e di uno studioso di retorica, Elpidio, ma anche le preoccupazioni di tre vescovi ortodossi, Igino di Cordova, Idacio di Emeritu e Itacio di Ossanova (il più accanito antipriscillianista), che convinsero i vescovi spagnoli a convocare un sinodo nel 380 a Saragozza, dove i priscillianisti furono scomunicati. Nonostante le condanne del suo movimento, Priscilliano, diventato dapprima sacerdote, fu nominato vescovo d’Avila nel 380 ca., ma poco dopo fu esiliato, nel 381, dall’Imperatore Graziano. In Italia la sua condanna all’esilio fu condonata e Priscilliano rientrò in Spagna, aumentando il suo seguito e obbligando, a sua volta, Itacio all’esilio. Quest’ultimo pensò di ricorrere all’Imperatore, ma, nel 383, il legittimo regnante Graziano era stato assassinato dall’usurpatore Massimo Magno Clemente, al quale, comunque, ricorse Itacio. Massimo convocò il sinodo di Bordeaux nel 384, dove Itacio riuscì a far condannare il vescovo priscillianista Istanzio, ma Priscilliano stesso si appellò all’Imperatore recandosi a Treviri: ancora una volta Itacio attaccò Priscilliano con una tale ferocia che San Martino di Tours (ca.316-397), presente al processo, intervenne, lamentando che una causa religiosa fosse finita davanti ad un tribunale civile. San Martino cercò, inoltre, di convincere Massimo a non applicare la pena di morte, in caso di condanna, ma quando il Santo lasciò la città, l’Imperatore fece decapitare, Priscilliano ed i suoi seguaci (385) sotto l’accusa di magia. La dottrina di Priscilliano era una complessa miscela di manicheismo dualista, docetismo e sabellianismo. Dal manicheismo dualista, Priscilliano predicava che il corpo era opera del demonio, principio del male e delle tenebre, mentre l’anima era fatta della stessa sostanza di Dio e che avrebbe potuto vincere contro il regno delle tenebre, ma che era stata intrappolata nel corpo come punizione per i suoi peccati. Perciò, l’uomo, secondo Priscilliano, poteva redimersi solo con una condotta veramente virtuosa. Dal docetismo, Priscilliano aveva preso il concetto che Cristo fosse una emanazione divina, negando la sua incarnazione e il conseguente dogma della resurrezione; mentre dal sabellianismo, aveva attinto la negazione della preesistenza di Cristo prima della Sua nascita e della Sua natura umana. Inoltre, il Padre ed il Figlio non erano che due modi di presentarsi della stessa Persona divina. Dal punto di vista comportamentale, i priscillianisti erano fortemente critici nei confronti di una crescente esteriorità della Chiesa Cristiana: erano molto ascetici, digiunavano di Domenica e a Natale, e, poiché spesso erano alquanto facoltosi, essi vendevano tutti i loro beni per aiutare i poveri. Inoltre erano soliti portare a casa l’ostia data durante l’Eucaristia in chiesa per prenderla durante cerimonie private di preghiera, quasi come forma di rifiuto della Chiesa ufficiale.
[39] Apollinare di Laodicea detto il Giovane (ca.310-390) compì i suoi studi in Alessandria, e successivamente in Antiochia, diventando vescovo di Laodicea (attualmente in Turchia) nel 360. Fu dapprima altamente apprezzato da Padri della Chiesa, come S. Girolamo e S. Atanasio, per la sua lealtà al Credo Niceno, ma poi nella sua lotta antiariana, dal 352, iniziò ad enfatizzare eccessivamente la natura divina di Cristo. Fino al 376, Apollinare non fu particolarmente preso di mira, ma fu successivamente condannato dai sinodi di Roma nel 377 e 381, di Alessandria nel 378, di Antiochia nel 379 e dal Concilio Eucumenico di Costantinopoli nel 381: quest’ultima condanna fu avvallata da Papa Damaso. Ma non solo i cristiani ortodossi, perfino le altre eresie dell’epoca si opposero tenacemente all’apollinarismo. Infine l’Imperatore Teodosio I (379-395), con una ordinanza imperiale, nel 388 fece condannare ed esiliare Apollinare, che morì nel 390. Alla sua morte, i suoi seguaci non sopravvissero molto a lungo ed entro il 416 o erano rientrati nella Chiesa Cattolica o avevano aderito al monofisismo. Molti degli scritti di Apollinare sono andati perduti: quelli sopravvissuti li conosciamo dai libri scritti contro di lui dai Padri della Chiesa, come S. Atanasio, S. Gregorio di Nissa e S. Gregorio Nazianzeno. Partendo dalla concezione platonica tricotoma dell’uomo [formato, cioè di corpo (sarx), anima (psyche) e intelletto razionale (nôus)], secondo Apollinare, per salvaguardare la divinità di Gesù Cristo, il Logos aveva preso la parte spirituale della sua anima: Cristo non aveva quindi un’anima come gli altri uomini, in quanto mancava dell’intelletto razionale (il nôus). E poiché l’uomo era mortale e la carne umana profondamente corrotta, l’esperienza terrena di Gesù ne risultava essere immune, venendo a mancare la parte della volontà ed intelletto. Il vero problema era che in questo modo l’incarnazione del Verbo non era stata integrale: in sostanza, Apollinare non accettava la piena ed intera umanità di Cristo, che a questo punto non poteva redimere il genere umano nella sua interezza, ma solo nei suoi elementi spirituali.
[40] Vedi nota n. 15.
[41] I maldicenti lo avevano soprannominato «incantatore di matrone».
[42] Presso Adrianopoli (oggi Edirne, nell’attuale Turchia europea) l’esercito imperiale, nell’agosto del 380, si scontrò con quello dei Visigoti. Oltre all’Imperatore, morirono ventimila soldati romani. La disfatta delle legioni romane sancì definitivamente la superiorità delle tecniche di combattimento a cavallo dei popoli germanici.
[43] Flavio Teodosio (n. Cauca 347 – m. Milano 395), conosciuto anche come Teodosio I e Teodosio il Grande, fu l’ultimo Imperatore romano a regnare su un impero unificato. Figlio di Teodosio il Vecchio, funzionario imperiale di rango elevato, seguì il padre in Britannia nel 368, col compito di sopprimere una cospirazione. Divenuto comandante militare in Mesia, nel 374 perse due legioni ad opera dei Sarmati e venne esonerato dall’Imperatore Valentiniano I. L’anno successivo suo padre venne giustiziato e Teodosio si ritirò nella natìa Spagna. Nel 379, in seguito alla morte dell’Imperatore Valente nella disastrosa Battaglia di Adrianopoli ad opera dei Goti, l’Imperatore Graziano lo associò al trono, affidandogli la parte orientale dell’impero. Nel novembre del 380, dopo una campagna contro i Goti durata due anni, entrò finalmente a Costantinopoli. Nel 382 stipulò con i Goti stessi, o perlomeno con quelli che erano scampati alla guerra, un trattato che li autorizzava a stanziarsi lungo il corso del Danubio, che allora costituiva il confine dell’impero, e più precisamente nella diocesi di Tracia, e di godervi un’ampia autonomia. Nel 388, ad Aquileia, dopo le vittoriose battaglie di Scizia (oggi Sisech), della Sava e di Petovio (oggi Ptuj), sconfisse definitivamente l’usurpatore Magno Massimo ad Aquileia, e restaurò sul trono d’occidente Valentiniano II, di cui aveva sposato la sorella Galla. Nel 390 represse con ferocia una rivolta scoppiata a Tessalonica, per la qual cosa S. Ambrogio lo rimproverò duramente costringendolo ad una pubblica penitenza a Milano. A seguito della morte di Valentiniano II, Teodosio governò come Imperatore unico; ma subito dopo (agosto 392) dovette affrontare la rivolta pagana di Flavio Eugenio, che, approfittando delle misteriose circostanze in cui era avvenuta la morte di Valentiniano, si era proclamato Imperatore d’Occidente. Nel settembre 394, nella battaglia del Frigidus, Teodosio sconfisse l’usurpatore, che, condannato a morte per tradimento, fu decapitato. Nell’inverno del 394 Teodosio si ammalò di idropisia e dopo pochi mesi (il 17 gennaio 395) morì, lasciando il generale Stilicone come protettore dei figli Arcadio e Onorio. Il 27 febbraio del 395 si tennero i solenni funerali di Teodosio celebrati da S. Ambrogio, che pronunciò il De Obitu Theodosii. Le esequie si svolsero seguendo per la prima volta il rito cristiano. L’ 8 novembre del 395 la salma di Teodosio venne tumulata nella basilica degli Apostoli di Costantinopoli, dove rimase fino al saccheggio della città del 1204.
[44] Vedendosi riconosciuto dall’Imperatore quale vescovo della prima chiesa d’Oriente, Pietro d’Alessandria mandò a Costantinopoli un tal Massimo detto il Cinico per contrastare l’influenza di cui S. Gregorio Nazianzeno godeva presso Teodosio.
[45] S. Gregorio “Nazianzeno” (329 ca.-390 ca.) nacque ad Arianzo, borgata nei pressi di Nazianzo, dal cui nome deriva il celebre appellativo del santo. Il padre, S. Gregorio il Vecchio, che era ebreo della setta degli Hypsistiani, fu convertito dalla moglie Nonna al cristianesimo e divenne vescovo di Nazianzo. Studiò dapprima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di S. Basilio, poi a Cesarea in Palestina e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358, ad Atene dove conobbe l’Imperatore Giuliano. Successivamente Raggiunse l’amico S. Basilio nel monastero di Annisoi nel Ponto. Ma abbandonò presto questa esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa. Nel 361, suo malgrado, fu ordinato sacerdote dal padre; egli, dapprima reagì fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna: “Mi piegò con la forza”, ricorderà nella sua autobiografia. Nel 371, in seguito alla divisione della Cappadocia in due province ecclesiastiche, S. Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica ariana dell’Imperatore Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua giurisdizione per sottrarle all’influenza ariana ed opporsi alle continue intrusioni del vescovo Antimo di Tiana, apitale della seconda Cappadocia, creò il nuovo vescovato di Sasima e nominò l’amico a tale sede. Di fatto, però, S. Gregorio, dopo essersi lasciato imporre le mani di malavoglia, non raggiunse mai la sua sede vescovile, in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi, e fuggì segretamente nella solitidine. In seguito alle suppliche del vecchio padre, che in età avanzata non riusciva più a portare tutto il peso della sua carica, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Ma nel 374, quando il padre morì, Gregorio si rifugiò monastero di Santa Teda, a Seleucia, nell’Isauria. Nel 379, salito al trono Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò le sue più celebri omelie e i cinque discorsi sulla Trinità, che gli meritarono l’appellativo di “Teologo”. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e nel maggio del 381 lo fece riconoscere come tale dal II Concilio Ecumenico di Costantinopoli, presieduto da Melezio di Antiochia. Questi però morì e Gregorio fu chiamato a presiedere l’assemblea al suo posto. Propose allora di nominare a successore del defunto nella sede antiochiena Paolino, che era stato vescovo di quella città durante lo scisma, ma i meleziani, che formavano la maggioranza, gli contrapposero Flaviano. Quando poi al concilio giunsero i vescovi egiziani e macedoni, presero a contestare l’elezione di Gregorio, perché in qualità di vescovo di Sàsima, in forza del canone di Antiochia, non avrebbe potuto essere trasferito ad altra sede. Il Santo patriarca, che in realtà non aveva mai preso possesso della diocesi suddetta, amareggiato da tante ambizioni e intrighi, con pronta decisione rinunciò alla chiesa di Costantinopoli che governava da appena un biennio, Si ritirò allora nuovamente nella nativa Nazianzo, che nel frattempo era rimasta priva di pastore, ed amministro tale Chiesa locale per altri due anni, quando riuscì a far eleggere in sua sostituzione a vescovo della diocesi suo cugino Eulalio. Fatto ciò, si ritirò nella sua proprietà di Arianzo, dove morì, dopo sei anni dedicati alla contemplazione ed a studi ininterrotti.
[46] Vedi nota 15.
[47] Fratello e successore di Pietro d’Alessandria.
[48] San Gregorio Nisseno (Cesarea di Cappadocia, 335 – Nissa, 395 ca.) fu un vescovo e importante teologo del IV secolo. Educato dal fratello, San Basilio Magno, Gregorio si diede dapprima alla retorica ed alla vita secolare per un’improvvisa crisi spirituale, per poi vivere per un po’ nel monastero di Basilio, e infine dedicarsi, dal 371, all’episcopato della città di Nissa. Avversario degli Ariani, fu vittima delle persecuzioni dell’Imperatore ariano Valente e dovette lasciare Nissa nel 376. Ritornatovi nel 379, divenne massimo difensore dell’ortodossia cattolica a sostegno dell’Imperatore Teodosio I, che lo proclamò «difensore della fede».
[49] Flavio Valentiniano (n. Treviri 371 – m. Vienne 392), figlio dell’Imperatore Valentiniano I e di Giustina, divenne Augusto nel 375 insieme al fratellasto Graziano. Alla morte del padre, a soli quattro anni, ottenne il governo dell’Italia, dell’Africa e dell’Illirico, sotto la reggenza della madre e di Graziano (che aveva ereditato la restante parte dell’Impero d’Occidente). Nel 387, morto già Graziano, poiché l’usurpatore Magno Massimo aveva attraversato le Alpi minacciando Milano, Valentiniano II e Giustina dovettero cercare rifugio in Oriente alla corte di Teodosio I. Nel 388 Magno Massimo fu sconfitto da Teodosio, che restaurò sul trono d’Occidente Velentiniano II, ma solo nominalmente, in quanto era in quanto era in realtà sotto la tutela del magister equitum Arbogaste. Morì in Gallia in circostanze misteriose: il suo corpo venne trovato impiccato ad un albero.
[50] La nobile vedova Marcella con la madre Albina e la vergine Assella, la vedova Paola con le figlie e Paolina, sposa del senatore Pammachio già compahgno di studi di Girolamo.
[51] Furono così denominate le lettere dei Papi scritte in occasione di particolari difficoltà, o di controversie disciplinari o di dispute dottrinali.
[52] A tale protesta si associò anche Papa Siricio, che negò la comunione a quei Vescovi responsabili della tragica innovazione di condannare a morte un eretico.
[53] Non è un caso che per mantenere l’influenza romana nell’Illirico orientale – cioè la penisola balcanica sud‑orientale ormai incorporata all’Impero d’Oriente – già nel 385 Siricio avesse conferito a Vescovo di Tessalonica il privilegio senza precedenti di autorizzare tutte le nomine episcopali di quella regione, ponedo così le basi del futuro vicariato papale.
[54] S. Simpliciano (n. 320 ca – m. 401) eccezionale catechista, maestro di S. Ambrogio e di S. Agostino («Ed ecco, Tu suggeristi alla mia mente l’idea di rivolgermi a Simpliciano, che si presentava come un fedele in cui risplendeva la Tua grazia», scriverà lo stesso Agostino nelle sue Confessioni), forse romano di origine, fu cristiano fin dalla giovinezza. Dopo anni di studi classici e di viaggi venne ordinato sacerdote, e diventò famoso quando convertì al cristianesimo uno degli intellettuali più illustri del tempo: Caio Mario Vittorino. Era già a Milano nel tempo in cui Ambrogio vi risiedeva ancora come governatore civile di quasi tutta l’alta Italia. E qui rimase per sempre, aiutando Ambrogio, divenuto Vescovo, con la sua preparazione teologica ed esegetica, e influendo col suo prestigio sull’ambiente culturale della città. Mantenne contatti epistolari con Agostino, che dall’Africa gli mandava i suoi scritti, chiedendo giudizi e consigli. Nel 397, alla morte di Ambrogio, Simpliciano – quasi ottantenne – gli successe, per un episcopato di circa quattro anni del quale rimangono poche notizie. Milano era all’epoca la capitale dell’Impero d’Occidente e vi risiedeva la corte imperiale. Tuttavia l’uomo forte dell’Impero, il vandalo romanizzato Stilicone, capo dell’esercito, voleva riportare il centro del potere a Roma. Simpliciano non era daccordo e si impegnò a fondo per fare sì che Milano restasse capitale: «Nel 400 e nel 401 continua la sua campagna contro il trasporto eventuale della capitale a Roma. Essa continua fino alla morte del presule, avvenuta nel 401» (A. Calderini, Storia di Milano, Treccani). Alla sua morte venne subito venerato come santo, ed il suo corpo trovò sepoltura nell’atrio della basilica virginum, che sarà poi per sempre intitolata al suo nome.
[55] S. Flaviano (n. 320 ca – m. 404) era stato ordinato sacerdote da S. Giovanni Crisostomo e nel 381 era succeduto a Melezio. Contribuì alla formazione della scuola esegetica antiochena; lasciò commentari ai Vangeli, lettere e omelie.
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