Nei giorni scorsi, sull’onda degli attentati di Parigi e successivamente di Bamako, mi sono dedicato a “sproloquiare” sugli atteggiamenti che i governi Occidentali e la Chiesa Cattolica hanno avuto nei confronti del terrorismo islamico. Non a caso ho usato il termine “sproloquiare”, giacché i miei ragionamenti – del tutto parziali e personali – non avevano, non hanno e non avranno mai la pretesa d’essere una sorta di “verbo rivelato”. Detto questo, penso sia arrivato il momento, appunto, di tornare all’opra usata e ridare a questi miei articoletti il senso e lo scopo che hanno sempre avuto: diffondere la mia conoscenza, non il mio pensiero.
Avendo manifestato la mia “ostilità” nei confronti di Papa Francesco, penso di dover fare un passo indietro e avere l’obbligo di inquadrare almeno velocemente gli eventi che nella storia della Chiesa Cattolica hanno determinato – nei miei “sproloqui” – certe domande sibilline e/o atteggiamenti ironici ai più poco comprensibili.
Parto dunque dall’inizio: cercherò ora di spiegarvi in breve a cosa si riferisce l’Enciclica di Papa Pio X “Pascendi Dominicis Gregis”.
Comincerò con il dire che il Cardinale Giuseppe Sarto (1835-1914), Patriarca di Venezia, divenne Papa, con il nome di Pio X, nel 1903, a seguito dell’esplicita ingerenza nel Conclave – apertosi alla morte di Papa Leone XIII – dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe che, usando un suo antico privilegio, volle impedire l’ascesa al Soglio Pontificio del Cardinale Segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro, perché considerato troppo vicino alla Francia[1]. Va detto anche che l’elezione del Cardinale Sarto non giovò granché all’Imperatore, in quanto una delle prime decisioni di Pio X fu proprio l’abolizione (con la costituzione apostolica Commissum nobis) di quel privilegio a causa del quale egli era divenuto Papa. Poco interessa ora analizzare gli aspetti politici del pontificato di San Pio X[2], più interessante invece è comprendere l’indirizzo teologico che diede alla Chiesa Cattolica in un momento i cui, non solo tra i fedeli, ma anche in ampi settori della stessa gerarchia ecclesiale, si andava diffondendo una sorta di rivisitazione filosofica della teologia cattolica sotto l’effetto dello scientismo di fine Ottocento, un ripensamento del messaggio cristiano alla luce delle istanze della “nuova” società che andava sviluppandosi. Dunque, l’Enciclica “Pascendi Dominicis Gregis” tenta di porre freno al conflitto plurisecolare del cristianesimo con il moderno, inteso soprattutto come istanza di autonoma determinazione dell’uomo nella vita individuale e collettiva, come emancipazione da ogni prospettiva e sistema di valori compiuto e di carattere assolutistico, e come affermazione delle scienze legate alle metodologie sperimentali e al vaglio della critica. Tutto questo potrebbe apparire un mero messaggio oscurantistico, ma nella realtà si tratta di una difesa di ciò che rappresenta il cardine della fede e della religione cristiana, e non soltanto dal punto di vista cattolico. Basta dare uno sguardo ai principali temi che furono oggetto di condanna nell’Enciclica, per rendersi conto di quanto è appena stato detto:
- la Rivelazione non è davvero parola di Dio e neppure di Gesù Cristo, ma un prodotto naturale della nostra sub-coscienza;
- la Fede non è un fatto oggettivo ma dipende dal sentimento di ogni uomo;
- i Dogmi sono simboli dell’esperienza interiore di ogni individuo; la loro formulazione è frutto di uno sviluppo storico;
- i Sacramenti derivano dal bisogno del cuore umano di dare una forma sensibile alla propria esperienza religiosa, non furono istituiti da Gesù Cristo e servono soltanto a tener vivo negli uomini il pensiero della presenza del Creatore;
- il Magistero della Chiesa non ci comunica affatto la verità proveniente da Dio;
- la Bibbia è una raccolta di episodi mitici e simbolici; non si tratta comunque di un libro divinamente ispirato;
- gli interventi di Dio nella storia (cioè i miracoli e le profezie) non sono altro che racconti trasfigurati di personali esperienze interiori;
- il Cristo della Fede è diverso dal Gesù della storia; la divinità di Cristo non si ricava dai Vangeli canonici;
- il valore di espiazione e di redenzione della morte di Cristo è solo frutto della teologia della croce elaborata dall’apostolo Paolo.
Gli esponenti del modernismo furono colpiti da scomunica o da sospensio a divinis; ma S. Pio X andò oltre: con il motu proprio “Sacrorum antistitum” (1910) venne imposto a tutti i laureandi delle università cattoliche un giuramento antimodernista, nel quale, tra le altre affermazioni, si confermava che i miracoli erano segni sensibili adatti a tutte le intelligenze e che i dogmi non subivano modifiche a seconda dei tempi. Negli anni sessanta il giuramento antimodernista fu abrogato da Papa Paolo VI[3], come aggiornamento del Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu questa una apertura al modernismo, o, molto più probabilmente, una presa di coscienza della scarsa attendibilità di una simile “professione di fede”? Qualunque possa essere l’opinione dei singoli, rimane il fatto che ancora oggi per la Chiesa i dogmi non si modificano a seconda dei tempi, il Cristo della fede non è diverso dal Cristo della storia, i miracoli sono segni tangibili dell’operato divino, ecc.
Ma vi è un altro punto nella storia della Chiesa Cattolica su cui è bene soffermare lo sguardo e che riguarda sempre il pontificato di Paolo VI: la dichiarazione “Nostra Aetate” del 1965. Questa dichiarazione è uno dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, che tratta in maniera specifica i rapporti della Chiesa Cattolica con le altre religioni: e questo è il motivo per cui molti – in questi giorni di “turbolenza islamica” le hanno gettato addosso il peso dell’apertura all’Islam da pare del Cattolicesimo. In realtà, in soli cinque punti i padri conciliari dicono:
- il genere umano è originato da Dio; il disegno di salvezza divino si estende a tutti gli uomini ed ogni religione ha in comune con le altre il dare delle risposte agli interrogativi dell’uomo;
- la Chiesa Cattolica non rigetta ciò che vi è di vero e santo nelle altre religioni (il riferimento è soprattutto all’induismo ed al buddismo), pur ribadendo le molte differenze con ciò che Essa crede e consiglia;
- vengono messi in luce i punti di contatto religiosi tra cristiani e musulmani (fede nell’unico Dio di Abramo, venerazione di Gesù se non come Dio come profeta e rispetto per Maria); si invitano quindi entrambi i credenti delle due religioni a superare i contrasti del passato per conseguire i valori comuni di giustizia sociale, morale, pace e libertà;
- si ribadiscono gli strettissimi rapporti di fede del cristianesimo con l’ebraismo; si nega la responsabilità collettiva di Israele nella morte di Cristo; si esecra e deplora[4] ogni forma di antisemitismo e di persecuzione antisemita;
- si chiede a tutti gli uomini di riconoscersi come fratelli e si condanna qualsiasi persecuzione o discriminazione per motivi di razza, condizione sociale o religione.
Parve a molti (e molti, come s’è detto tutt’ora, lo pensano) che questa apertura verso le altre religioni, questo desiderio dei Padri Conciliari di portare la Chiesa su posizioni più dialoganti, fosse uno scivolone verso il relativismo religioso. Di questo dialogo, che verrà successivamente chiamato interreligioso, Paolo VI ne fece uno dei caratteri distintivi del suo pontificato. Nell’Enciclica “Ecclesiam Suam” (1964), prima di illustrare le modalità specifiche in cui si realizza il dialogo al quale la Chiesa è chiamata e gli interlocutori ai quali si svolge, Paolo VI parla di un dialogo che definisce l’origine e l’essenza del mistero cristiano, cioè del dialogo della salvezza che Dio stabilisce con l’umanità mediante la rivelazione e la chiamata alla fede. E’ a partire da questo evento della parola di Dio accolta nella fede che la Chiesa entra in dialogo con l’umanità. Essa infatti ha ricevuto la missione di proclamare la parola che a sua volta ha accolto e lo fa introducendo questa parola nella circolazione del discorso umano. Il dialogo della Chiesa deriva quindi dal compito di proclamare il vangelo che ad essa è stato affidato. Nella concezione di Paolo VI, il dialogo non ha come fine la ricerca comune della verità, ma costituisce uno dei modi in cui la Chiesa realizza la sua missione evangelizzatrice e rappresenta un metodo adatto a tale scopo perché caratterizzato dal rispetto dovuto ai destinatari dell’annuncio. In realtà, l’enciclica non intende dunque proporre una «teologia del dialogo», secondo il modello delle teologie del genitivo, ma si serve del concetto di dialogo per elaborare una riflessione sulla Chiesa e sulla sua missione. Una lettura dell’enciclica orientata in questa direzione è certamente la più vicina all’intenzione di Paolo VI e suggerisce di partire non da un concetto generale di dialogo, ma dall’essenza della Chiesa la cui missione e natura possono essere descritte adeguatamente servendosi della nozione di dialogo. Non va neppure sottovalutato che, sia nella “Nostra Aetate” sia nella “Ecclesiam Suam”, un posto di privilegio (sempre ammesso che di privilegio si possa parlare) lo riveste il dialogo con i Credenti in Dio delle Chiese cristiane separate. Non Fu un caso, dunque, che durante il suo primo viaggio in Terra Santa (1964) il Papa il papa s’incontrasse – dopo secoli di silenzi e di accuse reciproche – con la massima autorità ortodossa, il patriarca di Costantinopoli[5], e con diversi esponenti cristiani. Grazie a questo e a successivi incontri, il Papa ed il Patriarca deliberarono l’abrogazione delle rispettive scomuniche pronunciate al tempo dello Scisma d’Oriente/Occidente. Successivamente venne formulata quella che passò alla storia come La “Dichiarazione comune Cattolico-Ortodossa“ (1965): questo documento ebbe quale conseguenza di attivare una commissione congiunta per il dialogo fra le due confessioni, commissione che nacque nel 1966 e che è ancor oggi attiva. Parallelamente, Paolo VI ricevette nel 1966 l’arcivescovo di Canterbury[6], sottoscrivendo con il primate anglicano una dichiarazione comune: questa inaugurò un dialogo teologico bilaterale che durante il pontificato di Paolo VI portò alla pubblicazione di documenti sulla dottrina eucaristica (1971), sul sacerdozio (1974) e sull’autorità nella Chiesa (1976), anche se l’ammissione delle donne all’ordinazione sacerdotale, decisa dalla Comunione anglicana e non considerata possibile dalla Chiesa cattolica, creò un nuovo ostacolo al dialogo, come apparve tra il luglio 1975 e il marzo 1976 dallo scambio di lettere tra il nuovo primate anglicano[7] e il Papa, e nell’ottobre 1976 dalla dichiarazione “Inter insigniores” della Congregazione per la Dottrina della Fede[8]. Nonostante queste difficoltà, nell’aprile 1977 una nuova dichiarazione comune venne firmata a Roma da Paolo VI e da Coggan.
Sempre in quest’ottica di “dialogo con il mondo” (e quindi non con le fedi religiose diverse dal cristianesimo), Papa Montini compì diversi viaggi che lo portarono a visitare (primo Pontefice nella storia) i cinque continenti:
- gennaio 1964: Pellegrinaggio in Terra Santa;
- dicembre 1964: Pellegrinaggio in India in occasione del XXXVIII Congresso Eucaristico Internazionale;
- ottobre 1965: Visita alle Nazioni Unite di New York;
- maggio 1967: Pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora di Fatima;
- luglio 1967: Viaggio apostolico a Istanbul, Efeso e Smirne;
- agosto 1968: Viaggio apostolico a Bogotá;
- giugno 1969: Visita a Ginevra in occasione del 50º anniversario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro;
- luglio-agosto 1969: Pellegrinaggio in Uganda;
- novembre-dicembre 1970: Pellegrinaggio in Asia Orientale, Oceania e Australia[9].
E vorrei far notare, qualcuno potrà dire polemicamente, che in tutti questi viaggi non vi furono mai incontri con gli esponenti delle altre fedi, non vi furono preghiere nelle moschee né baci sul corano[10].
Il pontificato di Paolo VI rappresenta una sorta di crinale temporale nella storia della Chiesa Cattolica del secolo che si è da quindici anni concluso; come scrive Pier Fulvio De Giorgi[11] «C’è un prima e c’è un dopo Paolo VI», giacché quel rinnovamento della Chiesa che Giovanni XXIII aveva voluto, attraverso il Concilio Ecumenico Vaticano II, «si realizzò compiutamente solo con Montini: con la ricerca di una Chiesa più comunionale, incarnata pluralisticamente nelle diverse realtà e culture, pastoralmente decentrata perché tesa all’uomo concreto, al povero soprattutto, vedendo in esso il volto del Signore […]. Con Paolo VI cominciò a vedersi una Chiesa che si faceva ‘dialogo’ verso tutti, imparando il lessico dell’uomo moderno: non per parlargli di sé e dei suoi ‘trionfi’, ma per annunciargli il Vangelo». Sostiene sempre il De Giorgi: «Poco dopo la sua morte, si sviluppò un neo-liberalismo, nichilisticamente post-moderno e individualista, presto dominante. Sembrò allora che le nuove sfide richiedessero nuovi paradigmi e quelli montiniani, ma anche conciliari, furono un po’ messi da parte. Al totalitarismo nichilista neoliberale non pochi hanno voluto rispondere con una specie di ‘totalitarismo’ cattolico compatto […]. Ma così sono sorte anche nella Chiesa logiche disumanizzanti, spersonalizzanti, antievangeliche. Ecco: oggi, davanti a questi errori si riscoprono la verità e la carità del magistero di Paolo VI , del Vaticano II. Il merito è di papa Francesco, che non ha mai cessato di amare Paolo VI. Ecco ora una ripresa di stile e approccio montiniano che torna a sfidare il neoliberalismo, ma sulla frontiera della giustizia, della pace, dei bisogni degli ultimi, delle attese dei lontani, della salvaguardia del creato».
Questa analisi del De Giorgi può – ovviamente – essere o meno condivisa; ciò che resta evidente è comunque il recupero da parte di Papa Francesco di un’ottica montiniana, se non altro per ciò che riguarda le preoccupazioni più profonde nel rapporto di Paolo VI con il mondo. Di certo il contributo – fino ad oggi abbastanza ignorato – che Papa Montini ha dato al rinnovamento, sia sul terreno metodologico e che su quello della dottrina sociale, rappresenta una pietra miliare nel magistero sociale della Chiesa del XX e XXI secolo; contributo che, pur con differenti sfumature, è stato ritenuto vincolante dai suoi successori. Già nel suo discorso a conclusione del Concilio (1965), Paolo VI ci trasmette l’immagine di una Chiesa china sull’uomo, la cui missione vive parlando di Cristo al mondo, nella prospettiva della promozione umana. Si tratta, insomma, di un nuovo umanesimo (che ha il suo fondamento in Cristo), integrale, solidale e aperto al trascendente, attraverso il quale Paolo VI ha tentato di riconciliare la frattura tra fede e cultura. Un umanesimo non esclusivo, che richiedeva lo sviluppo di tutti gli uomini; sviluppo che può concretizzarsi realmente solo se l’uomo resta aperto all’Assoluto.
In sintesi è questo il vero significato dell’Enciclica di Paolo VI “Populorum progressio” (1967) che fu quasi totalmente frainteso sia dagli ambienti progressisti che da quelli conservatori del tempo. Infatti, le interessate semplificazioni degli organi d’informazione, posero il Papa tra due fuochi che lo esponevano tra l’altro al confronto inesorabilmente ricorrente con le figure, sempre più presentate come contrapposte, dei suoi due immediati predecessori[12] e ad una fatale conseguente impopolarità nell’immagine pubblica, dovuta per la gran parte ai suoi tratti fini e riservati. Le critiche si fecero fortemente polemiche, strumentali e addirittura ignobilmente denigratorie: di volta in volta il Papa fu così accusato d’essere massone, filocomunista, modernista, omosessuale, oppure debole, restauratore, conservatore. Così come la “Pacem in terris” di Papa Giovanni XXIII, chiamata spregiativamente dai giornali di destra “Falcem in terris”, la “Populorum progressio”, subito dopo la sua pubblicazione fu duramente attaccata dal quotidiano “Il Secolo d’Italia”, organo del partito MSI, che titolò “Avanti populorum”. In realtà l’Enciclica è una critica sia al capitalismo che al collettivismo marxista che al neocolonialismo[13], una denuncia dell’aggravarsi dello squilibrio tra paesi ricchi e paesi poveri. Ma il progresso, lo sviluppo dei popoli non viene visto come semplice crescita economica. «Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”. Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo della educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d’intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più»[14].
Senza addentrarmi oltre nell’analizzare l’opera e il pensiero veramente magistrale di questo pontefice (figura forse troppo grande per i tempi in cui ha vissuto), lascio a chi legge la libera interpretazione di queste parole di Paolo VI. Lascio a chi legge stabilire se in queste parole vi sia traccia di modernismo, piuttosto che di una verità cristiana spesso obnubilata. Lascio a chi legge verificare quanto di queste parole sopravviva nella Chiesa di oggi attraverso i suoi successori, due dei quali hanno pur sentito la necessità di tornare sul medesimo argomento[15]. Ma soprattutto lascio a chi legge la riflessione su ciò che Paolo VI scrisse alla fine della “Populorum progressio”: «lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
Note
[1] I motivi in realtà, secondo alcuni storici, potrebbero anche essere stati più personali, giacché sembrerebbe che il Rampolla avrebbe cercato di influenzare Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci, 1810 – 1903, Papa dal 1878) a negare una sepoltura cristiana al figlio dell’Imperatore, l’Arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, morto suicida a Mayerling.
[2] Pio X fu beatificato il 3 giugno 1951 e canonizzato il 29 maggio 1954 durante il pontificato di Pio XII.
[3] Giovanni Battista Montini (1897-1978), che successe a Giovanni XXIII il 21 giugno 1963.
[4] L’uso di questi due termini al posto del termine condanna, usato dai padri conciliari per la guerra totale, fu il risultato di un compromesso fra tendenze opposte (molto vive all’interno del Concilio) e portò a numerose critiche: l’uso di termini differenti fu infatti percepito da molti come una stonatura e del tutto insufficiente.
[5] Atenagora I (1886-1972) fu Patriarca dal 1948 fino alla morte.
[6] Arthur Michael Ramsey, (1904-1988) fu Arcivescovo di Canterbury dal 1961 al 1974.
[7] Frederick Donald Coggan (1909-2000) fu Arcivescovo di Canterbury dal 1974 al 1980.
[8] L’ex Sant’Uffizio, riformato sempre da Paolo VI.
[9] Nel corso di questo viaggio, Il 27 novembre 1970, appena atterrato all’aeroporto della capitale delle Filippine, il pontefice fu vittima di un attentato da parte del pittore boliviano Benjamin Mendoza che, munito di un kriss, lo ferì al costato. Ulteriori danni furono evitati grazie al provvidenziale intervento del segretario personale, Pasquale Macchi.
[10] Il riferimento è ai pontefici Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco che hanno tutti pregato in una moschea: nel 2001 il primo nella Moschea degli Ommayadi di Damasco (primo Papa nella storia ad entrare in una moschea), nel 2006 il secondo nella Moschea Blu a Istanbul, nel 2014 il terzo sempre nella Moschea Blu. Per quanto riguarda invece il bacio dato al Corano (che alcuni ancora oggi tentano di smentire, nonostante le foto e la dichiarazione del Patriarca di Babilonia della Chiesa Cattolica Caldea, Raphael I Bidawid, testimone del fatto avvenuto nel 1999) ci si riferisce a Giovanni Paolo II.
[11] In Paolo VI. Il Papa del moderno, Morcelliana, 2015.
[12] Pio XII e Giovanni XXIII.
[13] Per neocolonialismo si intende la politica adottata da una ex potenza coloniale, o in generale da un paese sviluppato, per controllare le proprie ex colonie, o più in generale paesi sottosviluppati, usando strumenti economici e culturali anziché la forza militare.
[14] Populorum progressio, par. 14 e 15.
[15] Giovanni Paolo II nella “Sollicitudo rei socialis”, Benedetto XVI nella “Caritas in veritate”.
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