Come si è detto, alla morte di Marcellino (304), la Sede di Roma rimase vacante per quattro anni. La violenza e la durata delle persecuzioni furono comunque diverse a seconda delle regioni e di chi le governava. Intensa ma breve (nell’insieme meno di due anni) fu la repressione nelle province sottoposte direttamente a Massimiano. In Gallia ed in Britannia, invece, direttamente sottoposte all’autorità di Costanzo Cloro, prima Cesare e poi Augusto, venne applicato (e forse abbastanza fiaccamente) solo il primo editto di Diocleziano; e Massenzio a Roma, giudicando opportuno ingraziarsi la comunità cristiana, instaurò una sostanziale tolleranza che permise nel 308 l’elezione di Marcello I.
Il pontificato di Marcello, come quello di tutti i suoi predecessori che si erano trovati ad operare in un periodo tormentato da persecuzioni o lotte politiche, non fu scevro di difficoltà. Anch’egli dovette sicuramente affrontare il problema dei lapsi, e su questo concordano tutti gli storici. Il resto del suo operato, invece, è tutt’ora materia di discussione. Un epitaffio di Papa Damaso lo ricorda come veridicus rector (parole a cui il Franchi Cavalieri ha ritenuto opportuno attribuire il senso che egli «si attenne alla vera dottrina, alla vera disciplina ecclesiastica, intimando ai lapsi di far penitenza»), facendoci sapere che contro di lui si levarono tutti coloro che volevano essere riammessi in seno alla Chiesa romana senza fare la richiesta penitenza. E lo scontro tra le due fazioni fu a tal punto violento che Massenzio, per evitare ulteriori disordini, ma anche in qualche misura sollecitato dall’avversario di Marcello, mandò questi in esilio. La tesi dello “scisma” e di due fazioni bene organizzate è avvalorata anche da quanto scritto nel Liber Pontificalis, ove si legge appunto che Marcello I dovette subire molte pressioni dalle autorità politiche affinché lasciasse la carica che ricopriva.
Su questo, come abbiamo appena detto, tutti gli storici concordano; ma per ciò che riguarda il resto, essendo scarse le notizie delle fonti, i pareri sono discordanti. A causa della già accennata confusione con il suo predecessore Marcellino, ma anche per il fatto che tutti i documenti liturgici registrano una sola festa, qualche storico ha creduto di poter pensare che Marcello non fosse un vero papa, ma un semplice prete che durante la persecuzione o la sede vacante abbia retto la Chiesa romana. Secondo tale opinione, dovendosi ammettere un solo pontificato invece di due, e non potendosi sicuramente mettere in discussione quello di Marcellino, eletto prima della persecuzione, non resta altra alternativa che cancellare quello del secondo. E ciò, del resto, non toglierebbe valore e credibilità ad altre notizie contenute nel Liber Pontificalis, e cioè che si deve a lui l’erezione del titulus Marcelli e la riorganizzazione della Chiesa di Roma, con la suddivisione tra i «25 titoli», per la preparazione dei catecumeni al battesimo, per la penitenza e la cura delle sepolture.
Sempre dal Liber Pontificalis e da una Passio Marcelli (sicuramente leggendaria) è possibile trarre altre notizie che presentano per lo meno i caratteri della verosimiglianza storica. In primo luogo che su Marcello I, come abbiamo già detto, le autorità politiche esercitarono forti pressioni affinché rinunciasse all’episcopato, il che corrisponde all’esistenza di due parti in lotta tra loro per la questione dei lapsi. In secondo luogo che Marcello fosse condannato a prestare servizio nelle stalle del cursus publicus, cioè della posta ufficiale. E per quanto tale notizia possa essere sorta dalla vicinanza del titulus Marcelli al catabulum, cioè alla stalla, tutti gli storici, anche i più “ostili”, concordano nell’ammettere che non sia del tutto inverosimile; si sa infatti per certo che Massenzio, nella gravità del momento che attraversava, non esitò a costringere persino dei Senatori a svolgere servizi e mansioni assai umili.
Resta comunque il fatto che – a parte la confusione generatasi nei cataloghi – la soppressione del pontificato di Marcello I non appare in alcun modo giustificata. E del resto, da un punto di vista storico generale, va notato che, se si ammette che Marcello abbia governato la Chiesa di Roma, o magari anche solo il “partito” di coloro che difendevano l’autentica disciplina ecclesiastica, ciò equivale a riconoscerlo come papa.
Dopo la sua morte, avvenuta in esilio nell’anno 309, le sue spoglie vennero portate a Roma. Pochi mesi dopo la sua sepoltura – anche in virtù del fatto che Massenzio continuava a sperare di potersi amicare i cristiani – la comunità romana elesse un nuovo papa, Eusebio, il quale si trovò a combattere quegli stessi disordini che già il suo predecessore aveva dovuto affrontare, e che venivano sempre e nuovamente fomentati da un certo Eraclio, che era stato molto probabilmente già l’avversario di papa Marcello. Anche questa volta, a dirimere lo scontro pensò Massenzio. Egli, però, dovette sicuramente comprendere che Eraclio – in un certo senso un vero e proprio antipapa – non era così innocente come era riuscito a far credere all’epoca dell’esilio di Marcello; e per tale motivo, molto imparzialmente, e sempre con il proposito di ristabilire l’ordine pubblico, Esiliò entrambi i contendenti. Eusebio morì dopo pochi mesi in Sicilia sempre nell’anno 309, e e sue spoglie – come quelle del suo predecessore – venero riportate a Roma.
Il comportamento di Massenzio nei confronti dei papi Marcello ed Eusebio non può essere considerato, come si è detto, come un atto di vero e propria persecuzione, ma una semplice misura di ordine pubblico. Ai due vescovi, infatti, non venne tolta la vita, né inflitta grave prigionia o tortura, né ingiunta l’apostasia. I cristiani, sotto Massenzio, godettero di una libertà di cui non godevano certo i cristiani sottoposti al legittimo Imperatore d’Oriente. Naturalmente questo non significa che egli fosse animato da sentimenti di simpatia o di benevolenza verso i cristiani, e neppure di tolleranza o rispetto religioso. La sua condotta fu ispirata soltanto da considerazioni di opportunità politica. Ciò non toglie, tuttavia, che Massenzio abbia avuto probabilmente il merito di avere per primo compreso che l’esistenza di una Chiesa Cristiana – diffusa ormai in tutto l’Impero e già saldamente organizzata – poneva un problema che doveva essere risolto. Fallita la via della persecuzione e della violenza seguita da Diocleziano non restava che quella della tolleranza, per rendere la convivenza possibile. E questa necessità doveva essere da lui avvertita poiché la sua precaria posizione politica gli imponeva la necessità di consolidarsi nel dominio di Roma e dell’Italia, cercando di accaparrarsi la simpatia, o quanto meno la benevola neutralità, di tutti i ceti e di tutti i gruppi.
Ma la rivolta dell’Africa – di cui s’è parlato nel capitolo precedente – e la morte del figlio Romolo, fecero giudicare a Massenzio prudente non immischiarsi nelle faccende della Chiesa. Morto Eusebio, consentire l’elezione di un nuovo vescovo avrebbe significato il prolungamento dei dissensi e delle lotte, con conseguenze dannose per l’ordine pubblico ed il suo prestigio personale. Ed è probabilmente per tali motivi che la comunità romana rimase acefala.
Una volta riuscito a riconquistare l’Africa, infatti, Massenzio riprese la sua precedente politica verso i cristiani, non solo facendo cessare la persecuzione in quella terra, ma permettendo che i Roma fosse letto un nuovo papa, Milziade o Melchiade (311). Inoltre, precedendo di due anni l’Editto di Milano, con una vera e propria restitutio in integrum, egli ordinò che fossero riconsegnati a Milziade i beni che erano stati confiscati alla Chiesa.
Il Liber Pontificalis attribuisce a Milziade diversi provvedimenti, quali la proibizione del digiuno nei giorni di giovedì e di domenica, l’uso di far portare alle chiese della città il fermentum, cioè una particella dell’Eucaristia consacrata dal papa, che i vari presbiteri dovevano mescolare alla loro e la costruzione della Basilica di San Giovanni. Ma il compito più importante è che egli si trovò ad affrontare fu la condanna del donatismo, cioè quel movimento che prende appunto il suo nome da Donato di Cartagine.
Il punto di partenza di tutta la questione fu l’elezione nel 312 dell’arcidiacono Ceciliano alla sede episcopale di Cartagine. Tale elezione sollevò l’opposizione, specie ad opera dell’episcopato numida, di un partito locale di tendenza più rigorista che contestava la validità della consacrazione di Ceciliano in quanto uno dei tre vescovi che avevano proceduto ad essa, Felice di Abtungi, era considerato colpevole di tradizio, cioè di apostasia. Contro Ceciliano fu eletto quindi un altro vescovo, al quale succedette ben presto Donato, uomo energico ed efficiente che fu il vero organizzatore della Chiesa scismatica a cui la storia ha voluto legare il suo nome.
Il fatto che il movimento prendesse anche un colorito economico‑sociale destinato ad accentuarsi col tempo, poiché pare logico credere che alla causa dello scisma abbiano in particolare aderito gli strati più umili della società (e di conseguenza i meno profondamente romanizzati), non deve comunque far dimenticare che il donatismo rimase una scisma religioso, la cui origine prima sta in una concezione della Chiesa diversa da quella cattolica. Erede, in certo qual modo, di un rigorismo più antico e di vedute già esistenti nella Chiesa africana, il donatismo negava la validità del battesimo comunque amministrato da eretici, nonché di quello e delle consacrazioni compiute da sacerdoti apostati: faceva pertanto dipendere l’efficacia dei Sacramenti dalla dignità della persona del ministro, anziché dal sacramento medesimo (ex opere operato, come dicono i teologi); per cui, sotto l’apparenza di difensori della dignità, purezza e santità della Chiesa, che dicevano di voler mantenere illibata e senza macchia, costoro, con quanto facevano, dicevano e lasciavano implicito, finivano invece col distruggerne l’essenza.
I donatisti, in effetti, attribuivano una tale gravità al crimine di tradizio che il semplice fatto di essere in relazione con uno dei colpevoli (e con il passare del tempo di essere in relazione con gli eredi di quelli che un tempo erano stati in relazione con i colpevoli) era sufficiente per contrarre la stessa macchia, per divenire a propria volta un traditor, un apostata, indegno di chiamarsi cristiano. I donatisti, inoltre, ribattezzavano i cattolici che, per amore o per forza, entravano nelle loro file. Per questo lo scisma si estese a poco a poco come una macchia d’olio; e non soltanto a Cartagine, ma in un ran numero di sei vescovili d’Africa, si vide levarsi vescovo contro vescovo, due gerarchie parallele che si opponevano l’una all’altra, “la Chiesa dei Santi” contro quella dei traditores, donatisti contro cattolici.
Rimasto solo padrone dell’Occidente, Costantino ebbe ad occuparsi dell’Africa; ed anch’egli, come già Massenzio, volle accattivarsi l’animo dei cristiani. A tale scopo inviò un donativo a Ceciliano ed accordò al clero (escludendone i donatisti) delle esenzioni fiscali; così facendo egli non solo venne ad inserirsi direttamente in quei contrasti, ma suscitò anche lo sdegno dei donatisti, che presero l’iniziativa (ed il fatto merita di essere sottolineato) di deferire all’Imperatore la loro vertenza con Ceciliano (15 aprile 313). Chiesero di essere ascoltati dinnanzi a giudici imparziali ed indicarono i vescovi della Gallia, i quali, non avendo sofferto la persecuzione, sembravano meglio in grado di giudicare spassionatamente della riammissione dei lapsi del contegno del clero e della legittimità delle consacrazioni. L’Imperatore assentì, designando tre vescovi delle Gallie, Materno di Colonia Reticio di Augustodunum[1], e Marino di Arelate[2], che avrebbero dovuto decidere in unione con un quarto vescovo, Marco, e con Milziade. Questo collegio di vescovi, nelle intenzioni di Costantino, doveva rappresentare più che altro una specie di commissione arbitrale, con il compito di indagare e di presentare a lui le proprie conclusioni per il giudizio definitivo. Milziade, invece, convocò altri vescovi italiani, tra cui alcuni del Settentrione. Le due commissioni, di dieci membri per ciascun partito, si presentarono a primi di ottobre nella casa di Fausta sul Laterano – donata dall’Imperatore e divenuta sede del Pontefice romano – e si trovarono di fronte ad un vero e proprio concili dove i donatisti avevano il ruolo, se non proprio di accusati, di accusatori temerari. Gli scismatici se ne accorsero e, conclusi i lavori della prima giornata, il secondo giorno decisero di non presentarsi. Ma il successivo, papa Milziade emanò la sentenza che riabilitava Ceciliano e scomunicava donato, pur lasciando ai seguaci di lui il modo di rientrare nell’unità cattolica.
Sebbene il concilio non si fosse propriamente svolto come egli aveva immaginato, Costantino credette che la pace fosse ristabilita. I donatisti, tuttavia, non si acquietarono e si appellarono nuovamente all’Imperatore. Ma poco dopo il concilio romano Milziade morì.
[1] L’odierna Autun.
[2] L’odierna Arles.
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