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Marco Michelini | 27 Giugno 2015

Il successore di Stefano I, Sisto II, pur senza condannare l’operato del suo predecessore, tentò di appianare le divergenze e si riconciliò con San Cipriano e con Firmiliano. Sul principio del secolo seguente le Chiese dell’Africa, tosto imitate dalle comunità cristiane della Siria e della Cappadocia, abbandonarono le pericolose tesi di San Cipriano sul valore del sacramento e si uniformarono all’uso della comunità romana.

Ma, purtroppo, ben altri pericoli si stavano preparando per la Chiesa. Infatti, come testimonia anche Dionigi, vescovo di Alessandria, l’imperatoratore Valeriano, che in un primo tempo s’era mostrato tollerante «e benigno nei confronti degli uomini di Dio», spinto dalle continue disgrazie che affliggevano l’impero fanatizzando le folle contro i cristiani e dalle malvagie suggestioni di Macriano «archisinagogo dei magi d’Egitto», si lasciò trascinare ad una feroce persecuzione.

Con un primo editto, emanato nell’agosto del 257, l’imperatore obbligò i vescovi, i preti ed i diaconi a fare pubblica professione di fede verso gli dei pagani, vietò qualsiasi adunanza cristiana e proibì, pena la morte, l’accesso ai cimiteri. Con un secondo editto, emanato in Oriente l’anno successivo, Valeriano stabilì la pena di morte per tutti i membri del clero che non avevano obbedito agli ordini, colpì i cristiani più ricchi con la confisca dei beni, con l’esilio e spesso con la morte. In virtù di questi editti San Cipriano venne dapprima esiliato a Curuli poi, dopo essere stato richiamato dall’esilio, fu decapitato nel suburbio di Cartagine.

A Roma papa Sisto II venne ucciso sopra il cimitero di Callisto il 6 agosto 258 con quattro diaconi e sepolto in quella cripta papale. I due diaconi Agapito e Felicissimo, uccisi non molto tempo dopo, vennero sepolti nel cimitero di Protestato. Lorenzo, ultimo superstite del collegio dei diaconi, fu ucciso il 10 agosto e sepolto nel cimitero di Ciriaca al Verano. In questa situazione di terrore al collegio dei presbiteri non fu possibile eleggere il successore di Sisto II e la sede rimase vacante per quasi un anno.

Ma quella tragica situazione era destinata a mutare. L’imperatore Valeriano, infatti, che aveva mosso guerra ai Parti, venne catturato da re Sapore I, che lo trattenne prigioniero fino alla fine dei suoi giorni. Il nuovo imperatore Gallieno, figlio di Valeriano, fece uccidere Macriano ed i suoi figli, sospese gli editti persecutori ed ordinò che venissero restituite ai cristiani tutte le proprietà che erano state loro confiscate, e fra di esse vi erano sicuramente i cimiteri che ritornarono a disposizione della Chiesa. Così, in tutta tranquillità, il collegio dei presbiteri poté eleggere il nuovo pontefice, e la scelta del collegio cadde su Dionigi (luglio 259) la cui patria ci è ignota. Dionigi era un uomo di grande dottrina e subito si impegnò per salvaguardare la purezza della fede contro le teorie del vescovo Dionigi d’Alessandria. Questi, discepolo di Origene[1], nelle sue Lettere sembrava aver lasciato trasparire l’opinione che il Verbo fosse una «creatura» del Padre, e quindi diverso da lui, sino a concepire la Trinità come tre ipostasi talmente distinte da farle apparire tre dei, ripugnandogli di usare la parola «consustanziale» nei rapporti del Verbo col Padre. Papa Dionigi, a nome proprio e del Sinodo dell’Occidente condannò ancora una volta l’adozionismo ed il modalismo di Sabellio e l’uso di designare il Verbo «creatura» del Padre, invitando il vescovo Dionigi a dare spiegazioni. Questi lo fece con il suo scritto Confutazione e difesa, che, ponendo il rapporto Dio‑Logos nei termini di mente‑discorso (nessuno dei quali può stare senza l’altro), dissipò ogni dubbio sul suo insegnamento.

La pace religiosa concessa dall’imperatore Gallieno durò sostanzialmente per tutto il secolo III, cosicché i successori di Dionigi – Felice I (269 – 274), Eutichiano (275 – 283) e Caio (283 – 296), dei quali purtroppo non conosciamo altro che i nomi – poterono svolgere il loro ministero in tutta tranquillità.

Per meglio affrontare la crisi che – come abbiamo già visto – travagliava lo stato Romano, l’imperatore Diocleziano decise di dividere l’impero con il suo commilitone Massimiano, affidando a lui il governo dell’Occidente e tenendo per sé l’Oriente. Roma rimase nominalmente la capitale dell’impero e conservò il suo Senato, ridotto però quasi a corpo municipale. I nuovi centri del potere erano infatti Milano, ove Massimiano aveva stabilito la sede del suo governo, e Nicomedia, ove risiedeva Diocleziano con la sua corte. Questa diarchia si trasformò in tetrarchia nel 293, allorché ognuno dei due imperatori si affiancò, con il titolo di Cesare, un luogotenente, assegnandogli un particolare gruppo di province su cui esercitare supremo e diretto potere. Diocleziano prese con sé Galerio, figlio di sua sorella Valeria, e gli assegnò l’Illirico; Massimiano prese con sé Costanzo Cloro, affidandogli le Gallie e la Germania.

Per consolare Roma del prestigio perduto, Diocleziano fece costruire nella Città Eterna un gran numero di edifici pubblici, di splendore tale da offuscare ogni monumento già esistente. Per ciò che riguarda la religione, egli – in un primo tempo – non fece nulla per modificare lo stato delle cose e si preoccupò soltanto di attribuire a sé l’epiteto di Giovio ed a Massimiano quello di Erculeo, adottando un cerimoniale di corte pari in tutto a quello delle grandi dinastie orientali. I cristiani, comunque, alla sua corte erano numerosi ed erano giunti a ricoprire i più alti uffici: praticamente non venivano richiesti ad alcuno speciali atti di culto a meno che non si facesse parte di qualche collegio sacerdotale. In tale situazione di libertà le gerarchie eclesiastiche potevano operare efficamente e senza ostacoli: opera di proselitismo poté estendersi in tutte le province dell’impero, facendo penetrare il cristianesimo anche nell’esercito e nella magistratura.

Improvvisamente, però, che nulla potesse farlo presagire o che se ne possano individuare le cause, l’atteggiamento di Diocleziano nei confronti della cristianità mutò radicalmente. La persecuzione dioclezianea cominciò con una severa epurazione dell’esercito, che portò al licenziamento di tutti coloro che si rifiutavano di sacrificare all’imperatore; poi il 24 febbraio del 303 Diocleziano mise in atto un completo sistema persecutorio: diede ordine che le chiese fossero rase al suolo, che le scritture fossero confiscate e bruciate in tutto l’impero, che tutti coloro che occupavano pubblici uffici e dignità fossero esclusi dalla vita pubblica, che i fedeli fossero privati della libertà se non consentivano ad abbandonare la loro fede. Poco dopo, con un secondo editto, ordinò l’incarcerazione dei capi delle Chiese per costringerli a sacrificare, e con un terzo venenro condannati alla tortura e alla morte tutti coloro che si trovavano in carcere per motivi religiosi. Corse il sangue senza alcuna pietà o distinzione di età, sesso e condizione sociale; al cristianesimo veniva così tolta del tutto quella tolleranza da parte dei pubblici poteri che gli aveva permesso, dopo la persecuzione di Valeriano, non solo libero culto ma anche la possibilità di acquisire possedimenti.

La nuova persecuzione trovò sulla Cattedra di Pietro quel Marcellino (296 – 304), attorno al quale gli storici si affaticano tutt’ora. I donatisti africani, dei quali si parlerà tra breve, lo accusano di avere consegnato alle autorità i testi sacri affinché li distruggessero, e di aver sacrificato agli dei pagani bruciando incenso sui loro altari. Ed effettivamente gli atti di un presunto Sinodo di Sinuessa ci dicono che Marcellino confesso il suo fallo e riconobbe i propri errori davanti a 300 vescovi; costoro, però, si sarebbero rifiutati di giudicarlo, cosicché Marcellino stesso avrebbe pronunciato la propria condanna. Ma i presunti atti di quel Sinodo altro non sono che una chiarissima falsificazione fatta nel secolo VI per dimostrare che – sebbene la colpevolezza del papa fosse dimostrata, secondo le tradizioni antiche, dalla confessione del reo – prima saedes a nemine iudicatur. Il Liber Pontificalis, inoltre, ci parla sia della debolezza di Marcellino, ma anche del suo ravvedimento e del suo martirio. Questa biografia deriva da una Passio Marcellini, purtroppo perduta, la cui esistenza dovrebbe tuttavia provare che Marcellino fu veramente onorato come martire. E ciò sembra potersi desumere – nonostante i numerosi tentativi di darle diverso significato – anche da una frase di Eusebio[2]: «Marcellino… che anche lui la persecuzione si portò via»[3].

Sennonché, sebbene tutti questi fatti sembrino confermare il ravvedimento di Marcellino ed il suo martirio, il nome del papa martire manca proprio là dove ci si aspetterebbe di trovarlo: cioè nella Depositio martyrum della Chiesa romana. Ma non solo; il suo nome manca anche nel Martirologio geronimiano ed in alcuni altri cataloghi di papi. Esso è presente, invece, nel Catalogo liberiano e nella Depositio episcoporum, ma in quest’ultimo è registrato al 16 gennaio, giorno in cui il già menzionato Martirologio geronimiano regista invece la deposizione del suo successore, Marcello.

Questo sovrapporsi di dati contraddittori, unitamente al fatto che – nei cataloghi in cui il nome di Marcellino non viene menzionato – si attribuiscano a Marcello gli anni di pontificato di quest’ultimo, hanno dato luogo alle ipotesi più svariate. Ad esempio lo studioso tedesco Erich Caspar ha supposto che, da un catalogo ove era originariamente presente il nome di entrambi i pontefici, quello di Marcellino sia stato cancellato, secondo l’uso romano, con un vero e proprio processo di damnatio memoriae. Questa tesi, che sposa in pieno le accuse dei donatisti, non impedisce tuttavia di pensare che Marcellino si sia ravveduto ed abbia poi affrontato il martirio; anche se, posta in questi termini, la cosa appare molto improbabile.

Altri studiosi, invece, come il Duchesse, ritenendo troppo grave l’accusa lanciata dai donatisti contro il papa[4], ed altresì impossibile un procedimento di damnatio memoriae, in quanto esso non solo costituirebbe un caso unico nella storia, ma contrasterebbe anche con il principio stesso della successione, su cui si fonda l’autorità e la legittimità dei vescovi, hanno creduto possibile che Marcellino sia morto di morte naturale e che il suo nome sia scomparso dai cataloghi a causa di una confusione con Marcello. Una tesi, questa, che, naturalmente, presuppone la non accettazione di quanto scritto nel Liber Pontificalis e l’interpretazione del frase di Eusebio come del tutto priva di significato.

Molto probabilmente la verità su papa Marcellino si trova a metà tra le due opposte tesi. L’accusa dei donatisti fu di sicuro tardiva ma forse non del tutto priva di fondamento, poiché non va dimenticato che essi avevano molti seguaci anche in Roma. Più che un vero e proprio atto di debolezza, quello di Marcellino potrebbe essere stato un atto di remissività temporanea, se non addirittura una misura prudenziale: sappiamo, infatti, che durante le persecuzioni i membri del clero consegnarono spesso alle autorità non libri sacri, ma scritti apocrifi o ereticali. Non appare improbabile, dunque, che Marcellino abbia adottato in un primo tempo un atteggiamento di prudenza e che poi, nel momento supremo, abbia sostituito alla prudenza l’eroismo, come già San Cipriano, e subito il martirio. Certo, agli occhi dei rigoristi più intransigenti, il suo comportamento dovette apparire di una gravità eccezionale e forse il suo nome divenne segnacolo di battaglia nelle controversie che turbarono la comunità romana in quel secolo ed anche nei successivi. Tutto questo, unitamente alle accuse dei donatisti, potrebbe spiegare il motivo per cui papa Damaso non dedicasse a Marcellino uno dei suoi tanti epitaffi, né lo facesse oggetto di un culto ufficiale. La confusione con Marcello, poi, contribuì a cancellarne il nome; ma qualche ricordo di lui rimase (magari abbellito dalla leggenda), tanto che un’eco di esso arrivò alle orecchie di colui che compilò i falsi atti del presunto Sinodo di Sinuessa. Ma in qualsiasi modo siano andate le cose, la sola certezza è che dopo di lui la Sede romana rimase per alcuni anni vacante.

[1] Teologo ed esegeta greco, (183 c.-254 c.) fu iniziato alla filosofia da Ammonio Sacca; posto dal vescovo Demetrio a capo della scuola alessandrina nel 202-203, proseguì la sua attività di direzione e di insegnamento fino al 215-216 con straordinaria tensione ed instancabile passione. Costretto ad allontanarsi da Alessandria per la persecuzione di Caracalla si recò in Palestina, dove, pur non essendo sacerdote, i vescovi Alessandro di Gerusalemme e Teoctisto di Cesarea lo fecero predicare. Richiamato da Demetrio ad Alessandria, riprese la sua attività di maestro e di scrittore finché, dopo essere stato ordinato sacerdote, cadde in disgrazia presso Demetrio e si rifugiò a Cesarea, dove aprì una scuola fiorentissima con una grande biblioteca che finì per soppiantare quella di Alessandria. Morì a seguito delle torture subite durante la persecuzione di Decio. Origene vuole elaborare una gnosi cristiana che abbia che abbia come presupposto la fede e la Scrittura. Ma la Scrittura può e deve essere letta in vari modi: essa ha un senso «somatico», uno «psichico» ed uno «spirituale» e, come tale, essa deve essere interpretata non solo letteralmente ma anche allegoricamente; anzi, l’interpretazione allegorica deve prevalere, poiché svelando il significato riposto, costituisce la vera conoscenza. Con questi presupposti Origene costituì il primo grande sistema dottrinario del cristianesimo: al culmine c’è Dio, assolutamente spirituale, semplice, uno, al di là dell’essere, come la platonica idea del bene, poiché se tutto partecipa di Dio, Dio non partecipa di nulla (quindi neppure dell’essere). Costerno al padre è il Logos, che tuttavia, in quanto è l’essere degli esseri, l’idea delle idee, viene a trovarsi in una posizione subordinata: esso riceve infatti la vita per un atto della volontà del Padre, che tramite suo crea anche lo Spirito Santo. Dal verbo si generano le sostanze intellettuali che formano il mondo intelligibile: riprendendo il mito della caduta delle anime del Fedro platonico e le teorie emanatistiche del neoplatonismo e dello gnosticismo, Origene parla di una loro caduta, dovuta ad un atto di ribellione a Dio da cui solo il Logos resta immune. Le intelligenze diventano anime destinate a rivestirsi di corpi: appare così il mondo visibile o materiale. A seconda del grado di decadenza queste anime diventano angeli, anime dei corpi celesti, anime degli uomini e, ultimo gradino, diavoli. Tuttavia Origene combatté aspramente sia lo gnosticismo che l’emanatismo, poiché egli attribuisce questa caduta ad un atto di libertà, a quel libero arbitrio delle intelligenze che non va perduto nella decadenza e che anzi costituisce la possibilità del riscatto: nessun essere, neppure il diavolo, è malvagio per natura, perché se ci fosse qualcosa di definitivamente perduto alla salvezza sarebbe il trionfo definitivo della materia e del male e quindi la rottura dell’armonia dell’Universo. La quale armonia richiede invece che, dopo una successione di varie fasi, il mondo visibile torni, alla fine, senza residui, al mondo invisibile. Compiuta l’espiazione tutte le anime si salveranno e raggiungeranno la perfezione e la conoscenza di Dio: l’eternità dell’inferno è inammissibile. L’opera redentrice del Logos, incarnatosi in un corpo mortale ed in un’anima umana, non è solo limitata alla salvezza dell’uomo, ma si estende alla redenzione di tutto l’Universo.

[2] V. pag. 60 Eusebio di Cesarea e rel. nota.

[3] Hist. Eccl., VII, 32, 1.

[4] Tale accusa fu respinta anche da Sant’Agostino come non provata.


N.B.: D’ora in avanti tutti gli articoli saggistica riguardanti la storia dei Papi saranno riportati interamente (tranne quelli che richiedono l’utilizzo di particolari caratteri, tipo quelli greci) e la versione stampabile sarà disponibile solo sull’articolo “sommario” di riferimento, cioè: 

«IL PAPATO NELLA STORIA»

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