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Marco Michelini | 25 Settembre 2012

ATTENZIONE: Con l’inserimento di questo articolo si conclude il secondo libro delle “Lettere a Lucilio”. Presto – nell’area riservata – sarà disponibile la versione stampabile del volume.     

       

       

     

XXI SENECA LUCILIO SUO SALUTEM  
 
 
 

      

[1] Cum istis tibi esse negotium iudicas de quibus scripseras? Maximum negotium tecum habes, tu tibi molestus es. Quid velis nescis, melius probas honesta quam sequeris, vides ubi sit posita felicitas sed ad illam pervenire non audes. Quid sit autem quod te impediat, quia parum ipse dispicis, dicam: magna esse haec existimas quae relicturus es, et cum proposuisti tibi illam securitatem ad quam transiturus es, retinet te huius vitae a qua recessurus es fulgor tamquam in sordida et obscura casurum.      

[2] Erras, Lucili: ex hac vita ad illam ascenditur. Quod interest inter splendorem et lucem, cum haec certam originem habeat ac suam, ille niteat alieno, hoc inter hanc vitam et illam: haec fulgore extrinsecus veniente percussa est, crassam illi statim umbram faciet quisquis obstiterit: illa suo lumine illustris est. Studia te tua clarum et nobilem efficient.      

[3] Exemplum Epicuri referam. Cum Idomeneo scriberet et illum a vita speciosa ad fidelem stabilemque gloriam revocaret, regiae tunc potentiae ministrum et magna tractantem, ‘si gloria’ inquit ‘tangeris, notiorem te epistulae meae facient quam omnia ista quae colis et propter quae coleris’.      

[4] Numquid ergo mentitus est? quis Idomenea nosset nisi Epicurus illum litteris suis incidisset? Omnes illos megistanas et satrapas et regem ipsum ex quo Idomenei titulus petebatur oblivio alta suppressit. Nomen Attici perire Ciceronis epistulae non sinunt. Nihil illi profuisset gener Agrippa et Tiberius progener et Drusus Caesar pronepos; inter tam magna nomina taceretur nisi <sibi> Cicero illum applicuisset.      

[5] Profunda super nos altitudo temporis veniet, pauca ingenia caput exserent et in idem quandoque silentium abitura oblivioni resistent ac se diu vindicabunt. Quod Epicurus amico suo potuit promittere, hoc tibi promitto, Lucili: habebo apud posteros gratiam, possum mecum duratura nomina educere. Vergilius noster duobus memoriam aeternam promisit et praestat:      

fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
nulla dies umquam memori vos eximet aevo,
dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum
accolet imperiumque pater Romanus habebit.
      

[6] Quoscumque in medium fortuna protulit, quicumque membra ac partes alienae potentiae fuerant, horum gratia viguit, domus frequentata est, dum ipsi steterunt: post ipsos cito memoria defecit. Ingeniorum crescit dignatio nec ipsis tantum honor habetur, sed quidquid illorum memoriae adhaesit excipitur.      

[7] Ne gratis Idomeneus in epistulam meam venerit, ipse eam de suo redimet. Ad hunc Epicurus illam nobilem sententiam scripsit qua hortatur ut Pythoclea locupletem non publica nec ancipiti via faciat. ‘Si vis’ inquit ‘Pythoclea divitem facere, non pecuniae adiciendum sed cupiditati detrahendum est.’      

[8] Et apertior ista sententia est quam <ut> interpretanda sit, et disertior quam ut adiuvanda. Hoc unum te admoneo, ne istud tantum existimes de divit”s dictum: quocumque transtuleris, idem poterit. Si vis Pythoclea honestum facere, non honoribus adiciendum est sed cupiditatibus detrahendum; si vis Pythoclea esse in perpetua voluptate, non voluptatibus adiciendum est sed cupiditatibus detrahendum; si vis Pythoclea senem facere et implere vitam, non annis adiciendum est sed cupiditatibus detrahendum.      

[9] Has voces non est quod Epicuri esse iudices: publicae sunt. Quod fieri in senatu solet faciendum ego in philosophia quoque existimo: cum censuit aliquis quod ex parte mihi placeat, iubeo illum dividere sententiam et sequor quod probo.      

Eo libentius Epicuri egregia dicta commemoro, ut istis qui ad illum confugiunt spe mala inducti, qui velamentum ipsos vitiorum suorum habituros existimant, probent quocumque ierint honeste esse vivendum.      

[10] Cum adieris eius hortulos et inscriptum hortulis ‘HOSPES HIC BENE MANEBIS, HIC SVMMVM BONVM VOLVPTAS EST’ paratus erit istius domicilii custos hospitalis, humanus, et te polenta excipiet et aquam quoque large ministrabit et dicet, ‘ecquid bene acceptus es?’ ‘Non irritant’ inquit ‘hi hortuli famem sed exstinguunt, nec maiorem ipsis potionibus sitim faciunt, sed naturali et gratuito remedio sedant; in hac voluptate consenui.’      

[11] De his tecum desideriis loquor quae consolationem non recipiunt, quibus dandum est aliquid ut desinant. Nam de illis extraordinariis quae licet differre, licet castigare et opprimere, hoc unum commonefaciam: ista voluptas naturalis est, non necessaria. Huic nihil debes; si quid impendis, voluntarium est. Venter praecepta non audit: poscit, appellat. Non est tamen molestus creditor: parvo dimittitur, si modo das illi quod debes, non quod potes. Vale.      

       


 
      

Credi di avere dei problemi con le persone di cui mi hai scritto? I problemi maggiori li hai invece con te stesso, sei tu gravoso a te stesso. Non sai che cosa vuoi, apprezzi la virtù, più che seguirla, vedi dove sta la felicità, ma non osi raggiungerla. Visto che tu non riesci a capirlo, ti dirò io che cosa ti ostacola: tieni in gran conto ciò che hai intenzione di lasciare, e quando ti poni davanti agli occhi quella serenità che vuoi conseguire, sei trattenuto dallo splendore di questa vita da cui stai per allontanarti, come se poi dovessi precipitare in una esistenza sordida e oscura.      

Sbagli, mio caro: da questa vita a quella si sale. E tra questa vita e quella c’è la stessa differenza che intercorre tra lo splendore e la luce, perché la luce ha una propria sicura origine, mentre lo splendore brilla di luce riflessa: questa vita è illuminata da una luce che viene dall’esterno, e chiunque si interponga vi proietta subito una densa ombra; quella, invece, splende di luce propria. Gli studi cui ti dedicherai ti renderanno illustre e celebre.      

Ti farò l’esempio di Epicuro. Scrivendo a Idomeneo, allora funzionario di un potente re e ministro di affari importanti, per richiamarlo da una vita bella solo esteriormente a una gloria sicura e stabile, diceva: “Se ti interessa la gloria, ti renderanno più famoso le mie lettere che tutte le faccende di cui ti occupi e per cui sei onorato.”      

E non ha forse detto la verità? Chi conoscerebbe Idomeneo se Epicuro non ne avesse scolpito il nome con le sue lettere? Tutti quei magnati e satrapi e lo stesso re da cui derivava a Idomeneo ogni onore, sono sepolti nell’oblio. Le lettere di Cicerone fanno vivere il nome di Attico. A nulla gli sarebbe servito il genero Agrippa e Tiberio, marito della nipote, e il pronipote Druso Cesare; tra nomi tanto illustri non si parlerebbe di lui, se Cicerone non lo avesse legato a sé.      

Piomberà su noi la sconfinata profondità del tempo, pochi ingegni riusciranno a emergere e, anche se sono egualmente destinati a scomparire prima o poi nel silenzio, resisteranno all’oblio e rivendicheranno la loro parte di gloria per lungo tempo. La promessa che Epicuro poté fare al suo amico te la faccio anch’io, caro Lucilio: godrò del favore dei posteri e posso condurre con me fuori dalle tenebre uomini destinati a una lunga fama. Il nostro Virgilio promise a due giovani memoria eterna e ha mantenuto la promessa:      

Fortunati entrambi! Se i miei versi hanno qualche valore,
nessun giorno mai vi sottrarrà al ricordo delle generazioni future
finché la stirpe di Enea l’immota rupe del Campidoglio
abiterà e il padre Romano avrà l’impero.
      

Tutti quegli uomini che si sono messi in luce col favore della sorte e sono stati strumento e parte della potenza altrui, hanno goduto in vita di grande favore e la loro casa era frequentata: dopo la morte però ne è scomparso sùbito anche il ricordo. Il rispetto tributato agli uomini di ingegno cresce, invece, col tempo e non sono onorati solo loro, ma si conserva tutto ciò che è unito alla loro memoria.      

E perché Idomeneo non sia nominato gratuitamente nella mia lettera, pagherà lui di tasca sua il mio debito. Epicuro gli scrisse quella famosa frase con cui lo esorta a rendere ricco Pitocle non con i mezzi comuni e incerti. “Se vuoi,” dice, “rendere ricco Pitocle, non devi aumentargli i beni, ma diminuirne i desideri.”      

È una frase troppo chiara ed eloquente per necessitare di una spiegazione o di un sostegno. Ti raccomando unicamente di non pensare che valga solo per la ricchezza: a qualunque argomento la applichi, avrà la stessa validità. Se vuoi che Pitocle abbia credito, non devi aumentargli le cariche, ma diminuirne i desideri; se vuoi che Pitocle viva nella gioia, non devi aumentargli i piaceri, ma ridurne i desideri; se vuoi che Pitocle diventi vecchio e viva pienamente la sua vita, non devi aggiungergli anni, ma ridurne i desideri.      

Non credere che questi insegnamenti appartengano a Epicuro; sono di tutti. Quello che di solito si fa in senato, penso si debba farlo anche in filosofia: quando qualcuno esprime un’opinione che io non condivido pienamente, gli chiedo di suddividere il suo pensiero e seguo solo le parti che approvo.Queste belle massime di Epicuro le cito tanto più volentieri perché dimostrino a chi ricorre a lui, sperando a torto di trovare una copertura ai propri vizi, che dovunque si volgano, devono vivere in maniera onesta.      

Quando andrai nei suoi giardini dove c’è questa scritta: “OSPITE, QUI STARAI BENE, QUI IL PIACERE È IL SOMMO BENE”, ti si farà incontro il custode della casa, uomo ospitale e affabile; ti accoglierà con della polenta e ti offrirà anche acqua in abbondanza; poi chiederà: “E allora, sei stato accolto bene? Questi giardini non stimolano la fame, ma la saziano, e le bevande non aumentano la sete, ma la estinguono con un rimedio naturale e gratuito; io sono diventato vecchio tra questi piaceri.”      

Ti parlo di quei desideri che non vengono appagati a parole, ma devono ricevere qualcosa per estinguersi. Per i desideri particolari che è possibile rinviare, reprimere e frenare, ti raccomando, invece, una sola cosa: sono piaceri naturali, non necessari. Ad essi non sei debitore di nulla: se paghi qualcosa, è un tributo volontario. Lo stomaco non ascolta insegnamenti: chiede, reclama. Non è, però un creditore molesto: si soddisfa con poco, se soltanto gli dai ciò che devi, non ciò che puoi. Stammi bene.      

       

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