XVIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] December est mensis: cum maxime civitas sudat. Ius luxuriae publice datum est; ingenti apparatu sonant omnia, tamquam quicquam inter Saturnalia intersit et dies rerum agendarum; adeo nihil interest ut <non> videatur mihi errasse qui dixit olim mensem Decembrem fuisse, nunc annum.
[2] Si te hic haberem, libenter tecum conferrem quid existimares esse faciendum, utrum nihil ex cotidiana consuetudine movendum an, ne dissidere videremur cum publicis moribus, et hilarius cenandum et exuendam togam. Nam quod fieri nisi in tumultu et tristi tempore civitatis non solebat, voluptatis causa ac festorum dierum vestem mutavimus.
[3] Si te bene novi, arbitri partibus functus nec per omnia nos similes esse pilleatae turbae voluisses nec per omnia dissimiles; nisi forte his maxime diebus animo imperandum est, ut tunc voluptatibus solus abstineat cum in illas omnis turba procubuit; certissimum enim argumentum firmitatis suae capit, si ad blanda et in luxuriam trahentia nec it nec abducitur.
[4] Hoc multo fortius est, ebrio ac vomitante populo siccum ac sobrium esse, illud temperantius, non excerpere se nec insignire nec misceri omnibus et eadem sed non eodem modo facere; licet enim sine luxuria agere festum diem.
[5] Ceterum adeo mihi placet temptare animi tui firmitatem ut e praecepto magnorum virorum tibi quoque praecipiam: interponas aliquot dies quibus contentus minimo ac vilissimo cibo, dura atque horrida veste, dicas tibi ‘hoc est quod timebatur?’
[6] In ipsa securitate animus ad difficilia se praeparet et contra iniurias fortunae inter beneficia firmetur. Miles in media pace decurrit, sine ullo hoste vallum iacit, et supervacuo labore lassatur ut sufficere necessario possit; quem in ipsa re trepidare nolueris, ante rem exerceas. Hoc secuti sunt qui omnibus mensibus paupertatem imitati prope ad inopiam accesserunt, ne umquam expavescerent quod saepe didicissent.
[7] Non est nunc quod existimes me dicere Timoneas cenas et pauperum cellas et quidquid aliud est per quod luxuria divitiarum taedio ludit: grabattus ille verus sit et sagum et panis durus ac sordidus. Hoc triduo et quatriduo fer, interdum pluribus diebus, ut non lusus sit sed experimentum: tunc, mihi crede, Lucili, exultabis dipondio satur et intelleges ad securitatem non opus esse fortuna; hoc enim quod necessitati sat est dabit et irata.
[8] Non est tamen quare tu multum tibi facere videaris – facies enim quod multa milia servorum, multa milia pauperum faciunt -: illo nomine te Cuspice, quod facies non coactus, quod tam facile erit tibi illud pati semper quam aliquando experiri. Exerceamur ad palum, et ne imparatos fortuna deprehendat, fiat nobis paupertas familiaris; securius divites erimus si scierimus quam non sit grave pauperes esse.
[9] Certos habebat dies ille magister voluptatis Epicurus quibus maligne famem exstingueret, visurus an aliquid deesset ex plena et consummata voluptate, vel quantum deesset, et an dignum quod quis magno labore pensaret. Hoc certe in iis epistulis ait quas scripsit Charino magistratu ad Polyaenum; et quidem gloriatur non toto asse <se> pasci, Metrodorum, qui nondum tantum profecerit, toto.
[10] In hoc tu victu saturitatem putas esse? Et voluptas est; voluptas autem non illa levis et fugax et subinde reficienda, sed stabilis et certa. Non enim iucunda res est aqua et polenta aut frustum hordeacii panis, sed summa voluptas est posse capere etiam ex his voluptatem et ad id se deduxisse quod eripere nulla fortunae iniquitas possit.
[11] Liberaliora alimenta sunt carceris, sepositos ad capitale supplicium non tam anguste qui occisurus est pascit: quanta est animi magnitudo ad id sua sponte descendere quod ne ad extrema quidem decretis timendum sit! hoc est praeoccupare tela fortunae.
[12] Incipe ergo, mi Lucili, sequi horum consuetudinem et aliquos dies destina quibus secedas a tuis rebus minimoque te facias familiarem; incipe cum paupertate habere commercium; aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum finge deo.
[13] Nemo alius est deo dignus quam qui opes contempsit; quarum possessionem tibi non interdico, sed efficere volo ut illas intrepide possideas; quod uno consequeris modo, si te etiam sine illis beate victurum persuaseris tibi, si illas tamquam exituras semper aspexeris.
[14] Sed iam incipiamus epistulam complicare. ‘Prius’ inquis ‘redde quod debes.’ Delegabo te ad Epicurum, ab illo fiet numeratio: ‘immodica ira gignit insaniam’. Hoc quam verum sit necesse est scias, cum habueris et servum et inimicum.
[15] In omnes personas hic exardescit affectus; tam ex amore nascitur quam ex odio, non minus inter seria quam inter lusus et iocos; nec interest ex quam magna causa nascatur sed in qualem perveniat animum. Sic ignis non refert quam magnus sed quo incidat; nam etiam maximum solida non receperunt, rursus arida et corripi facilia scintillam quoque fovent usque in incendium. Ita est, mi Lucili: ingentis irae exitus furor est, et ideo ira vitanda est non moderationis causa sed sanitatis. Vale.
È dicembre: ora più che mai c’è fervore in città. Si è data ufficialmente via libera alla sfrenatezza; tutto risuona di grandiosi preparativi, come se ci fosse differenza tra i Saturnali e i giorni di lavoro; invece non ce n’è proprio nessuna, tanto che secondo me ha ragione chi ha detto che una volta dicembre durava un mese e ora invece è dicembre tutto l’anno.
Se ti avessi qui, discuterei volentieri con te sulla condotta da seguire: vanno mantenute le nostre abitudini quotidiane oppure, per non sembrare in contrasto con gli altri, dobbiamo pranzare più allegramente e toglierci la toga? Mentre una volta questo accadeva solo nei momenti difficili e quando la città era in pericolo, ora cambiamo veste per festeggiare e darci ai piaceri.
Se ben ti conosco, tu, assumendo il compito di giudice conciliatore, non vorresti che noi fossimo in tutto simili alla folla imberrettata, e neppure completamente diversi; salvo che proprio in questi giorni in cui la massa si abbandona ai piaceri, dobbiamo costringere il nostro animo ad astenersene, anche se è il solo; una prova certissima della propria fermezza può averla se non si accosta agli allettamenti che portano alla dissolutezza né vi si lascia trascinare.
Essere perfettamente sobri e temperanti mentre tutti gli altri si ubriacano e vomitano, è indice di una maggiore forza morale, ma è segno di una maggiore moderazione non allontanarsi da tutti, non cercare di distinguersi dagli altri, e nemmeno mescolarsi alla massa; fare le stesse cose, ma in modo diverso: è possibile festeggiare senza sfrenarsi.
Voglio, d’altra parte, mettere alla prova la tua fermezza d’animo; ti invito a comportarti come insegnano i grandi uomini: per qualche giorno nutriti di cibi pessimi e scarsi, vesti abiti ruvidi e rozzi e poi chiediti. “È questo ciò che temo?”
Anche nei momenti di tranquillità l’animo si prepari ai tempi difficili e quando va tutto bene si rafforzi contro i colpi della sorte. Il soldato fa le esercitazioni in tempo di pace, costruisce trincee quando non ci sono nemici e si sottopone a fatiche inutili per essere in grado di sostenere quelle necessarie; se non vuoi che uno sia in preda al terrore al momento della prova, fallo esercitare prima. Hanno seguito questo metodo quegli uomini che, per un po’ ogni mese, vissero da poveri, quasi fino all’indigenza, così da non temere mai quello stato che avevano conosciuto frequentemente.
Non devi ora pensare che io parli delle cene di Timone o delle camerette da povero e di tutto quello che i ricchi annoiati dal lusso fanno per passatempo: devi avere veramente un pagliericcio, un saio e pane nero e secco. Vivi in questo stato per tre o quattro giorni, talvolta anche di più, perché non sia un gioco, ma una prova: allora, credimi, Lucilio mio, sarai contento di esserti saziato con poca spesa e capirai che per la serenità non serve che la fortuna sia propizia. Anche se è contraria, ti darà quanto basta alle necessità della vita.
Non c’è motivo, però che ti sembri di fare grandi cose: farai lo stesso che migliaia di schiavi e migliaia di poveri; puoi compiacerti solo perché lo farai senza esservi costretto, perché sopportare la povertà per sempre sarà per te facile quanto sperimentarla di tanto in tanto. Esercitiamoci al palo e perché la sorte non ci sorprenda impreparati, familiarizziamo con la povertà; vivremo più tranquilli nella ricchezza se sapremo che non è gravoso essere poveri.
Epicuro, famoso maestro di piaceri, aveva stabilito dei giorni in cui si cibava frugalmente per vedere se veniva a mancare qualcosa al pieno e perfetto piacere, quanto grande era il senso della mancanza e se il divario meritava di essere colmato a prezzo di grande fatica. Nelle lettere che egli scrisse a Polieno, sotto l’arcontato di Carino, dice proprio questo e si vanta di spendere meno di un asse per sfamarsi, mentre Metrodoro, che non aveva fatto gli stessi progressi, ne spendeva uno intero.
Pensi che ci si possa saziare con questo tipo di vitto? Sì, certamente, e si può anche provare piacere; non quel piacere superficiale e fuggevole che deve essere ripetutamente stimolato, ma un piacere costante e sicuro. L’acqua, la polenta o un pezzo di pane d’orzo non sono saporiti; dà, però un grandissimo godimento poter trarre piacere anche da questi cibi ed essere arrivati a tal punto che nessuna avversità della sorte non può toglierci più nulla.
In carcere il vitto è più abbondante; il carnefice non dà così poco cibo ai condannati alla pena capitale: sottoporsi volontariamente a disagi che neppure chi è condannato a morte deve temere è segno di una straordinaria grandezza d’animo! Questo significa prevenire i colpi della sorte.
Comincia dunque, mio caro, a seguire le abitudini di costoro e stabilisci dei giorni in cui abbandonare le tue cose e prendere familiarità col poco; comincia ad avere rapporti con la povertà:abbi la forza di disprezzare le ricchezze, ospite, e renditi anche tu degno di dio.
Nessun altro è degno di dio quanto colui che disprezza le ricchezze; non ti proibisco di possederle, ma voglio che tu le possieda senza timori; e questo risultato lo conseguirai in un solo modo: se sarai convinto di poter vivere felice anche senza, se le guarderai sempre come se dovessi perderle.
Ma è tempo ormai di chiudere la lettera. “Prima,” mi dici, “paga il tuo debito.” Ti farò pagare da Epicuro: “L’ira sfrenata genera pazzia.” Quanto ciò sia vero lo sai necessariamente perché hai avuto servi e nemici.
Questo sentimento può divampare contro qualsiasi persona; nasce tanto dall’amore, quanto dall’odio, sia nei momenti critici che tra giochi e scherzi e non importa la gravità delle cause, ma l’animo in cui si manifesta. Allo stesso modo del fuoco non importa la sua violenza, ma il materiale su cui si sviluppa: i corpi più compatti non lo alimentano anche se è violentissimo, mentre quelli aridi e facilmente infiammabili mantengono viva anche una scintilla fino a trasformarla in incendio. È così, Lucilio mio: dall’ira violenta nasce la follia, perciò l’ira va evitata non solo in nome della moderazione, ma anche per mantenersi sani. Stammi bene.
6 Aprile 2013 | 22:51
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