XIX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Exulto quotiens epistulas tuas accipio; implent enim me bona spe, et iam non promittunt de te sed spondent. Ita fac, oro atque obsecro – quid enim habeo melius quod amicum rogem quam quod pro ipso rogaturus sum? si potes, subducte istis occupationibus; si minus, eripe. Satis multum temporis sparsimus: incipiamus vasa in senectute colligere.
[2] Numquid invidiosum est? in freto viximus, moriamur in portu. Neque ego suaserim tibi nomen ex otio petere, quod nec iactare debes nec abscondere; numquam enim usque eo te abigam generis humani furore damnato ut latebram tibi aliquam parari et oblivionem velim: id age ut otium tuum non emineat sed appareat.
[3] Deinde videbunt de isto quibus integra sunt et prima consilia an velint vitam per obscurum transmittere: tibi liberum non est. In medium te protulit ingenii vigor, scriptorum elegantia, clarae et nobiles amicitiae; iam notitia te invasit; ut in extrema mergaris ac penitus recondaris, tamen priora monstrabunt.
[4] Tenebras habere non potes; sequetur quocumque fugeris multum pristinae lucis: quietem potes vindicare sine ullius odio, sine desiderio aut morsu animi tui. Quid enim relinques quod invitus relictum a te possis cogitare? Clientes? quorum nemo te ipsum sequitur, sed aliquid ex te; amicitia olim petebatur, nunc praeda; mutabunt testamenta destituti senes, migrabit ad aliud limen salutator. Non potest parvo res magna constare: aestima utrum te relinquere an aliquid ex tuis malis.
[5] Utinam quidem tibi senescere contigisset intra natalium tuorum modum, nec te in altum fortuna misisset! Tulit te longe a conspectu vitae salubris rapida felicitas, provincia et procuratio et quidquid ab istis promittitur; maiora deinde officia te excipient et ex aliis alia: quis exitus erit?
[6] quid exspectas donec desinas habere quod cupias? numquam erit tempus. Qualem dicimus seriem esse causarum ex quibus nectitur fatum, talem esse *** cupiditatum: altera ex fine alterius nascitur. In eam demissus es vitam quae numquam tibi terminum miseriarum ac servitutis ipsa factura sit: subduc cervicem iugo tritam; semel illam incidi quam semper premi satius est.
[7] Si te ad privata rettuleris, minora erunt omnia, sed affatim implebunt: at nunc plurima et undique ingesta non satiant. Utrum autem mavis ex inopia saturitatem an in copia famem? Et avida felicitas est et alienae aviditati exposita; quamdiu tibi satis nihil fuerit, ipse aliis non eris.
[8] ‘Quomodo’ inquis ‘exibo?’ Utcumque. Cogita quam multa temere pro pecunia, quam multa laboriose pro honore temptaveris: aliquid et pro otio audendum est, aut in ista sollicitudine procurationum et deinde urbanorum officiorum senescendum, in tumultu ac semper novis fluctibus quos effugere nulla modestia, nulla vitae quiete contingit. Quid enim ad rem pertinet an tu quiescere velis? fortuna tua non vult. Quid si illi etiam nunc permiseris crescere? quantum ad successus accesserit accedet ad metus.
[9] Volo tibi hoc loco referre dictum Maecenatis vera in ipso eculeo elocuti: ‘ipsa enim altitudo attonat summa’. Si quaeris in quo libro dixerit, in eo qui Prometheus inscribitur. Hoc voluit dicere, attonita habet summa. Est ergo tanti ulla potentia ut sit tibi tam ebrius sermo? Ingeniosus ille vir fuit, magnum exemplum Romanae eloquentiae daturus nisi illum enervasset felicitas, immo castrasset. Hic te exitus manet nisi iam contrahes vela, nisi, quod ille sero voluit, terram leges.
[10] Poteram tecum hac Maecenatis sententia parem facere rationem, sed movebis mihi controversiam, si novi te, nec voles quod debeo <nisi> in aspero et probo accipere. Ut se res habet, ab Epicuro versura facienda est. ‘Ante’ inquit ‘circumspiciendum est cum quibus edas et bibas quam quid edas et bibas; nam sine amico visceratio leonis ac lupi vita est.’
[11] Hoc non continget tibi nisi secesseris: alioquin habebis convivas quos ex turba salutantium nomenclator digesserit; errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat. Nullum habet maius malum occupatus homo et bonis suis obsessus quam quod amicos sibi putat quibus ipse non est, quod beneficia sua efficacia iudicat ad conciliandos animos, cum quidam quo plus debent magis oderint: leve aes alienum debitorem facit, grave inimicum.
[12] ‘Quid ergo? beneficia non parant amicitias?’ Parant, si accepturos licuit eligere, si collocata, non sparsa sunt. Itaque dum incipis esse mentis tuae, interim hoc consilio sapientium utere, ut magis ad rem existimes pertinere quis quam quid acceperit. Vale.
Sono felice ogni volta che ricevo le tue lettere: mi colmano di buone speranze e non mi portano più solo promesse, ma precise garanzie su di te. Continua così, ti supplico; che posso chiedere di meglio a un amico, se non ciò che chiedo per il suo stesso bene? Se puoi, sottraiti a codeste occupazioni; se no, staccatene a viva forza. Abbiamo già sprecato troppo tempo: ora che siamo vecchi cominciamo a preparare i bagagli.
È disonorevole? Abbiamo vissuto in mezzo ai marosi, almeno moriamo in porto. Non ti consiglio di ricercare la fama con una vita ritirata: non devi sbandierarla e nemmeno nasconderla; pur condannando la follia umana non arriverei mai al punto da volere che tu vivessi nell’oscurità dimenticato da tutti: comportati in modo che il tuo ritiro non spicchi troppo; sia, però evidente.
Quelle persone che sono agli inizi e devono ancora prendere le loro decisioni vedranno se scegliere una vita oscura: tu non sei libero. Sei al centro dell’attenzione per il vigore del tuo ingegno, l’eleganza degli scritti, l’amicizia con uomini nobili e illustri; ormai sei famoso; anche se ti apparti e cerchi di nasconderti completamente, le tue azioni passate ti metteranno in mostra.
Non puoi rimanere nell’ombra: dovunque tu fugga, ti seguirà gran parte della vecchia luce: puoi, però, rivendicare la tua tranquillità senza attirarti l’astio di nessuno, senza rimpianti o rimorsi. Che cosa dovresti lasciare a malincuore? I clienti? Nessuno di loro vuole te, ma qualcosa da te; un tempo si cercava l’amicizia, oggi il profitto; i vecchi cambieranno testamento, vedendosi abbandonati, il cliente busserà ad altre porte. Una cosa di gran valore non può costare poco: valuta se preferisci rinunciare a te stesso o a qualcuno dei tuoi privilegi.
Ti fosse toccato di invecchiare nello stesso stato in cui nascesti e la fortuna non ti avesse innalzato tanto! La tua rapida carriera, il governo della provincia, l’ufficio di procuratore e tutti i vantaggi connessi ti hanno allontanato dalla visione di una vita sana; poi si succederanno cariche sempre più importanti: quale sarà il risultato?
Che cosa aspetti? Di aver esaurito tutti i tuoi desideri? Non arriverà mai quel momento. Noi diciamo che c’è una successione di cause cui il fato è concatenato: tale è <la successione> dei desideri: nascono l’uno dall’altro. Ti sei cacciato in un sistema di vita che mai porrà fine da sé alle tue miserie e alla tua schiavitù: sottrai al giogo il collo ormai consunto; meglio un taglio netto che una continua oppressione.
Se ti ritirerai a vita privata, avrai di meno, ma sarai soddisfatto; ora invece la gran quantità di beni raccolti da ogni parte non ti sazia. Ma allora preferisci la sazietà nell’indigenza o la fame nell’abbondanza? Il ricco è avido ed è soggetto all’avidità altrui; fino a quando non ti basterà niente, tu stesso non basterai agli altri.
“E come ne uscirò?” domandi. In qualunque modo. Pensa a quanto hai temuto per il denaro, quanto ti sei affaticato per la carriera: bisogna osare qualcosa anche per conseguire il riposo, oppure invecchiare nelle preoccupazioni delle procurature e poi delle cariche cittadine, in continua agitazione e fra sempre nuove inquietudini: non vi si può sfuggire né con la moderazione, né con una vita calma. Che importa se tu vuoi vivere tranquillo? Il tuo destino non vuole. E che accadrà se anche ora gli permetterai di crescere? Le paure aumenteranno proporzionalmente ai successi.
Voglio a questo punto riferirti una frase di Mecenate. Ha detto molte verità anche in mezzo ai tormenti della sua posizione: “L’altezza di per sé espone le cime ai fulmini”. Vuoi sapere in che libro lo ha scritto? In quello intitolato Prometeo. Mecenate voleva dire che chi sta in alto è esposto ai colpi della sorte. E tu valuti tanto il potere da giudicare queste parole un discorso da ubriaco? Quell’uomo ebbe un grande ingegno e avrebbe dato un insigne esempio di eloquenza romana, se non lo avesse snervato, anzi castrato, la prosperità. Ti attende questa fine se non ammaini le vele, se non ti dirigi verso la terraferma, cosa che egli decise di fare troppo tardi.
Con questa massima di Mecenate avrei potuto saldare il mio debito con te, ma, se ben ti conosco, ne farai una questione e vorrai ricevere quanto ti devo in valuta nuova e pregiata. Stando così le cose, devo chiedere un prestito a Epicuro. Scrive: “Bisogna prima guardare con chi si beve e si mangia e poi che cosa si beve e si mangia; mangiare senza un amico è vivere come i leoni o i lupi.”
E questo non ti succederà, se non farai vita ritirata: altrimenti avrai come commensali quelli scelti tra la massa dei clienti dallo schiavo addetto ai nomi; chi cerca gli amici nell’atrio o li prova a tavola sbaglia. Il male peggiore per l’uomo indaffarato e occupato ad amministrare i suoi beni è ritenere amici persone cui egli non è amico, e pensare che i suoi favori servano ad accattivargli gli animi, mentre certuni più sono debitori, più odiano: una piccola somma data in prestito crea un debitore, una grossa crea un nemico.
“E allora? I favori non procurano amici?” Certo li procurano, se è possibile scegliere chi li riceve, se sono fatti a ragion veduta, non distribuiti a caso. Perciò ora che cominci a ragionare con la tua testa, segui questo consiglio dei saggi: giudica più importante il beneficato del beneficio. Stammi bene.
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