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Marco Michelini | 9 Dicembre 2011

ATTENZIONE: Con l’inserimento di questo articolo si conclude il primo libro delle “Lettere a Lucilio”. Presto – nell’area riservata – sarà disponibile la versione stampabile del volume.

 

[1] Quocumque me verti, argumenta senectutis meae video. Veneram in suburbanum meum et querebar de impensis aedificii dilabentis. Ait vilicus mihi non esse neglegentiae suae vitium, omnia se facere, sed villam veterem esse. Haec villa inter manus meas crevit: quid mihi futurum est, si tam putria sunt aetatis meae saxa?

[2] Iratus illi proximam occasionem stomachandi arripio. ‘Apparet’ inquam ‘has platanos neglegi: nullas habent frondes. Quam nodosi sunt et retorridi rami, quam tristes et squalidi trunci! Hoc non accideret si quis has circumfoderet, si irrigaret.’ Iurat per genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas vetulas esse. Quod intra nos sit, ego illas posueram, ego illarum primum videram folium.

[3] Conversus ad ianuam ‘quis est iste?’ inquam ‘iste decrepitus et merito ad ostium admotus? foras enim spectat. Unde istunc nanctus es ? quid te delectavit: alienum mortuum tollere?’ At ille ‘non cognoscis me?’ inquit: ‘ego sum Felicio, cui solebas sigillaria afferre; ego sum Philositi vilici filius, deliciolum tuum’. ‘Perfecte’ inquam ‘iste delirat: pupulus, etiam delicium meum factus est? Prorsus potest fieri: dentes illi cum maxime cadunt.’

[4] Debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque adverteram apparuit. Complectamur illam et amemus; plena <est> voluptatis, si illa scias uti. Gratissima sunt poma cum fugiunt; pueritiae maximus in exitu decor est; deditos vino potio extrema delectat, illa quae mergit, quae ebrietati summam manum imponit; [5] quod in se iucundissimum omnis voluptas habet in finem sui differt. Iucundissima est aetas devexa iam, non tamen praeceps, et illam quoque in extrema tegula stantem iudico habere suas voluptates; aut hoc ipsum succedit in locum voluptatium, nullis egere. Quam dulce est cupiditates fatigasse ac reliquisse!

[6] ‘Molestum est’ inquis ‘mortem ante oculos habere.’ Primum ista tam seni ante oculos debet esse quam iuveni – non enim citamur ex censu -; deinde nemo tam sene est ut improbe unum diem speret. Unus autem dies gradus vitae est. Tota aetas partibus constat et orbes habet circumductos maiores minoribus: est aliquis qui omnis complectatur et cingat – hic pertinet a natali ad diem extremum -; est alter qui annos adulescentiae excludit; est qui totam pueritiam ambitu suo adstringit; est deinde per se annus in se omnia continens tempora, quorum multiplicatione vita componitur; mensis artiore praecingitur circulo; angustissimum habet dies gyrum, sed et hic ab initio ad exitum venit, ab ortu ad occasum.

[7] Ideo Heraclitus, cui cognomen fecit orationis obscuritas, ‘unus’ inquit ‘dies par omni est’. Hoc alius aliter excepit. Dixit enim *** parem esse horis, nec mentitur; nam si dies est tempus viginti et quattuor horarum, necesse est omnes inter se dies pares esse, quia nox habet quod dies perdidit. Alius ait parem esse unum diem omnibus similitudine; nihil enim habet longissimi temporis spatium quod non ct in uno die invenias, lucem et noctem, et in alternas mundi vices plura facit ista, non <alia>: *** alias contractior, alias productior.

[8] Itaque sic ordinandus est dies omnis tamquam cogat agmen et consummet atque expleat vitam. Pacuvius, qui Syriam usu suam fecit, cum vino et illis funebribus epulis sibi parentaverat, sic in cubiculum ferebatur a cena ut inter plausus exoletorum hoc ad symphoniam caneretur: βεβίωται βεβίωται [bebíōtai bebíōtai].

[9] Nullo non se die extulit. Hoc quod ille ex mala conscientia faciebat nos ex bona faciamus, et in somnum ituri laeti hilaresque dicamus,

vixi et quem dederat cursum fortuna peregi.

Crastinum si adiecerit deus, laeti recipiamus. Ille beatissimus est et securus sui possessor qui crastinum sine sollicitudine exspectat; quisquis dixit ‘vixi’ cotidie ad lucrum surgit.

[10] Sed iam debeo epistulam includere. ‘Sic’ inquis ‘sine ullo ad me peculio veniet?’ Noli timere: aliquid secum fert. Quare aliquid dixi? multum. Quid enim hac voce praeclarius quam illi trado ad te perferendam? ‘Malum est in necessitate vivere, sed in necessitate vivere necessitas nulla est.’ Quidni nulla sit? patent undique ad libertatem viae multae, breves faciles. Agamus deo gratias quod nemo in vita teneri potest: calcare ipsas necessitates licet.

[11] ‘Epicurus’ inquis ‘dixit: quid tibi cum alieno?’ Quod verum est meum est; perseverabo Epicurum tibi ingerere, ut isti qui in verba iurant nec quid dicatur aestimant, sed a quo, sciant quae optima sunt esse communia. Vale.

 

 

Dovunque mi volti, vedo i segni della mia vecchiaia. Ero andato nella mia villa di campagna e mi lamentavo delle spese necessarie per quella casa che va in rovina. Il fattore mi risponde che non è colpa della sua negligenza: lui fa tutto il possibile, ma l’edificio è vecchio. Questa villa è cresciuta tra le mie mani: che avverrà di me, se i muri che hanno la mia stessa età sono in un tale disfacimento?

Adirato con lui, colgo al volo il primo pretesto per sfogare il mio malumure: «È evidente», dico, «che questi platani sono trascurati: non hanno fronde; i rami sono secchi e nodosi, i tronchi brutti e squallidi. Questo non succederebbe se qualcuno zappasse la terra intorno, se li innaffiasse». Egli giura sul mio genio tutelare che lui fa tutto il necessario, che la sua cura non viene meno in nulla, ma che quelli sono alberi ormai vecchiotti. Rimanga fra noi: io li avevo piantati, io ne avevo visto le prime foglie.

Mi giro verso la porta. «Chi è costui?» dico, «questo vecchio decrepito che giustamente è stato messo accanto alla porta e guarda verso l’esterno? Dove l’hai trovato? Perché mai hai portato qui la salma di uno sconosciuto?» Ma quello dice: «Non mi riconosci? Sono Felicione, cui regalavi sempre le statuette di argilla; sono figlio del fattore Filosito, il tuo prediletto.» «Costui delira», mi dico, «ora il bambolino è divenuto anche il mio prediletto? Certo, può essere: proprio adesso gli cadono i denti».

Devo una cosa alla mia villa di campagna: ovunque posassi lo sguardo, mi è apparsa evidente la mia vecchiaia. Abbracciamola ed amiamola: può procurare grandi piaceri, se sappiamo farne buon uso. I frutti sono i più che mai graditi, quando cominciano a mancare; la grazia della fanciullezza è massima quando si sta per uscirne; chi è dedito al vino gusta soprattutto l’ultimo bicchiere, quello che stordisce, che dà all’ebbrezza il tocco finale.

Ogni piacere riserva per la fine il meglio di sé. È dolcissima l’età che ormai declina, ma non precipita ancora, e anche quella che, per così dire, è aggrappata ai bordi del tetto ha, secondo me, i suoi piaceri; oppure, al posto dei piaceri subentra il non sentirne più il bisogno. Come è dolce aver logorato ed abbandonato le passioni!

«È penoso, però, avere la morte davanti agli occhi», ribatti. Prima di tutto deve averla davanti agli occhi sia il vecchio che il giovane (infatti, non siamo chiamati in base all’età); inoltre, nessuno è tanto vecchio da non poter sperare in un altro giorno di vita. E un solo giorno è un gradino della vita. L’intera esistenza è composta di tante parti e ha cerchi più grandi che ne comprendono altri più piccoli: ce n’è uno che li abbraccia e li racchiude tutti (quello che va dal giorno della nascita a al giorno della morte); ce n’è un secondo che delimita gli anni dell’adolescenza; c’è quello che comprende nella sua orbita tutta la fanciullezza; c’è poi l’anno che contiene in sé tutte le stagioni, il cui susseguirsi forma la vita; il mese è racchiuso in un cerchio più stretto; il giorno ha un giro strettissimo, ma anch’esso va da un inizio a una fine, dall’alba al tramonto.

Perciò Eraclito, che al suo linguaggio deve il soprannome di “oscuro” dice: «un giorno è uguale ad ogni altro». Questa frase è stata interpretata in modi diversi. Secondo alcuni è uguale per numero di ore, e non sbagliano; infatti, se il giorno è l’arco di ventiquattro ore, tutti i giorni devono essere uguali tra loro, perché le ore perse dal giorno le acquista la notte. Secondo altri, un giorno è uguale a tutti perché si somigliano: infatti, tutto quanto c’è in uno spazio di tempo lunghissimo si può trovare anche in un giorno solo, luce e notte, e, nelle alterne vicende dell’universo, la notte, ora più breve ora più lunga, mantiene uguale la durata del giorno.

Perciò ogni giorno deve essere organizzato come se fosse l’ultimo, quello che consuma e porta a compimento la nostra vita. Pacuvio, che fu governatore della Siria per un lungo periodo e quasi la fece sua, celebrava le proprie esequie con vino e banchetti funebri, così dalla sala da pranzo veniva portato in camera da letto, mentre i suoi amasi lo applaudivano e cantavano accompagnati dalla musica: «È vissuto, è vissuto».

E non c’era giorno in cui non celebrasse il suo funerale. Ciò che egli faceva per cattiva coscienza, noi facciamolo per un buon principio, e, andando a dormire lieti e sereni, diciamo:

«Ho vissuto e ho percorso il cammino che il destino mi ha assegnato».

Se dio vorrà concederci un altro giorno, accettiamolo con gioia. È veramente felice e padrone di se stesso colui che aspetta il domani senza preoccupazione; se uno dice: «Ho vissuto», alzarsi al mattino ogni giorno gli appare come un guadagno.

Ma ormai devo concludere la lettera. «Così», dici, «mi arriverà senza alcun regalo». Non temere: porta con sé qualcosa. Ma perché ho detto «qualcosa»? Dovevo dire «molto». Che cosa c’è, infatti, di più bello della massima che le affido perché te la riferisca? «Vivere nel bisogno è un male, ma non c’è alcuna necessità di vivere nel bisogno». E come può non esservi? Molte strade, brevi e facili, si aprono da ogni parte verso la libertà. Ringraziamo dio perché nessuno può essere costretto a rimanere in vita: è lecito calpestare anche le necessità.

«Questo lo ha detto Epicuro», ribatti, «che hai a che fare con un estraneo?» Tutto ciò che è vero è anche mio. Continuerò a citarti Epicuro, affinché coloro che giurano sulle parole e non tengono conto del loro significato, ma di chi le pronuncia, sappiano che le cose migliori sono patrimonio di tutti. Stammi bene. 

 

2 Commenti in “L. A. Seneca: Lettere a Lucilio – XII”

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