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Marco Michelini | 8 Giugno 2011

[1] Quod pertinaciter studes et omnibus omissis hoc unum agis, ut te meliorem cotidie facias, et probo et gaudeo, nec tantum hortor ut perseveres sed etiam rogo. Illud autem te admoneo, ne eorum more qui non proficere sed conspici cupiunt facias aliqua quae in habitu tuo aut genere vitae notabilia sint; [2] asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita. Satis ipsum nomen philosophiae, etiam si modeste tractetur, invidiosum est: quid si nos hominum consuetudini coeperimus excerpere? Intus omnia dissimilia sint, frons populo nostra conveniat.

[3] Non splendeat toga, ne sordeat quidem; non habeamus argentum in quod solidi auri caelatura descenderit, sed non putemus frugalitatis indicium auro argentoque caruisse. Id agamus ut meliorem vitam sequamur quam vulgus, non ut contrariam: alioquin quos emendari volumus fugamus a nobis et avertimus; illud quoque efficimus, ut nihil imitari velint nostri, dum timent ne imitanda sint omnia.

[4] Hoc primum philosophia promittit, sensum communem, humanitatem et congregationem; a qua professione dissimilitudo nos separabit. Videamus ne ista per quae admirationem parare volumus ridicula et odiosa sint. Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem appetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis.

[5] Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas. Hic mihi modus placet: temperetur vita inter bonos mores et publicos; suspiciant omnes vitam nostram sed agnoscant.

[6] ‘Quid ergo? eadem faciemus quae ceteri? nihil inter nos et illos intererit?’ Plurimum: dissimiles esse nos vulgo sciat qui inspexerit propius; qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram. Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento, nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus; infirmi animi est pati non posse divitias.

[7] Sed ut huius quoque diei lucellum tecum communicem, apud Hecatonem nostrum inveni cupiditatum finem etiam ad timoris remedia proficere. ‘Desines’ inquit ‘timere, si sperare desieris.’ Dices, ‘quomodo ista tam diversa pariter sunt?’ Ita est, mi Lucili: cum videantur dissidere, coniuncta sunt. Quemadmodum eadem catena et custodiam et militem copulat, sic ista quae tam dissimilia sunt pariter incedunt: spem metus sequitur.

[8] Nec miror ista sic ire: utrumque pendentis animi est, utrumque futuri exspectatione solliciti. Maxima autem utriusque causa est quod non ad praesentia aptamur sed cogitationes in longinqua praemittimus; itaque providentia, maximum bonum condicionis humanae, in malum versa est.

[9] Ferae pericula quae vident fugiunt, cum effugere, securae sunt: nos et venturo torquemur et praeterito. Multa bona nostra nobis nocent; timoris enim tormentum memoria reducit, providentia anticipat; nemo tantum praesentibus miser est. Vale.

 

 

Approvo e gioisco del fatto che ti applichi con costanza e hai lasciato da parte tutto il resto per renderti ogni giorno migliore; quindi non solo ti esorto, ma ti prego anche di perseverare. Però di questo ti avverto: non abbigliarti e non vivere in maniera stravagante, come le persone che non vogliono progredire, ma mettersi in mostra.

Evita gli abiti trasandati, i capelli lunghi e la barba incolta, il disprezzo manifesto per l’argenteria, il letto sistemato a terra, e in generale tutto ciò che per vie distorte corre dietro al desiderio di attirare l’attenzione. Il nome di filosofia, pur se la si pratica con discrezione, è già di per sé abbastanza impopolare: figurati poi se cominceremo a sottrarci alle consuetudini degli uomini. Bisogna essere completamente diversi dagli altri nell’intimo, ma il nostro aspetto esteriore deve adattarsi alla folla.

La toga non sia splendente, ma nemmeno sporca, cerchiamo di non possedere argenteria cesellata d’oro massiccio, ma neanche consideriamo indizio di frugalità l’essere privo di oro o di argento. Comportiamoci in modo da vivere meglio del volgo, non in maniera contraria: altrimenti mettiamo in fuga e allontaniamo da noi quelli che vorremmo emendare, e facciamo sì che essi non ci vogliano imitare in nulla, per timore di doverci imitare in tutto.

Queste sono le cose che la filosofia promette innanzi tutto: buon senso, umanità e socievolezza; comportarci in modo troppo diverso dagli altri ci impedirà di attuarle. Badiamo che non siano ridicoli e fastidiosi i comportamenti con cui vogliamo suscitare ammirazione. Certo il nostro proposito è vivere secondo natura: ma è contro natura tormentare il proprio corpo, trascurare una normale igiene, ricercare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo poveri, ma addirittura disgustosi e ripugnanti.

Come è segno di dissolutezza cercare alimenti troppo raffinati, così è segno di pazzia evitare quelli comuni che si possono avere a poco prezzo. La filosofia richiede frugalità, non sofferenza, e la frugalità può essere decorosa. Mi sembra buono questo criterio di misura: la vita sia una giusta combinazione tra i costumi dei saggi e quelli della gente comune; che tutta la gente guardi con ammirazione al nostro modo di vivere, ma che sia anche in grado di comprenderlo.

«E allora? Faremo le stesse cose che fanno gli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e loro?» Ce ne sarà molta, invece: chi ci guarda più da vicino, sappia che siamo diversi dal volgo; chi entra in casa nostra ammiri noi, non il nostro mobilio. È grande chi sa usare vasellami di terra cotta come se fossero d’argento, e non lo è meno colui che sa usare stoviglie d’argento come se fossero di terra cotta; solo i deboli non sono in grado di sopportare la ricchezza.

Ma voglio condividere con te anche il piccolo guadagno di oggi: ho letto nel nostro Ecatone che smettere di avere desideri serve anche come rimedio alla paura. Dice: «Smetterai di temere se se avrai smesso di sperare.» «Ma,» mi dirai, «come possono stare insieme cose tanto diverse?» Eppure è così , Lucilio mio: sembrano in contrasto e invece sono strettamente collegate. Come la stessa catena lega sia il prigioniero che il guardiano, così queste cose, che sono tanto differenti, procedono di pari passo: il timore tiene dietro alla speranza.

E non mi meraviglio che le cose vadano così: l’uno e l’altra sono propri di un animo incerto e preoccupato del futuro. La loro causa principale è che noi non ci adattiamo al presente, ma ci spingiamo avanti con i pensieri nel lontano futuro; così la capacità di fare previsioni, che è il più grande bene della condizione umana, si trasforma in un male.

Le fiere fuggono i pericoli che vedono e, quando si sono salvate, si sentono al sicuro: noi ci tormentiamo e per il futuro e per il passato. Molte nostre prerogative ci sono nocive; il ricordo, infatti, rinnova il tormento della paura, il prevedere il futuro ce l’anticipa; nessuno è infelice solo per i mali presenti. Stammi bene.

Un commento in “L. A. Seneca: Lettere a Lucilio – V”

  1. Ho salvato Marco M.G. Michelini tra i preferiti!

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