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Marco M. G. Michelini | 20 Marzo 2011

Ho espresso ampiamente nell’Introduzione alla mia taduzione dei 154 Sonetti di Shakespeare quelle che ne sono state – per così dire – le “ragioni”. E tuttavia, sento oggi il bisogno di aggiungiungere ancora qualcosa ad un discorso fatto quasi un decennio fa.

Ho cominciato la traduzione dei Sonetti oltre trent’anni fa, e sono andato avanti modificando il mio atteggiamento e le mie modalità. Per prima cosa, devo dichiarare che rimango tutt’ora (e sempre lo sarò) disposto a rivedere le mie traduzioni, modificandole anche subito. Con questo voglio dire che ogni traduzione in realtà è solo una delle tante possibili e si inserisce in un orizzonte di precarietà (più che di perfettibilità). È un passaggio. Traducendo Shakespeare, ho tentato di mantenere un equilibrio tra la proprietà, l’originalità, la singolarità della sua lingua poetica e la lingua poetica della tradizione italiana. Cioè ho cercato di trasportare Shakespeare nella lingua poetica italiana del suo tempo, possibilmente senza sottrargli le proprie caratteristiche. Prima fra tutte, la simultaneità di registri diversi: dal grido alla confidenza, dall’indignazione alla confessione, dal sublime al grottesco; e c’è poi la solennità a voce spiegata della sua poesia. Uno dei problemi che – fin dal principio – mi sono posto era proprio: come posso rendere questa solennità in italiano senza farla diventare eccessiva? Dovevo cercare di farla sentire con una forma di attenuazione, e l’unica soluzione che mi è venuta in mente è stata quella di un uso massiccio della sinalefe: anche e soprattutto in cesura, per attenuarla. La soluzione metrica dell’endecasillabo – la più scontata – a mio parere resta sempre e comunque la soluzione preferibile, e ciò nonostante (e contro) il parere di Ungaretti, che per tradurre i Sonetti preferì inventarsi un verso di sedici sillabe: l’endecassillabo non sarà identico al blank verse shakespeariano (cioè il pentametro giambico inglese) ma gli somiglia molto e  – dopo tutto – è proprio sul sonetto italiano che quello inglese si è modellato. Tradurre Shakespeare significa non solo fare un esercizio di “attraversamento”, ma anche entrare nel suo universo poetico. Perché la miglior interpretazione di un autore (checché se ne possa pensare) è la traduzione.

Per meglio far comprendere i pensieri fin qui esposti circa le mie traduzioni, porterò ad esempio il “lavoro” ultimamente svolto sul sonetto XVIII.

Shall I compare thee to a Summer’s day?
Thou art more lovely and more temperate:
Rough winds do shake the darling buds of May,
And Summer’s lease hath all too short a date:
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimm’d,
And every fair from fair sometime declines,
By chance, or nature’s changing course untrimm’d:
But thy eternal Summer shall not fade,
Nor lose possession of that fair thou ow’st,
Nor shall Death brag thou wander’st in his shade,
When in eternal lines to time thou grow’st,
         So long as men can breathe or eyes can see,
         So long lives this, and this gives life to thee.

 Penso che la traduzione più letterale possibile di questo sonetto sia la seguente:

Dovrò compararti a un giorno d’Estate?
Tu sei più amabile e più temperato
aspri venti scuotono i diletti bocciòli del Maggio
e il contratto d’affitto dell’Estate ha troppo breve durata.
Alle volte l’occhio del cielo splende troppo caldo,
e spesso il suo dorato aspetto si oscura,
ed ogni bellezza dalla bellezza a volte declina,
a causa della sorte, o del mutevole e sregolato corso della natura.
Ma la tua eterna estate non potrà appassire,
né perdere il possesso di quella bellezza che tu possiedi,
né la Morte potrà vantarsi che tu ti aggiri nella sua ombra,
quando attraverso il tempo tu crescerai in versi eterni.
         Finché uomo può respirare o occhio può vedere,
         questi [versi] vivranno e ti daranno vita.

La prima trasposizione in versi fu quasi “istintiva: 

D’Estate allor t’eguaglierò a giornata?
Tu sei più mite, tu sei più avvenente:
del Maggio i bocci i venti hanno sferzato
e i dì d’Estate duran men che niente.
Troppo talor l’occhio del cielo splende
e spesso un velo il suo bel volto oscura,
e l’astro alfin d’ogni beltà discende,
causa la sorte o il corso di natura.
Ma la tua Estate non potrà svanire,
né di bellezza il serto perderai,
né Morte mai d’averti potrà dire,
ché in versi eterni sempre crescerai.
         Sin che respir gli uomini e vista avranno,
         vivran mie rime e vita a te daranno.

 

Questo testo, come è facile verificare confrontando verso per verso, concede pochissimo all’invenzione individuale del traduttore. Mantiene intatto il genitivo sassone «d’estate» ai versi 1 e 4, che sarebbe troppo semplicistico tradurre con l’aggettivo attributivo «estivo», né sconvolge il procedere del discorso (anteponendo o posponendo concetti). Le uniche vere “perdite” sono alcuni aggettivi qualificativi [«aspri» e «diletti» al v. 3, «caldo» al v. 5, «mutevole e sregolato» al v. 8] e il “prosciugamento” concettuale dei versi 4, 7 e 11.

Va tuttavia notato che, al v. 4, tradurre «lease» con una locuzione teporale come «i dì», provoca una sgradevole “reiterazione” del termine «giornata» al v. 1, che è del tutto assente nel testo inglese (Shakespeare, infatti, come si è visto, per dare il senso della “temporalità” usa un termine legato al commercio).

Ma anche dal punto di vista metrico questa versione presenta un neo: la rima imperfetta tra i vv. 1 e 3, dove troppo facilmente (e comodamente) l’inglese «shake» viene tradotto con «hanno sferzato» (oltretutto al passato), che poco ha a che spartire con «scuotono», ma che si ricollega ad un modo di dire abbastanza comune in italiano (appunto lo «sferzare dei venti»).

Era possibile fare di meglio? Non so se questa domanda possa trovare una risposta affermativa, anche se attualmente sono riuscito a trovare una diversa soluzione per la prima quartina del sonetto: 

A un dì d’Esate ti dovrò eguagliare?
Tu sei più mite, tu sei più avvenente:
del Maggio i bocci i venti fan tremare
e il durar dell’Estate è men che niente.
[…]

In questo modo si risolvono i due problemi precedentemente individuati: la rima imperfetta tra i vv. 1 e 3, e il ripetersi dei sinonimi «giornata» e «dì». Tuttavia, anche se al v. 3 «hanno sferzato», qui diventa «fan tremare», pur nel rispetto del tempo verbale dell’inglese, rimane l’imprecisa traduzione di «shake». C’è da domandarsi, a questo punto, se in questa quartina – oltre alla letteralità – non venga sacrificata anche l’efficacia dell’immagine?

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