[1] Epistulas ad me perferendas tradidisti, ut scribis, amico tuo; deinde admones me ne omnia cum eo ad te pertinentia communicem, quia non soleas ne ipse quidem id facere: ita eadem epistula illum et dixisti amicum et negasti. Itaque si proprio illo verbo quasi publico usus es et sic illum amicum vocasti quomodo omnes candidatos ‘bonos viros’ dicimus, quomodo obvios, si nomen non succurrit, ‘dominos’ salutamus, hac abierit.
[2] Sed si aliquem amicum existimas cui non tantundem credis quantum tibi, vehementer erras et non satis nosti vim verae amicitiae. Tu vero omnia cum amico delibera, sed de ipso prius: post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum. Isti vero praepostero officia permiscent qui, contra praecepta Theophrasti, cum amaverunt iudicant, et non amant cum iudicaverunt. Diu cogita an tibi in amicitiam aliquis recipiendus sit. Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum illo loquere quam tecum.
[3] Tu quidem ita vive ut nihil tibi committas nisi quod committere etiam inimico tuo possis; sed quia interveniunt quaedam quae consuetudo fecit arcana, cum amico omnes curas, omnes cogitationes tuas misce. Fidelem si putaveris, facies; nam quidam fallere docuerunt dum timent falli, et illi ius peccandi suspicando fecerunt. Quid est quare ego ulla verba coram amico meo retraham? quid est quare me coram illo non putem solum?
[4] Quidam quae tantum amicis committenda sunt obviis narrant, et in quaslibet aures quidquid illos urit exonerant; quidam rursus etiam carissimorum conscientiam reformidant et, si possent, ne sibi quidem credituri interius premunt omne secretum. Neutrum faciendum est; utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli, sed alterum honestius dixerim vitium, alterum tutius.
[5] Sic utrosque reprehendas, et eos qui semper inquieti sunt, et eos qui semper quiescunt. Nam illa tumultu gaudens non est industria sed exagitatae mentis concursatio, et haec non est quies quae motum omnem molestiam iudicat, sed dissolutio et languor.
[6] Itaque hoc quod apud Pomponium legi animo mandabitur: ‘quidam adeo in latebras refugerunt ut putent in turbido esse quidquid in luce est’. Inter se ista miscenda sunt: et quiescenti agendum et agenti quiescendum est. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem. Vale.
Mi scrivi che hai affidato ad un tuo amico delle lettere da consegnarmi; poi mi raccomandi di non discutere con lui di tutto ciò che ti riguarda, poiché tu stesso non hai l’abitudine di farlo: così nella stessa lettera hai affermato e poi negato che costui è tuo amico. Perciò, se hai usato quella parola non in senso specifico, ma in senso generico, e lo hai chiamatoamico come noi chiamiamo “onorevoli” tutti quelli che aspirano ad una carica pubblica, oppure salutiamo con “signori” coloro che incontriamo, se non ci rammentiamo il nome, passi.
Ma se consideri amico uno e non ti fidi di lui come di te stesso, sbagli di grosso e non conosci abbastanza il valore della vera amicizia. Decidi tranquillamente qualsiasi cosa con un amico, ma prima decidi se egli meriti la tua amicizia: una volta che hai stretto amicizia, ti devi fidare; ma, prima di stringerla, bisogna giudicare. Sovvertento l’ordine dei rapporti quelle persone che, contrariamente agli insegnamenti di Teofrasto, giudicano dopo aver concesso il loro affetto, invece di concedere l’affetto dopo aver giudicato. Rifletti a lungo se sia il caso di accogliere qualcuno come amico; ma, quando avrai deciso di farlo, accoglilo con tutto il cuore e parla con lui apertamente come con te stesso.
Vivi poi in modo da non confidare a te stesso nulla che tu non possa confidare anche ai tuoi nemici. Ma, poiché ci sono cose che è abitudine tener segrete, condividi con l’amico ogni tua preoccupazione, ogni tuo pensiero. Se lo giudichi fidato, tale lo renderai. Chi teme di essere ingannato insegna ad ingannare, e i suoi sospetti autorizzano ad agire disonestamente. Per quale motivo di fronte ad un amico dovrei soppesare le parole? Perché davanti a lui non dovrei sentirmi come se fossi solo?
C’è chi racconta al primo venuto ciò che si dovrebbe confidare solo agli amici e scarica nelle orecchie di uno qualunque ciò che lo tormenta. Altri, al contrario, temono persino che le persone più care vengano a conoscenza delle loro cose e nascondono dentro di sé ogni segreto, per non confidarlo, se gli fosse possibile, neppure a se stessi. Questi comportamenti sono entrambi da evitare, perché è un difetto sia credere a tutti, sia non credere a nessuno; ma direi che il primo difetto è più nobile, il secondo più sicuro.
Allo stesso modo merita di essere biasimato sia chi è sempre irrequieto, sia chi è sempre flemmatico. Infatti, non è operosità il compiacersi dello scompiglio, ma lo smaniare di una mente esagitata, come non è quiete giudicare molesta ogni attività, bensì fiacchezza e indolenza.
Tieni bene a mente, perciò, questa frase che ho letto in Pomponio: «C’è chi si è ritirato in nascondigli tanto profondi che gli sembra tempesta tutto ciò che accade sotto il sole.» Bisogna saper contemperare queste due opposte tendenze: chi è flemmatico deve agire e chi è sempre in attività deve calmarsi. Consigliati con la natura: essa ti dirà che ha creato il giorno e la notte. Stammi bene.
26 Febbraio 2011 | 13:43
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