[1] Quaeris quid tibi existimes vitandum praecipue? Turbam. Nondum committeris illi tuto. Ego confitebor certe meam imbecillitatem: nunquam refero mores quos extuli; aliquid turbatur ex eo quod composui, aliquid redit ex iis quae fugavi. Quod evenit aegris quos longa imbecillitas adfecit usque eo ut nusquam proferantur sine offensa, hoc accidit nobis animi quorum reficiuntur ex longo morbo.
[2] Conversazio multorum est inimica: nemo non aut nobis commendat aliquod vitium aut imprimit aut adlinit nescentibus. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc plus est periculi. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam desidere in aliquo spectaculo; tunc enim vitia subrepunt facilius per voluptatem.
[3] Quid existimas me dicere? Redeo avarior, ambitiosior, luxuriosior, immo vero crudelior et inhumanior, quia fui inter homines. Casu incidi in spectaculum meridianum, expectans lusus et sales et aliquid laxamenti quo adquiescant oculi hominum ad cruore humano. Est contra: quidquid est pugnatum ante fuit misericordia; nunc omissis nugis sunt mera homicidia. Nihil habent quo tegantur; expositi ad ictum totis corporibus nunquam mittunt manum frustra.
[4] Plaerique praeferunt hoc paribus ordinariis et postulaticiis. Quidni praeferant? Ferrum repellitur non galea, non scutum. Quo munimenta? Quo artes? Omnia ista sun morae mortis. Mane homines obiciuntur leonibus et ursis, meridie suis spectatoribus. Iubent interfectores obici interfecturis et detinent victorem in aliam caedem; mors est exitus pugnantium. Res geritur ferro et igne.
[5] Haec fiunt dum harena vacat. «Sed aliquis fecit latrocinium Occidet hominem ». Quid ergo? quia occidit? Ille meruit ut pateretur hoc; tu, miser, quid meruisti ut spectes hoc? «Occide, verbera, ure! Quare incurrit in ferrum tam timide? Quare occidit parum audacter? Quare moritur parum libenter?» Agitur plagis in vulnera, excipiant pectoribus nudis et obviis ictus mutos. «Spectaculum est intermissum». Interim homines iugulentur, ne nihil agatur. Age, ne quidem hoc intelligitis, mala exempla redundare in eos qui faciunt? Agite gratia diis immortalibus quod docetis esse crudelem eum qui non potest discere.
[6] Animus tener et parum tenax recti subducendus est populo: facile transitu ad plures. Multitudo dissimilis potuisset excutere morem suum Socrati et Catoni et Laelio: adeo nemo nostrum qui concinnamus ingenium cum maxime, potest ferre impetum vitiorum venientium tam magno comitatu.
[7] Unum exemplum luxuriae aut avaritiae facit multum mali: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives inritat cupiditatem, comes malignus adfricuit suam rubiginem quamvis candido et simplici: quid tu credis accidere his moribus in quos factus est impectus publice?
[8] Est necesse aut imiteris aut oderis. Autem utrumque devitandum est: neve fias similis malis, quia sunt multi, neve inimicus multi, quia sunt dissimiles. Recede in te ipsum quantum potes; versare cum his qui te facturi sunt meliorem, admitte illos quos tu potes facere meliores. Ista fiant mutuo, et homines discunt dum docent.
[9] Non est quod gloria publicandi ingenii te producat in medium, ut velis recitare istis aut disputare; quod vellem te facere, si haberes mercem idoneam isti populo: nemo est qui possit intellegere te. Aliquid fortasse, unus aut alter, incidet, et hic ipse formandus eris tibi que instituendus ad intellectum tui. «Cui ergo didici ista?» Non est quod timeas ne perdideris operam, si didicisti tibi.
[10] Sed ne odie didicerim mihi soli, communicabo tecum tria egregia dicta fere circam eundem sensum quae mihi occurrunt, unum ex quibus haec epistula solvet in debitum, due accipe in antecessum. Democritus ait «unus est mihi pro populo, et populus pro uno».
[11] Bene et ille, quisquis fuit – enim ambigitur de auctore – cum ab eo quaereretur quo spectaret tanta diligentia artis perventurare ad paucissimos, «pauci» inquit «sunt satis mihi, unus est satis, nullus est satis». Epicurus egregie hoc terzium, cum scriberet unis ex consotibus suorum studiorum: «ego» inquit «haec non multis, sed tibi; enim alter alteri sumus magnum theatrum».
[12] Mi Lucili, ista condenda sunt in animum, ut contemnas voluptatem venientem ex adesione plurium. Multi te laudant: ecquid habes cur placeas tibi, si es is quem multi intellegant? Tua bona spectent introrsus. Vale.
Chiedi che cosa io pensi che tu debba evitare soprattutto? La folla. Non puoi ancora affidarti ad essa con sicurezza. Quanto a me, confesso tranquillamente una mia debolezza: non rientro mai a casa con lo stesso carattere che avevo prima di uscire; qualcosa si turba nell’equilibrio che ho raggiunto in me, ritorna quache difetto che ho allontanato. Come accade agli ammalati, che una lunga infermità colpisce a tal punto che non possono più uscire senza danno, così accade anche a me, il cui animo si riprende dopo una lunga malattia
Frequentare molta gente è dannoso: c’è sempre qualcuno che ci fa amare qualche vizio, o che ce lo inculca, o che ce lo attacca senza che ce ne accorgiamo. E così quanto più grande è la folla a cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il pericolo. Nulla è, in verità, più deleterio ai buoni costumi quanto l’assistere oziosi a qualche spettacolo; allora, infatti, i vizi si insinuano più facilmente attraverso il piacere.
Comprendi ciò che intendo dire? Ritorno a casa più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi più crudele e più inumano, poiché sono stato fra gli uomini. Sono capitato per caso ad uno spetttacolo meridiano, e mi aspettavo di assistere a qualche scenetta comica, a qualche battuta spiritossa, insomma a un momento di svago che desse riposo agli occhi degli uomini dopo la vista di tanto sangue. Avviene tutto il contrario: ognuno dei combattimenti precedenti, al confronto, era un atto di misericordia; ora lasciati da parte i giochi avvengono veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui difendersi; con tutto il corpo sono esposti ai colpi, che non vanno mai a vuoto.
La maggior parte della gente preferisce questo spettacolo alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché non dovrebbero preferirli? Non c’è elmo, non c’è scudo che possa respingere la spada. A che pro le difese? A che pro le arti della lotta? Tutto ciò non fa che ritardare la morte. Al mattino gli uomini vengono gettati ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Comandano che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini, e tengono in serbo il vincitore per un altro massacro; la morte è la fine di tutti i combattenti. La faccenda si conclude col ferro e col fuoco.
Questo avviene mentre l’arena è vuota. «Ma costui ha commesso un furto, ha ucciso un uomo». E dunque? Poiché uccise costui meritò di subire questa punizione; ma tu, infelice, cosa hai commesso per meritare di assistere a questo spettacolo? «Uccidi, flagella, brucia! Perché affronta la spada con tanta paura? Perché uccide con così poco accanimento? Perché muore con così poco coraggio? Li si spinga alla lotta con percosse, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo». Lo spettacolo è stato sospeso. «Si scannino degli uomini, nel frattempo, tanto per fare qualcosa». Orsù, neppure questo comprendete, che i cattivi esempi ricadono su coloro che li danno? Ringraziate gli dei immortali, poiché insegnate ad essere crudele a colui che non può più apprendere.
Un animo debole e poco saldo nel bene deve essere sottratto alla folla: facilmente si passa dalla parte dei più. Una moltitudine diversa avrebbe potuto mutare i costumi persino a Socrate a Catone e a Lelio: a maggior ragione, nessuno di noi specialmente quando il nostro carattere si sta formando, potrebbe resistere all’assalto dei vizi che giungono in così grande numero.
Un solo esempio di dissolutezza o di cupidigia produce danni gravissimi: un amico effeminato a poco a poco snerva ed infiacchisce, un vicino ricco suscita la cupidigia, un compagno malvagio contagia con la sua ruggine anche chi è candido e semplice: cosa credi che accada ai nostri costumi quando vengono assaltati in massa dai vizi?
È fatale: o li imiti o li odi. Ma l’una e l’altra cosa deve essere evitata: non renderti mai simile ai cattivi, perché sono molti, né devi diventare nemico di molti, poiché sono dissimili. Raccogliti in te stesso, per quanto puoi; trattieniti con quelli che ti potranno rendere migliore, e accetta quelli che puoi rendere migliori. Queste azioni avvengono reciprocamente, e gli uomini imparano mentre insegnano.
Non c’è ragione per cui l’ambizione di mettere in mostra il tuo ingegno ti spinga tra la folla, per recitare davanti a quella gente o a discutere con loro; vorrei che tu facessi questo solo se avessi una merce adatta a questa gente: ma non c’è nessuno che possa comprenderti. Qualcuno forse capiterà, uno o due al massimo, e tu dovrai formarlo ed educarlo per farti comprendere. «Per chi dunque ho appreso queste cose?» Non temere di aver perduto il tuo tempo, se hai imparato per te stesso.
Ma affinché oggi io non abbia imparato per me solo, ti renderò partecipe di tre eccellenti massime che mi vengono in mente quasi attorno allo stesso argomento: una di queste pagherà il debito di questa lettera, e le altre due accettale come anticipo. Democrito scrive: «una persona vale per me quanto un popolo, e un popolo quanto una persona».
Dice bene anche quell’altro, chiunque sia stato – infatti si è incerti sull’autore – che, a chi gli domandava quale scopo avesse tanta perfezione di un’arte destinata a giungere a pochissimi, rispose «pochi per me sono sufficienti, anzi anche uno solo è sufficiente, o addirittura nessuno». Eccellente anche questo terzo di Epicuro, quando ad uno dei compagni dei suoi studi scriveva: «io dico queste cose non a molti, ma a te solo; infatti, l’uno per l’altro noi siamo un grande pubblico».
Questi concetti, Lucilio mio, bisogna imprimerli nell’animo, per disprezzare il piacere che proviene dal consenso generale. Molti ti lodano: ma che motivo hai d’essere contento di te stesso, se sei tale che molti ti comprendono? Le tue buone qualità mirino solo all’approvazione di te stesso. Stammi bene.
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