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Marco M. G. Michelini | 7 Ottobre 2010

C’era una volta un re, vecchio e malato. Il suo regno era il più grande della terra ed il suo potere era smisurato come la sua solitudine.

Un giorno, la città di Alembein, che sorgeva sulle montagne, oltre il deserto, agli estremi confini del regno, si ribellò al vecchio sovrano: il giovane duca Edmondo, che governava la città in nome del re, con un colpo di mano fece imprigionare ed uccidere i ministri reali, facendosi acclamare dal popolo imperatore di tutte le terre al di là del deserto.

Di fronte a tanta arroganza, Basilio – così si chiamava il vecchio re – non ebbe alcuna esitazione: radunò i suoi generali e, tenuto un consiglio di guerra, ordinò loro di riportare l’ordine in quelle terre lontane a qualunque costo.

Gli eserciti si mossero da ogni parte del regno, e a tappe forzate raggiunsero la città di Alembein, ponendola sotto assedio.

E l’assedio fu lungo, doloroso e sembrava non dover finire mai. Gli abitanti di Alembein videro le scorte di cibo farsi sempre più magre, insieme ai loro volti; videro i topi scomparire di colpo dalle strade della città; videro vecchi e bambini morire di stenti; videro la pestilenza aggirarsi tra le loro case come un’orrida mietitrice. Videro il duca Edmondo, preda ormai della sua lucida follia, far giustiziare un numero sempre crescente di sudditi disobbedienti, come se ciò dipendesse da un lucido calcolo: meno bocche da sfamare, più carne da mangiare. E nonostante tutto ciò gli abitanti di Alembein non avrebbero ceduto, non si sarebbero mai arresi, poiché il timore del grave pericolo che rappresentavano gli eserciti fuor dalle mura, rendeva tollerabile qualsiasi giogo e qualsiasi infamia. Gli abitanti di Alembein avrebbero resistito e combattuto sino alla morte, se un ometto insignificante e viscido, di professione mugnaio, non li avesse traditi.

Egli, in una notte senza luna, uscì di soppiatto dalle mura. Raggiunse il campo dei soldati reali con le spade delle sentinelle puntate alla schiena, supplicando ed implorando di aver salva la vita. E vinta alfine la diffidenza del comandante supremo del re, indicò a lui ed ai suoi generali il punto più debole delle fortificazioni, quello contro cui avrebbero dovuto sferrare l’attacco.

Il giorno seguente i soldati del re entrarono nella città di Alembein. La battaglia che si svolse dentro le mura fu rapida e furiosa. I soldati reali ebbero ben presto ragione di quei poveri combattenti inesperti, stremati dalla fame. E così, tutto si concluse con un massacro indistinto. Il Duca Edmondo venne catturato vivo, per essere interrogato. I soldati del Re non lo trovarono a combattere nella piazza insieme agli strenui difensori della città; lo scovarono nella sala del trono, nascosto sotto un tavolo, implorante che non gli facessero del male. Per quattro giorni fu torturato. Il quinto, ciò che restava del suo corpo fu squartato da una quadriga di cavalli lanciati al galoppo. Gli abitanti della città sfuggiti al massacro, furono radunati in catene nella piazza principale a fianco delle cataste di cadaveri spogliati ed ammucchiati l’uno sull’altro, pronti per essere bruciati. Il comandante supremo ordinò che cento uomini armati restassero a presidio di quella città ormai morta. E quando la bandiera del Re tornò a sventolare sulla torre del palazzo del Governo, gli eserciti si misero in marcia verso la capitale, portando con sé quel fardello di prigionieri.

Appena giunti nella capitale, il comandante supremo fece condurre tutti i prigionieri al cospetto del Sovrano. Basilio era seduto sul suo enorme trono di marmo che sorgeva al sommo di una lunga scalinata. Il vecchio Re si alzò lentamente, scese con passo maestoso i numerosi scalini ricoperti di velluto rosso e si aggirò in silenzio fra quei corpi laceri e macilenti che giacevano prostrati ai suoi piedi.

«Donne, vecchi, ragazzi e bambini» pensò Basilio con il cuore gonfio di tristezza, mentre la corona d’oro che aveva sul capo gli sembrava pesasse infinitamente.

Tra breve egli, dall’alto del suo trono, avrebbe deciso la sorte di quei derelitti: i più giovani, i più forti, sarebbero stati venduti come schiavi; gli altri avrebbero consumato la loro esistenza nelle miniere di sale. Un atto di clemenza era impensabile. La clemenza sarebbe stata giudicata debolezza e ciò avrebbe potuto scatenare nuove ribellioni, nuove guerre, nuovi lutti.

«Alzatevi» disse Basilio ai prigionieri. «Ascolterete in piedi il mio giudizio».

Era già sul punto di tornare sui suoi passi e di risalire la lunga scalinata che lo avrebbe riportato al suo trono, quando, improvvisamente, scorse in fondo al gruppo dei prigionieri, un poco in disparte, un giovinetto di straordinaria bellezza.

«Tu, come ti chiami?» chiese il Re avvicinandosi al ragazzo. Ma il ragazzo chinò il capo e non rispose.

«Come ti chiami?» chiese di nuovo il Re, costringendolo con la mano ad alzare il viso. Ma il ragazzo non rispose.

«Non parla» trovò il coraggio di dire un vecchio, ch’era poco distante.

«È muto?»

«Non so, Maestà» disse il vecchio. «Con me, non ha mai parlato».

«È un tuo parente?»

«No, Maestà».

«C’è qualcuno tra di voi che sia suo parente?» chiese allora Basilio agli altri prigionieri, ma nessuno rispose.

«Insomma» sbottò il Re «tra di voi non c’è nessuno che lo conosca?».

Ma ancora una volta nessuno rispose.

Basilio restò a lungo in silenzio. Poi, d’improvviso, ordinò alla sua guardia, ch’era schierata ai piedi del trono: «Toglietegli quelle catene. Liberatelo!».

Subito i soldati accorsero e si accucciarono ai piedi del ragazzo, liberandolo dai ferri in men che non si dica. Appena libero il ragazzo mosse un piede, poi l’altro e parve sorridere. Anche Basilio sorrise, accarezzando i bei riccioli del ragazzo; quindi, ordinò seccamente ai suoi soldati: «Liberate anche gli altri. Hanno già troppo sofferto!».

Subito il comandante supremo ed il primo ministro si fecero incontro al Re, sbigottiti.

«Maestà» dissero ad una voce «la nostra legge…».

«Io sono la legge!» tuonò Basilio, brandendo in aria il suo scettro di rubini e diamanti. Poi, dopo aver preso il fanciullo sottobraccio, cominciò a salire i mille gradini che conducevano al suo immenso trono.

«Non temere» disse Basilio sedendosi sul suo trono di marmo, mentre il fanciullo gli si accucciava ai piedi. «D’ora innanzi, starai sempre con me; e nessuno – nessuno al mondo – potrà più farti alcun male».

I giorni passarono ed il fanciullo, a cui Basilio aveva dato il nome di Larius, con la sua presenza silenziosa si affiancò al Re, come un animale, o come un genio familiare. Aveva le infinite capacità di allegria e di indolenza di un cucciolo, la stessa selvatichezza fiduciosa. Come un superbo levriero afgano, ma ansioso di carezze e di ordini, il fanciullo si distese sulla vita del Re, con una dolcezza aspra, una devozione torva che impegnava l’essere intero. E tuttavia la sua sottomissione non era cieca: quelle palpebre tante volte abbassate nell’acquiescenza o nel rossore, si levavano, scoprendo gli occhi più attenti del mondo, che scrutavano nel viso il sovrano. Basilio sapeva di esser giudicato dal fanciullo, ma sapeva anche di esserlo come lo è un Dio da un suo fedele. Basilio era felice, come non lo era mai stato prima in vita sua. Il resto della bellezza umana declinava al rango di puro spettacolo, cessava d’essere selvaggina. Quella strana avventura, iniziata quasi per caso, arricchiva la sua vita, rendendola più semplice: l’avvenire non aveva più alcuna importanza. Il Re smise di consultare gli oracoli; le stelle tornarono ad essere diamanti sulla volta del cielo. Basilio non si sentiva più solo ed anche la sua salute migliorò visibilmente. Tutti i sudditi se ne accorsero. Certo i suoi capelli erano ancora color dell’argento, ma il suo corpo sembrava aver recuperato il vigore e lo scatto del quarantenne.

Il giorno del compleanno del Re il primo ministro chiamò a corte giocolieri, musici, saltimbanchi, per allietare la festa del sovrano. Durante il banchetto, mentre Basilio godeva e rideva delle chiacchiere dei suoi commensali, un saltimbanco, d’improvviso, estrasse un pugnale dalla manica della camicia e lo lanciò contro il Re. Basilio sarebbe morto sicuramente, se Larius, rapido come un fulmine, non gli avesse fatto scudo con il proprio corpo, ricevendo quel pugnale il pieno petto. Mentre i soldati del Re trascinavano il saltimbanco al patibolo, Basilio raccolse tra le braccia il corpo inerte del fanciullo, divenuto d’improvviso pesante come la pietra, e lo portò nella sua stanza, adagiandolo delicatamente sul letto. I medici del sovrano, accorsi prontamente, si fecero subito attorno al ragazzo. Tolsero il pugnale dal petto, cauterizzarono la ferita, la medicarono e la fasciarono. Quando ebbero finito, Coltar, il più anziano di loro, andò incontro al Re, che silenzioso, in un angolo della stanza, attendeva il responso.

«Vivrà?» chiese Basilio con una nota di apprensione nella voce.

Il vecchio cerusico si strinse nelle spalle.

«Non saprei dire, Maestà. La ferita è brutta e profonda, ma il fanciullo è di robusta costituzione…».

«Dimmi soltanto questo» disse Basilio stringendo il braccio di Coltar. «Posso sperare?».

Coltar alzò il capo, ed il suo sguardo andò oltre Basilio, verso un punto indefinito.

«La speranza» disse infine «non deve mai mancare».

Basilio si sedette accanto a quel letto di dolore. Prese tra le sue vecchie mani la mano diafana del fanciullo e dopo averla più volte baciata con tenerezza, sussurrò:

«Tu non puoi morire, Larius; non devi! Questo è il mio volere».

Basilio non si staccò più dal ragazzo. Per dieci giorni e dieci notti lo vegliò, asciugando il gelido sudore che di continuo imperlava quella fronte esangue. I medici che entravano nella stanza per visitare il ragazzo, ne uscivano scuotendo il capo.

«Non può salvarsi » dicevano. «È troppo debole, ormai. Qualcuno dovrebbe informare il Re».

Ma nessuno osava avvicinare il vecchio Sovrano, chiuso nel suo dolore, per dirgli che Larius sarebbe morto. Così altri giorni passarono. All’alba del sedicesimo giorno, Basilio, che si era brevemente assopito, sentì la mano del giovane muoversi tra le sue. S’alzò allora di scatto, piegandosi sul corpo immobile di Larius, e vide quegli occhi adorati schiudersi lentamente e le labbra abbozzare un debole sorriso. Anche il vecchio Re sorrise e pianse. Inginocchiato accanto al ragazzo, disse con voce rotta:

«Con il mettere a rischio la tua vita, tu hai voluto salvare la mia, rendendo vita per vita. Da questo momento non sei più il mio paggio. Ti nomino Cavaliere e Pari del regno; e con tutti gli altri nobili siederai nel Consiglio del Re».

Lentamente Larius guarì. Lentamente gli anni passarono. A poco a poco sul viso di Larius la luce cambiò. Si notavano le orme del tempo, i progressi di una giovinezza che si forma e si indora, per salire sino allo zenit. Le gambe del fanciullo avevano preso la falcata del corridore e stringevano la cavalcatura con maggiore esperienza. Il piccolo prigioniero, lacero e smunto, diveniva un giovane principe. Il fanciullo zelante che, durante le soste di un viaggio o di una caccia, si gettava da cavallo per offrire al suo Sovrano l’acqua delle sorgenti attinta nel palmo delle mani, non esisteva più; ora vi era un donatore che conosceva perfettamente il valore immenso dei suoi doni.

Un giorno il Capocaccia del Re, disse al Sovrano che sulla collina di fronte al castello era stato avvistato un grosso cervo, uno splendido esemplare di maschio. Subito Basilio s’armò d’arco e di frecce, ordinando a Larius di fare altrettanto. Uscirono insieme a cavallo e senza scorta. Giunti ai piedi della collina, lasciarono le loro cavalcature legate ad un albero e cominciarono ad inerpicarsi a piedi su per il crinale, cercando di fare il minor rumore possibile. Sulla vetta si nascosero tra i cespugli della boscaglia, immobili, in attesa della preda. Ore passarono, interminabili, ed alla fine il grande cervo maschio arrivò. Subito Basilio trasse dalla faretra una freccia e la scagliò contro l’animale che, colpito a morte, si abbatté al suolo. Basilio uscì dal suo nascondiglio ed andò verso il cervo, che bramiva e scalciava nell’agonia, per finirlo. In quell’istante una freccia trapassò la gola del Re. Basilio cadde a terra e vide la propria corona rotolare tra gli zoccoli della bestia. Con uno sforzo immenso cercò allora di allungarsi, per riprenderla; ma qualcuno gli immobilizzò il braccio con un piede, impedendoglielo.

«Questo è per tutti i morti di Alembein» disse una voce estranea, sopra di lui.

Basilio si girò un poco per vedere in viso il proprio aggressore.

«Larius!» esclamò il Re, sbalordito.

«Il mio nome è Camen» disse il ragazzo, che nel riflesso del sole sembrava ancora più bello.

«Perché?» farfugliò Basilio con quel poco di fiato che gli restava. «Perché?».

«Io» disse Larius, mentre gli occhi gli si inondavano di pianto «sono figlio del Duca Edmondo di Alembein».

Su quelle parole gli occhi di Basilio si spensero per sempre. Il ragazzo si inginocchiò accanto al Sovrano. Ne accarezzò il vecchio e nobile volto e lo ripulì dal sangue. Infine, con il cuore trafitto dal dolore, strinse tra le sue braccia quel corpo senza vita, lo sollevò da terra e, con passo lento ma fermo, si incamminò verso il castello e verso il suo destino.

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