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Marco M. G. Michelini | 21 Ottobre 2010

Pensare che la metrica si occupi della poesia è, in un certo senso, un errore. La metrica, infatti, si occupa della versificazione, cioè dell’organizzazione in versi di un discorso indipendentemente da ciò che esso vuole comunicare. La poesia, invece, per quanto dal punto di vista tecnico ed operativo sia un genere letterario – in opposizione alla prosa – che ha quale elemento fondamentale la suddivisione del testo in versi[1], è una qualità del discorso intesa come totalità di forma e contenuto[2], il cui riconoscimento è il frutto del pensiero di una determinata epoca culturale.

Per molti secoli, la metrica – intesa come un insieme di regole variabili nella storia, ma comunque da osservare, o di cui verificare l’osservanza nell’ambito del discorso letterario – è stata l’unico parametro di distinzione tra verso e prosa, anche se ciò, tra i due poli, non ha mai davvero comportato una totale estraneità[3]. Del resto, la tradizione latino-medioevale conosce le varie forme del cursus[4], ove le frasi (o loro parti) vengono strutturate mediante regole simili a quelle della metrica.

Con l’esperienza poetica del Novecento e la nascita del verso libero si sono rifiutati non solo tutti quei parametri mensurali fissi e sistematicamente ricorrenti che stavano alla base della versificazione, ma anche «la possibilità stessa di parametri regolati o in qualche modo normativi; tanto che c’è chi ha proposto di considerare l’a capo come unico segno del verso e del testo poetico, unica caratterizzazione della sua specificità nei confronti della prosa.»[5]

La metrica della poesia fondata sul verso libero appare dunque ristretta ad una sola ed unica regola: il discorso è segmentato indipendentemente dalla divisione in frasi. E proprio la segmentazione del discorso è ciò che distingue, in modo decisivo e sempre valido, il verso dalla prosa, giacché esiste un contesto culturale entro il quale si ammette, come cosa scontata, l’esistenza di tale distinzione. «L’esperienza moderna fa così prendere coscienza di un fatto che sul piano teorico, ed entro certi limiti, vale anche per la poesia di altri tempi. Paradossalmente, un segno della vitalità culturale della distinzione viene proprio da una ricerca poetica ‘eversiva’ rispetto alla versificazione, quella della ‘poesia in prosa’, e dalla possibilità stessa di tale concetto: si esprime in esso il concetto che la poesia è tale indipendentemente dal mezzo impiegato, ma anche che la prosa si distingue tecnicamente dal verso, e la ‘poesia in prosa’ si distingue dalla ‘poesia in versi’.»[6]

Nella metrica tradizionale, comunque, il verso è una struttura prefissata da una tradizione che ne ha stabilito durata ed intonazione, o – per dirla in maniera più semplice – è un insieme di parole (che realizzano un determinato numero di sillabe) legate dal ritmo[7], cioè dal ritorno, ad intervalli, di particolari accenti ritmici. Facciamo un esempio:

 

Soffermàti sull’àrida spònda,
volti i guàrdi al varcàto Ticìno,
tutti assòrti nel nòvo destìno,
certi in còr dell’antìca virtù,
han giuràto (…)

 

Come si vede gli accenti ritmici sono tre per ogni verso e, se si contano le sillabe del primo verso, ci si accorgerà che cadono sulla 3a, 6a e 9a sillaba. Anche parole come vòlti, certi, tutti, han possiedono un accento, ma è quello tonico normale e, se si prova a leggere a voce alta questi versi, ci si potrà rendere conto che questo accento risulta più debole degli altri. Gli accenti ritmici che marcano alcune sillabe nella struttura del verso si chiamano ictus: L’ictus segna il rapporto tra sillabe forti (o semiforti), dette arsi, e sillabe deboli, dette tesi, sicché per la lettura ritmica (o scansione) del verso si avranno ictus primari e secondari.

Il ritmo del verso, pertanto, è costituito dal susseguirsi di arsi (graficamente rappresentata dal segno ) e tesi (graficamente rappresentata dal segno X), di posizioni toniche ed atone, di ictus primari ed ictus secondari, di indugi, modulazioni e pause. Naturalmente, in base al modo in cui arsi e tesi vengono disposte all’interno di un verso, esso acquista un suo proprio e determinato ritmo.

I metricisti, per indicare le strutture ritmiche del verso, si servono di termini derivati dalla metrica classica (che era quantitativa, e cioè basata sulla “quantità” di tempo necessaria a pronunciare una sillaba, che poteva essere lunga o breve), reinterpretando gli schemi quantitativi secondo valori tonali. Si parla pertanto di:

  1. Ritmo giambico:             tesi – arsi : X
  2. Ritmo trocaico :             arsi – tesi : X
  3. Ritmo dattilico :             arsi – tesi – tesi : XX
  4. Ritmo anapestico :         tesi – tesi – arsi : XX.

I ritmi giambico e anapestico si dicono ascendenti (cioè che ascendono verso l’accento); i ritmi trocaico e dattilico si dicono, invece, discendenti.

Definendo il verso si è detto che esso è composto da parole che realizzano un determinato numero di sillabe. È importante sottolineare, infatti, come il verso non sia formato dalla somma di parole che contengono sillabe, ma dalla somma di sillabe che contengono parole. Il numero delle sillabe è ovviamente variabile e, sulla base del suo variare, si distinguono differenti tipi di verso:

  • Trisillabo                           formato da 3 sillabe
  • Quadrisillabo                 formato da 4 sillabe
  • Quinario                            formato da 5 sillabe
  • Senario                               formato da 6 sillabe
  • Settenario                         formato da 7 sillabe
  • Ottonario                           formato da 8 sillabe
  • Novenario                         formato da 9 sillabe
  • Decasillabo                       formato da 10 sillabe
  • Endecasillabo                 formato da 11 sillabe.

Esistono poi dei doppi versi, e precisamente:

  • Dodecasillabo                   formato da 12 sillabe (cioè da 2 senari)
  • Settenario doppio          formato da 14 sillabe ( cioè da 2 settenari)
  • Ottonario doppio            formato da 16 sillabe (cioè da 2 ottonari).

Innovazioni tipicamente novecentesche sono i versi composti di 13 sillabe[8], a ritmo ternario[9], o addirittura di diciannove. Assai raro, invece, è il Quindicisillabo, verso composto di 15 sillabe[10].

La lettura o scansione metrica di un verso presuppone una pausa che normalmente coincide con la fine del verso stesso; tuttavia, se i versi sono formati da più di dieci sillabe, può essere inserita all’interno del verso stesso una pausa metrica secondaria, denominata cesura, che assume una particolare importanza soprattutto nella scansione metrica dell’endecasillabo (o in generale in quella dei versi doppi) [11]. Ad esempio, l’endecasillabo dantesco: In forma dunque di candida rosa, ha quattro ictus (e precisamente in 2a, 4a, 7a e 10a sillaba) e la cesura dopo la quinta sillaba[12]. Pertanto si potrebbe graficamente rappresentare come segue:

XXX | XXXX

ove i segni e X indicano rispettivamente le sillabe in arsi e in tesi, ed il segno | la cesura. Le due parti di verso separate dalla cesura di dicono emistichi.

Quanto alla lettura o esecuzione dei versi, una volta accertata la struttura ritmica  di un dato metro (che naturalmente non coinciderà con la normale intonazione prosastica), si dovrà fare bene attenzione a non cadere in una scansione troppo rigida o innaturale. Scrive giustamente Angelo Marchese:

«L’ictus può essere sfumato, attenuato, indebolito a vantaggio di altri ictus e così pure la cesura, se lo richiedano più complesse esigenze ritmiche del verso. Nell’endecasillabo del Petrarca: Onde questa gentil donna si parte, si ha una cesura fra gentil e donna e un ictus teoricamente principale su tìl; ma due arsi consecutive (gentìl dònna) sono escluse, per cui gentil avrà due ictus secondari, il primo leggermente più forte ma subordinato all’accento su donna: si ricompone il normale accento tonico di gèntildònna».[13]

 


[1] Il termine verso allude al volgersi indietro della penna e quindi all’andare a capo prima del termine della riga, in opposizione a quanto avviene appunto nella prosa.

[2] Si veda a tale proposito Costanzo Di Girolamo, Critica della letterarietà, Bologna, il Mulino, 1978.

[3] «Fin dalla cultura antica, infatti, sono comuni due concetti correlativi: il primo, che il verso si distingue dalla prosa per un soprappiù di regole, o viceversa che la prosa si distingue dal verso perché ‘libera’ (oratio soluta, ‘discorso sciolto’, ‘non legato dalle regole del verso’); il secondo, che però entrambi dipendono dalla stessa arte del dire, codificata dalla retorica.» (Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 1991, pag. 15-16)

[4] Il cursus è una particolare cadenza ritmica con la quale la prosa ornata del Medioevo era usa concludere il periodo. I più comuni tipi di cursus sono:

il c. planus: polisillabo piano + trisillabo piano (es.: retributionem meretur);

il c. tardus: polisillabo piano + quadrisillabo sdrucciolo (es.: felicitatis percipient);

il c. velox: polisillabo sdrucciolo + quadrisillabo piano (es.: exitum sortiuntur).

Per ulteriori approfondimenti si veda Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1969; Pier Vincenzo Mengaldo, Cursus, in «Enciclopedia Dantesca», II, 1970, pag. 290-295. 

[5] Mario Pazzaglia, Manuale di metrica italiana, Milano, Sansoni, 1994, pag. 5.

[6] Pietro G. Beltrami, op. cit., 1991,  pag. 17.

[7] Il termine cesura viene dal latino caedo (cioè taglio). Indica una spezzatura metrica istituzionale del verso. Nel caso dei versi doppi rappresenta il punto di separazione tra le due misure, come se le due parti del verso doppio fossero due versi indipendenti. Per l’endecasillabo prevale un concetto sintattico: la cesura rappresenta una pausa di intonazione posta dopo la fine della parola che porta l’accento obbligatorio (cioè la 4a o 6a sillaba, nel tipo canonico). Ovviamente, essendo semplicemente un fatto di scansione del verso, di per sé oscillante, la cesura nell’endecasillabo non è assolutamente obbligatoria. (cfr. Gian Luigi Beccaria, Cesura, in «Enciclopedia Dantesca», I, pag. 928-31; Ignazio Baldelli, Endecasillabo, ivi, II, pag. 672-76) Per un concetto metrico di cesura nell’endecasillabo si veda invece Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, il Mulino, II ediz. 1983.

[8] In realtà un verso di tredici sillabe era già stato creato nel sec. XVI. Si veda a tale proposito pag. 28.

[9] Il ritmo ternario è un particolare tipo di ritmo che consiste nella corrispondenza di tre membri con uguale struttura fonica all’interno di un verso o gruppo di versi.

[10] Angelo Marchese, in Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano, 1978, pag. 258, dice che il quindicisillabo è formato da un settenario sdrucciolo e da uno piano, e porta quale esempio un verso del famoso Contrasto di Cielo d’Alcamo (Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state); in realtà, dunque, esso altro non è che un settenario accoppiato. Si veda a tale proposito pag. 27 e sgg.

[11] Dal greco rhythmos (da cui il latino rhythmus). «In metrica, il disporsi nel tempo del testo di elementi riconoscibili e significativi, quali sillabe toniche o atone, suoni uguali, misure sillabiche, secondo figure ugualmente riconoscibili e significative; più in generale, il risultato effettivo, nella scansione temporale del testo, dell’applicazione individuale delle norme metriche, con la valorizzazione di tutti gli elementi facoltativi.» (Pietro G. Beltrami, op. cit., pag. 356) Per ulteriori approfondimenti cfr. Émile Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pag. 390-400; Wilhelm Seidel, Il ritmo, Bologna, il Mulino, 1987.

[12] L’esempio è tratto da: Costanzo di Girolamo, op. cit., 1983, pag. 20, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti. Inoltre cfr. W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1973, pag. 46-50; M. Pazzaglia, op, cit., 1994, pag. 48-55.

[13] A. Marchese, in op. cit, pag. 15

 

[N.B.: questo articolo è parte integrante di un manuale sulla metrica italiana che sarà presto disponibile integralmente nell’area riservata]

Un commento in “Il verso ed il ritmo”

  1. Un post veramente interessante. Attendo con curiosità di poter leggere il resto.

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